lunedì 27 ottobre 2014
W.D.C sotto traccia Capitolo 2
Michael Bardi chiuse a due mandate la porta della sua abitazione,
una piccola monofamiliare in Hoban Street, proprio
all’imbocco del Creek Park che attraversa per alcune miglia
la città di Washington.
Si infilò nella BMW e poi via verso Canal Road. Erano
circa le dieci del mattino ed era sicuro che avrebbe evitato di
una mezz’ora almeno la fiumana di macchine che arrivavano
dalla Virginia per immettersi attraverso i colli di bottiglia del
Key Bridge e degli altri ponti nella Capitale politica e amministrativa
dell’America.
A dire la verità di macchine ce n’erano ancora tante. Soprattutto
sulla White Hurst, la sopraelevata che taglia Georgetown,
il quartiere nobile di Washington.
Michael Bardi mentre guidava rimuginava e commentava
mentalmente le immagini che gli scorrevano davanti. Adesso
era la volta di Georgetown, preesistente alla fondazione
della città di Washington. Un villaggio popolato da migliaia
di schiavi neri. Sono stati loro che hanno scavato il canale
ideato proprio da George Washington.
Che testa quel Washington: progettare un canale che si
inerpicava attraverso chiuse per cento ottanta miglia fino allo
stato dell’Ohio. Ma quando era arrivata la ferrovia il canale
era stato messo fuori servizio dopo pochi anni.
Passato il Key Bridge (dal nome di Francis Scott Key, l’autore
delle parole dell’inno nazionale) la BMW girò a destra
direzione I 66, l’autostrada calvario di centinaia di migliaia
di americani che hanno scelto di risiedere nelle contee della
North Virginia e si spostano ogni giorno per raggiungere il
posto di lavoro nelle agenzie governative, Banca Mondiale,
Fondo Monetario, ambasciate varie.
Michael rifletteva sulla comodità per molti della situazione
che si era venuta a creare dal momento che la gente in Virginia
può contare su case belle e accoglienti a prezzi inferiori
a quelli del Distretto di Columbia. Tanto poi sono i cittadini
della Capitale che devono pagare con le loro tasse l’uso delle
strade fatto da questo esercito che va e viene ogni giorno,
includendo anche quelli che si spostano dal Maryland. Vuoi
pagare poco e stare nel verde della Virginia? E allora fatti le
ore di coda a filo di paraurti sulla maledetta I 66.
Imboccata l’autostrada Michael Bardi alzò il piede dall’acceleratore
ricordandosi che la Virginia era famosa per la severità
della sua polizia stradale e per la facilità con cui ti appioppava
multe salate, ti mandava dal giudice o in galera per
infrazioni giudicate pesanti. Del resto sulle autostrade americane
non solo sei controllato dai radar delle auto della polizia
ufficiale e dalle civette mascherate da vetture civili, ma anche
dagli aerei superleggeri che sorvolano l’area nelle ore di punta.
E dalle denunce fatte dagli altri automobilisti via cellulare.
Michael regolò il controllo di velocità sulle sessanta cinque
miglia perché la sua macchina facilmente lo portava a superare
i limiti senza che se ne accorgesse. E dire che in Germania
la sua potente BMW poteva correre a duecento all’ora senza
essere bloccata dalla polizia.
Si stava avvicinando al bivio, per l’aereoporto internazionale
Foster Dulles. Michael continuò sulla I 66 e presto la
BMW raggiunse l’uscita 49 per Gainsville. Direzione Warrenton
e poi verso Culpeper attraverso boschi.
Era la prima settimana di maggio e la splendida natura
della Virginia era in tutto il suo fulgore.
Mentre guidava Michael Bardi continuava a ruminare
pensieri, ricordi, esperienze, come fa ogni persona che sia impegnata
in un percorso solitario in macchina. Se non pensi
e discuti con te stesso rischi di addormentarti, specialmente
quando sei in debito di sonno o, come succedeva a Michael,
in un fuso orario diverso.
In quell’area si trovavano aziende agricole e fattorie di
supermilionari e qualche miliardario. Si nascondevano in
queste tenute di centinaia di ettari, con pista per i jet. Si vedevano
strettamente tra loro. Oppure ricevevano amici che
arrivavano da altre parti con i loro aeroplani. Molto spazio
della giornata era dedicato al cavallo. Dura la vita del miliardario,
pensò Michael.
Gli venne in mente il caso di quell’ereditiera che si era innamorata
del giocatore di polo argentino che, nella migliore
tradizione sud americana, era un macho e la tradiva a go-go.
L’ereditiera allora si era infuriata, aveva imbracciato un fucile
e fatto fuori il fedifrago che oltretutto le aveva munto un bel
po’ di milioni.
L’ereditiera era stata condannata a pena mite nel carcere
locale dove le avevano allestito una cella-camera-appartamento.
Il suo maggiordomo le faceva recapitare ogni giorno
i manicaretti preferiti che lei, anima generosa, divideva con
le altre detenute. E dopo pochi mesi l’ereditiera era ritornata
nella sua magione. A conferma del motto universale che la
giustizia non è uguale per tutti, sorrideva tra sé Michael.
Ancora qualche miglio di curve tra i boschi, godendo della
bellezza della natura e della stabilità della sua macchina.
Ed ecco apparire il cartello della Tuscan View Farm in località
Jeffersonton. Il riferimento alla Toscana non era casuale:
per decenni la fattoria era stata condotta da una coppia di
Arezzo che poi l’aveva venduta a un avvocato della Virginia
innamorato della terra e dei boschi più che delle Pandette.
Era poi passata di mano altre volte pur conservando il nome
originario.
Michael Bardi entrò nel cancello seguendo il vialetto fino
a che gli si presentò davanti il corpo principale della villa.
Avanzando piano decise di parcheggiare la vettura vicino
alla piscina, perché gli era sembrato di intravvedere qualcuno.
“Salve. Bene arrivato. Venga qui... ”.
Michael spinse il cancelletto di legno e rimase un pò interdetto.
Di fronte a lui sulla scaletta stava salendo una bionda
divina, contenuta, si fa per dire, in uno stringatissimo costume
da bagno con minicoppette sul seno.
Una bocca rosso carne con una corona di denti bianchissimi
stava indirizzandogli un: “Allora ce l’ha fatta. Mettiamoci
sotto l’ombrellone”.
“Non fare l’imbecille”, intimò la parte razionale di Michael
a quella gestita sotto la cintura. “E controlla gli ormoni”.
“Jeane Pallettieri mi ha chiamato da Boston e mi ha detto
di averle dato il mio indirizzo. Però non ha specificato
il perché di questa visita. Mi ha detto solo che era molto
importante e che il visitatore era un giovane di bell’aspetto.
Concordo pienamente”, disse la Bionda, sorriso malizioso e
accavallamento delle lunghe gambe bagnate.
Michael Bardi inspirò profondamente e sorridendo a sua
volta ma in forma amicale, disse: “Perfetto. Allora sa tutto o
quasi. Così come io so tutto. O quasi”.
“Posso offrirle un bicchiere di limonata?” fece la Bionda.
Mr. Bardi ringraziò con un cenno della testa.
Da una brocca sul tavolino da spiaggia la Super Bionda
versò in due bicchieri la limonata. “Mi dica perché è venuto
qui e con tanta urgenza”.
Michael cominciò a parlare. Le disse che si stavano preparando
momenti difficili per la nazione. Ma anche per qualcuno
che era stato vicino al presidente. E lui sapeva insieme
a pochi altri della storia che lei aveva avuto. Una storia basata
su ragioni professionali… e via di seguito.
La giovane ascoltava attenta, un ovale perfetto incorniciato
dai capelli oro bagnati che continuavano a gocciolare sul
seno trattenuto a stento dalla fettuccia di tessuto.
“Michael”, disse la donna, “continuo a non capire per
quale ragione sei venuto fin qui. Sì d’accordo di professione
sono una escort. Vuoi conoscere la mia storia? Ti assicuro che
non cadrò nel patetico di circostanza”.
Michael era affascinato. Non solo dalla bellezza di quella
giovane donna. Ma dalla simpatia che riusciva a esprimere e,
ne era sicuro, non si trattava solo di un talento professionale.
Portò alle labbra il bicchiere di limonata e sorrise alla ragazza
invitandola con un gesto della mano a proseguire.
“È presto detto: laurea ‘magna cum laude’ a Harvard in
economia. Poi un MBA alla Georgetown University. Vado
avanti?”.
“Sì, per favore”.
“Inizio come una delle tante donne in carriera. Piena di
sacro fuoco e di voglia di competere con gli altri, maschi
e femmine e soprattutto con me stessa per dimostrare che
valevo molto. Poi mi hanno inserito nel tritacarne. In ogni
azienda dove ho lavorato i maschi, aiutati spesso dalle femmine
invidiose, mi hanno circondato di bavosa ammirazione
perché puntavano a venire a letto con me. Se non ci riuscivano,
perché non mi andava, allora mi preparavano trappole
da ogni parte.
Sono arrivata a essere amministratore delegato di una media
azienda in California. Avevano corrotto persino le mie
segretarie per farmi firmare documenti che mi avrebbero incastrato
di fronte alla legge. Per fortuna, me ne sono accorta
per tempo. Cinema? Non ero il tipo adatto e poi a Hollywood
bisogna cominciare a darla quando sei una ragazzina alle
persone giuste nel momento giusto. Io ero già fuori mercato.
Ma, soprattutto, troppo preparata.
E questo, come sai, è un grave handicap per una donna
soprattutto se bella. Bene: allora ho deciso di fare questo mestiere.
Scegliendo i clienti giusti, che mi andavano a genio e
che avevano il portafoglio pieno”.
Michael Bardi ascoltava rapito, ammirato per la perfetta
dizione di quella ‘macchina da guerra’, per il suo body language
provocante ma non volgare.
“Vado avanti?” chiese la Bionda versandosi ancora un po’
di limonata.
Michael annuiva conquistato, mentre la parte razionale
cercava di contrastare lo tzunami di ormoni che si stava scatenando.
“Del resto non c’è molta differenza da un ‘date’. Si va
all’appuntamento sapendo che se ci piaciamo alla fine poi
si va a letto da lui o da me. Bene: accetto inviti a cena in
locali raffinati dove faccio la mia gran figura. Guarda: non
solo come bella donna ma come persona che sa tenere una
conversazione di livello. Non sono un’oca. Ho conosciuto
tanti uomini potenti che spesso si dimostravano impotenti.
Non mi sono mai abbassata alle variazioni tipo sado-maso. Se
uno non va su di giri quando mi guarda è bene che si scelga
un’altra professionista. E poi io offro oltre al mio corpo, il
mio cervello. Questo è tutto. Soddisfatto? Vuoi che ti consideri
come potenziale cliente? Costo molto, ma guardandoti
sono disposta a fare un piccolo sconto”.
Michael sguainò a sua volta il suo sorriso luminoso e si
accorse che veniva molto apprezzato.
Il telefono cominciò a suonare. La bionda rispose, Michael
percepiva il suono di una voce femminile che stava piangendo,
ma non riusciva a distinguere le parole. La bionda escort
si rabbuiava man mano che ascoltava. “Dio mio!” esclamò.
Poi mise giù il ricevitore.
“Mi ha chiamato un’amica, una collega da Boston”, disse.
“Jeane Pallettieri poche ore fa mentre stava facendo jogging
vicino a un parco pubblico è stata bloccata e violentata da
due individui che sono scappati dopo averla ferita con numerose
coltellate. È deceduta pochi minuti fa all’ospedale dove
l’hanno portata praticamente dissanguata, perché era mattina
presto e nessuno è accorso alle sue grida. Che disgrazia
terribile”.
Michael notò che la bella donna che gli stava davanti era
molto turbata, ma non riusciva a versare una lacrima. In maniera
automatica la bionda alzò la caraffa della limonata e gli
riempì di nuovo il bicchiere, aggiungendo: “Scusami. Mi sta
venendo freddo. Vado a cambiarmi”.
Michael si adagiò sulla poltrona di plastica verde. E si mise
a sorbire la limonata che era quello che ci voleva con quel
caldo incipiente, anche se era maggio.
La sedia cominciò a oscillare. Il terreno si muoveva. Un
forte ticchettio gli entrava nella testa. “Forse un picchio gigante… ?”.
No erano i suoi denti che sbattevano.
L’acqua della piscina cominciò a girargli intorno, si sentiva
in un gorgo dal quale cercava disperatamente di uscire per
respirare. Ma non poteva muoversi: era paralizzato e spaventato.
L’ombrellone si chiuse e puntò direttamente contro il
suo viso come una lancia. Ecco stava per essere trapassato.
Provò a urlare, ma la voce era un rantolo simile al gracchiare
dell’interfonico nell’ufficio della segretaria del Boss.
Poi un velo grigio gli scese sugli occhi e precipitò in un
sonno profondo.
Quando riuscì a svegliarsi e guardò l’orologio si accorse
che erano passate almeno due ore da quando era stato narcotizzato
dalla super escort.
Un biglietto attaccato alla sua camicia con una di quelle
clip per documenti.
“Caro Michael, mi dispiace per questo commiato non
troppo ortodosso. Ti ho appena conosciuto e non so se posso
fidarmi di te. Ma ho capito che anche per me è meglio tagliare
la corda. Sono in pericolo. Così come lo era Jeane che
adesso non può fare paura a nessuno. Arrivederci chissà dove
e chissà quando. Olivia”.
Dopo un paio d’ore di macchina Michael era di nuovo
a casa, giusto in tempo per accorgersi che qualcuno aveva
sfondato il vetro di una finestra e si era introdotto nella sua
abitazione. Studio svaligiato, laptop e PC spariti, cassetti rovesciati
per terra. In un piatto schiacciato trovò un mozzicone
di sigaretta che annusò. Era marijuana di prima qualità.
______________________________________
(Ogni riferimento a fatti realmente accaduti e/o a persone realmente
esistenti o esistite è da ritenersi puramente casuale.
Any resemblance to real events and/or to real persons, living or dead, is
purely coincidental)
mercoledì 22 ottobre 2014
WDC sotto traccia Capitolo 1
La BMW proveniva dalla Quattordicesima Strada. Attraversò
l’incrocio con Pennsylvania Avenue. Di fronte c’era il
Wilson Building, la sede del governo del Distretto di Columbia,
e proseguì senza superare le venticinque miglia per fermarsi
con il lampeggiante di sinistra nel mezzo della strada.
Doveva entrare nel cancello del Reagan Building. “Immagina
se avessi dovuto fare questa manovra a Roma – pensò
mettendo la freccia - I mortacci, le dita sventolate, il clacson
suonato per protesta. E qui invece, a Washington capitale
della nazione e ancora per poco del mondo, tutti tranquilli
in fila indiana”.
Così rifletteva Michael Bardi mentre aspettava che il traffico
che veniva in senso contrario sulla Quattordicesima gli
permettesse di girare a sinistra. Un SUV Mercedes si fermò e
il guidatore, una donna, indicò a Michael di passare.
“E adesso cominciamo con la solita trafila di routine”,
disse fra sé Michael. Un gigante della security fece cenno di
fermarsi dove diceva lui, prima della barriera. Si avvicinò con
uno specchio montato su un’asta e cominciò a ispezionare il
fondo della vettura. Poi indicò al guidatore di aprire il bau-
le. Michael eseguì. E infine il controllo della patente che in
America è il documento di riconoscimento per eccellenza.
Il poliziotto terminò le sue ispezioni. Tornò nella garitta
e azionò il pulsante che fece abbassare le barriere e indicò a
Michael dove doveva andare a parcheggiare. Lunga discesa
seguendo i cartelli che indicavano i lots dove era consentito
lasciare la macchina.
“Mica facile trovare un posto oggi”, rifletteva Michael,
“Hanno abolito il servizio di ‘valet’, adesso devi fare da solo.
Ecco là uno libero”.
Parcheggiò vicino all’ascensore con il distributore di biglietti
che ricordavano a che piano e in quale sezione del Reagan
Building uno era arrivato. Meglio scrivere il numero
dove si era lasciata la macchina.
L’ascensore si fermò al livello lobby. Adesso Michael doveva
riuscire a trovare la stanza dove si teneva il meeting. Seguì
l’indicazione ‘pavillion’ e poi girò a sinistra.
Le cinque del pomeriggio: i funzionari dei vari dipartimenti
e del World Trade Center stavano sfollando.
Ora di punta che bloccava le uscite verso i ponti con la
Virginia e le contee del Maryland per un paio di ore. Poi
Washington avrebbe riacquistato il suo aspetto di media città
un po’ addormentata. Non poteva certo essere paragonata a
New York. Però a Washington Michael Bardi ci stava benone.
Almeno per quei pochi giorni al mese quando ritornava dai
suoi giri intorno al mondo.
“Devo chiedere a qualcuno, perché qui mi sto perdendo”.
Finalmente incontrò un uomo della sicurezza, un nero, giovane
e faccia simpatica non uno dei soliti che quando gli parli
ti danno occhiate di noia se non di disprezzo.
L’AfricanAmerican condusse Mr. Bardi in un corridoio e
gli indicò la porta da superare.
Oltre la quale vigilava una segretaria di mezza età, chiaramente
contrariata perché doveva fare straordinario e poi,
magari, un’ora di macchina per andare a casa.
Scrutò il nuovo arrivato, controllò il nome su una list e
gli chiese di mostrare un documento. Michael tirò fuori di
nuovo la patente che sembrò rassicurare la signora. Pulsante
di un interfonico: “Michael Bardi è arrivato”. “Fallo passare”.
la risposta gracchiata arrivava dal piccolo altoparlante.
Pesante porta di mogano con apertura elettrica, breve corridoio
con luci molto basse, la donna precedeva l’ospite zampettando
sui tacchi a spillo.
“Qualche anno fa deve essere stata molto interessante. Belle
gambe”, rifletteva Michael, mentre la signora accentuava il
movimento dei glutei perché sapeva di essere scannerizzata.
Altra porta massiccia, pulsante e nel varco dell’ingresso un
giovane di due metri, biondo, atletico, vestito nero a righe,
cravatta d’ordinanza anch’essa a righe su fondo bianco.
“Come sta, Mr. Bardi? Sono Mark Friedman assistente del
presidente. La prego di seguirmi”.
I due attraversarono un altro piccolo corridoio che li introdusse
finalmente nella stanza della riunione: l’ufficio del
boss indiscusso della grande Law Firm da cinquecento avvocati.
Mobili pesanti di noce, poltrone rivestite di cuoio,
pareti coperte da tessuto verde oliva stile casa di George Washington
a Mount Vernon, Alexandria.
Luce diffusa e lampade da tavolo discretamente accese.
Intorno a un piccolo tavolo sul quale era posato un vassoio
d’argento con bicchieri e una caraffa di cristallo con dell’acqua,
erano sedute quattro persone.
Tra queste, quella che senza ombra di dubbio era la più
autorevole, regalò a Michael un sorriso gelido e gli indicò
l’ultima poltrona ancora libera di fronte a lui.
“Finalmente è arrivato. Bene spostiamoci!”, disse il Boss
acido come un limone.
Bardi pensò di dirgli che l’appuntamento era per le cinque
e il suo ritardo, dovuto alla ricerca della sala riunioni, era
solo di qualche minuto. Poi lasciò perdere. Tanto si trattava
della solita sceneggiata fatta dal potente di turno a beneficio
o maleficio dei suoi diretti collaboratori. E lui stava recitando
la parte dell’agnello sacrificale.
Tutti si alzarono, seguendo il boss che si avviava verso un
piccolo ascensore situato proprio dietro una libreria.
Qualche secondo la corsa dell’ascensore in discesa. La porta
si aprì e Michael si rese conto che si trovavano adesso in
una parte dei sotterranei del palazzo.
Il Boss tirò fuori una chiave e con quella aprì una porta
metallica subito dopo l’uscita dall’ascensore.
Entrarono in una stanza assolutamente spoglia: un tavolo,
una decina di sedie di legno, pareti di un colore anodizzato
tendente al grigio scuro.
“Bene, disse il Boss, cominciamo a verificare i punti di vista.
Inizio io dicendo al nostro ospite che questa è una Gabbia
di Faraday. Siamo circondati da una rete di rame e le nostre
conversazioni non saranno ascoltate da alcuno. Quanto alla
situazione che stiamo per vivere devo dire che sono molto
preoccupato perché qui rischiamo di perdere tutto. Sherman
vada avanti lei”.
Sherman era un tipo mingherlino, calvizie ripudiata con
tentativo costoso di riporto dei capelli dalla nuca. Voce stridula.
Affanno tipico di quelli che si fanno cogliere dal panico
quando devono parlare di fronte al loro capo.
“Ecco: se i tabloid escono con la storia del Presidente che,
quando il suo matrimonio stava attraversando un periodo
di mare mosso, si fece adescare dalla nota maitresse, Jeane
Pallettieri, che gli mise a disposizione una delle sue più belle
escort, allora tutto salta. Fino a ora siamo riusciti a tamponare
l’uscita di questa storia. Ma i margini di resistenza sono sempre
più esigui”.
“Inutile dire cosa succederà appena questa storia sarà pubblicata
col massimo risalto dai giornali scandalistici”, aggiunse
Mark Schwartz seduto alla destra del chairman. “Tutti i
nostri progetti saranno stoppati, il Presidente costretto alle
dimissioni se non vorrà rischiare l’impeachment, come del resto
successe a Clinton almeno per un ramo del Congresso”.
A questo punto intervenne con una certa aria irritata il
Boss e rivolgendosi a Michael gli disse:
“Oggi le abbiamo chiesto di venire qui e di lasciare momentaneamente
i lavori che sta seguendo per noi. La ragione
è presto detta: lei ha diversi passaporti. Ma quello che ci interessa
questa sera è, come dire?, la sua esperienza di situazioni
analoghe maturate in Italia. Io mi rendo conto bene
che la morale europea e quella italiana, in particolare, non
corrispondono certo a quella americana dove le storie di sesso
illegittimo dei personaggi politici non sono accettate dall’opinione
pubblica e sulle quali, è ovvio, ci si butta l’opposizione
con tutto il peso delle sue strutture centrali e periferiche”.
Michael Bardi si aggiustò sulla sedia che era scomoda in
verità. Schiaritasi la voce disse:
“Ammettiamo come molto probabile l’uscita dei tabloid.
In Italia o in Francia non succederebbe nulla. Le storie di
sesso dei personaggi della cronaca mondana e politica interessano,
ma non scatenano reazioni indignate dei perbenisti.
Anche perché in ogni italiano e in ogni francese c’è sempre
un sottofondo di “magari fossi io!”. L’ammirazione cioè non
dichiarata verso chi si permette di essere circondato da donne
bellissime, anche se pagate. Anzi, a maggiore ragione, perché
proprio quei personaggi hanno disponibilità finanziarie che
l’uomo della strada non ha”.
Paul Kidman, il presidente del grande studio di avvocati,
aspirò la sigaretta elettronica che sperava gli consentisse di
diminuire il numero di quelle normali che da anni superava
i due pacchetti al giorno.
“Senta, Bardi, queste considerazioni le conosciamo a
memoria, perché anche noi leggiamo i giornali e siamo informati
sui vari ‘Bunga-Bunga’ e via citando. Quello che le
chiediamo questa sera è il suo punto di vista come europeo
e come americano sulla situazione che si è creata intorno al
nostro Presidente”.
Michael Bardi odiava quell’uomo segaligno e l’accozzaglia
di figuri che gli stava intorno. Ma pagavano molto bene per
assicurarsi la sua consulenza. E non era il caso di far trasparire
il senso di irritazione.
“Secondo me la cosa migliore – disse con un atteggiamento
sereno - è che il Presidente vada in televisione e si rivolga
direttamente al cittadino americano dicendo:
“Mi sono trovato in un periodo di grande affanno matrimoniale.
Ho scoperto che mia moglie aveva perso la testa per
un ufficiale della sua security. Ma non volevo distruggere il
nostro legame, soprattutto per rispetto verso i miei figli. In
un momento di debolezza mi sono accompagnato con una
signora che è risultata essere poi un’escort che era sta pagata
da qualcuno dell’opposizione per tirarmi il colpo gobbo.
Sono specialisti in questo anche se poi negano. Il mio comportamento
non ha influito in alcun modo sul mio lavoro e
le mie decisioni politiche. Questo è il mio secondo mandato
e con il mio gabinetto sono riuscito a ridare fiducia all’America,
a ricostruire milioni di posti di lavoro, a consolidare il
primato degli Stati Uniti. Questa fiducia chiedo a voi di confermarla.
Perché noi Americani siamo un popolo di persone
tolleranti che riescono a comprendere e perdonare anche i
drammi familiari”. Ecco - concluse con una certa enfasi Michael
Bardi - io penso che il Presidente dovrebbe rivolgersi in
questo modo alla Nazione”.
“Lei parla così, intervenne il Boss, perché è mezzo italiano
e per giunta massone”.
“Perdoni se la interrompo – disse il giovane Michael - Non
capisco che cosa c’entri la mia vera o presunta appartenenza
all’Istituzione… ”.
Paul Kidman gli rivolse un ghigno compiaciuto perché
era riuscito a far centro nella compostezza professionale di
Michael Bardi. Ed era la sua tecnica preferita che consisteva
nel mettere in difficoltà chi gli stava di fronte, uscendo
all’improvviso con una notazione che si riferiva a un aspetto
personale di cui era a conoscenza. Come dirgli: “Guarda che
di te e su di te so tante cose”. E quasi sempre questo metteva
in serio imbarazzo il suo interlocutore e dava a lui un vantaggio
dialettico.
“Glielo spiego subito - disse - Per voi massoni la tolleranza
è la virtù fondamentale. Ma in politica non si fanno
prigionieri in America. Guai al vinto. La sua ipotesi non mi
convince. Ecco perché dobbiamo agire subito”.
Prese un bicchiere si versò un po’ d’acqua mentre i suoi
assistenti puntavano ansiosi su di lui sguardi preoccupati.
“L’unica soluzione - concluse il Boss - è quella di neutralizzare
i protagonisti di questa storia a cominciare dalla escort
e dalla maitresse. Qualcuno di voi vada a Boston e veda di
rintracciare la puttana. Idem per quanto riguarda la escort che
dovrebbe stare da qualche parte in Virginia, a quanto mi viene
riferito”.
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l’incrocio con Pennsylvania Avenue. Di fronte c’era il
Wilson Building, la sede del governo del Distretto di Columbia,
e proseguì senza superare le venticinque miglia per fermarsi
con il lampeggiante di sinistra nel mezzo della strada.
Doveva entrare nel cancello del Reagan Building. “Immagina
se avessi dovuto fare questa manovra a Roma – pensò
mettendo la freccia - I mortacci, le dita sventolate, il clacson
suonato per protesta. E qui invece, a Washington capitale
della nazione e ancora per poco del mondo, tutti tranquilli
in fila indiana”.
Così rifletteva Michael Bardi mentre aspettava che il traffico
che veniva in senso contrario sulla Quattordicesima gli
permettesse di girare a sinistra. Un SUV Mercedes si fermò e
il guidatore, una donna, indicò a Michael di passare.
“E adesso cominciamo con la solita trafila di routine”,
disse fra sé Michael. Un gigante della security fece cenno di
fermarsi dove diceva lui, prima della barriera. Si avvicinò con
uno specchio montato su un’asta e cominciò a ispezionare il
fondo della vettura. Poi indicò al guidatore di aprire il bau-
le. Michael eseguì. E infine il controllo della patente che in
America è il documento di riconoscimento per eccellenza.
Il poliziotto terminò le sue ispezioni. Tornò nella garitta
e azionò il pulsante che fece abbassare le barriere e indicò a
Michael dove doveva andare a parcheggiare. Lunga discesa
seguendo i cartelli che indicavano i lots dove era consentito
lasciare la macchina.
“Mica facile trovare un posto oggi”, rifletteva Michael,
“Hanno abolito il servizio di ‘valet’, adesso devi fare da solo.
Ecco là uno libero”.
Parcheggiò vicino all’ascensore con il distributore di biglietti
che ricordavano a che piano e in quale sezione del Reagan
Building uno era arrivato. Meglio scrivere il numero
dove si era lasciata la macchina.
L’ascensore si fermò al livello lobby. Adesso Michael doveva
riuscire a trovare la stanza dove si teneva il meeting. Seguì
l’indicazione ‘pavillion’ e poi girò a sinistra.
Le cinque del pomeriggio: i funzionari dei vari dipartimenti
e del World Trade Center stavano sfollando.
Ora di punta che bloccava le uscite verso i ponti con la
Virginia e le contee del Maryland per un paio di ore. Poi
Washington avrebbe riacquistato il suo aspetto di media città
un po’ addormentata. Non poteva certo essere paragonata a
New York. Però a Washington Michael Bardi ci stava benone.
Almeno per quei pochi giorni al mese quando ritornava dai
suoi giri intorno al mondo.
“Devo chiedere a qualcuno, perché qui mi sto perdendo”.
Finalmente incontrò un uomo della sicurezza, un nero, giovane
e faccia simpatica non uno dei soliti che quando gli parli
ti danno occhiate di noia se non di disprezzo.
L’AfricanAmerican condusse Mr. Bardi in un corridoio e
gli indicò la porta da superare.
Oltre la quale vigilava una segretaria di mezza età, chiaramente
contrariata perché doveva fare straordinario e poi,
magari, un’ora di macchina per andare a casa.
Scrutò il nuovo arrivato, controllò il nome su una list e
gli chiese di mostrare un documento. Michael tirò fuori di
nuovo la patente che sembrò rassicurare la signora. Pulsante
di un interfonico: “Michael Bardi è arrivato”. “Fallo passare”.
la risposta gracchiata arrivava dal piccolo altoparlante.
Pesante porta di mogano con apertura elettrica, breve corridoio
con luci molto basse, la donna precedeva l’ospite zampettando
sui tacchi a spillo.
“Qualche anno fa deve essere stata molto interessante. Belle
gambe”, rifletteva Michael, mentre la signora accentuava il
movimento dei glutei perché sapeva di essere scannerizzata.
Altra porta massiccia, pulsante e nel varco dell’ingresso un
giovane di due metri, biondo, atletico, vestito nero a righe,
cravatta d’ordinanza anch’essa a righe su fondo bianco.
“Come sta, Mr. Bardi? Sono Mark Friedman assistente del
presidente. La prego di seguirmi”.
I due attraversarono un altro piccolo corridoio che li introdusse
finalmente nella stanza della riunione: l’ufficio del
boss indiscusso della grande Law Firm da cinquecento avvocati.
Mobili pesanti di noce, poltrone rivestite di cuoio,
pareti coperte da tessuto verde oliva stile casa di George Washington
a Mount Vernon, Alexandria.
Luce diffusa e lampade da tavolo discretamente accese.
Intorno a un piccolo tavolo sul quale era posato un vassoio
d’argento con bicchieri e una caraffa di cristallo con dell’acqua,
erano sedute quattro persone.
Tra queste, quella che senza ombra di dubbio era la più
autorevole, regalò a Michael un sorriso gelido e gli indicò
l’ultima poltrona ancora libera di fronte a lui.
“Finalmente è arrivato. Bene spostiamoci!”, disse il Boss
acido come un limone.
Bardi pensò di dirgli che l’appuntamento era per le cinque
e il suo ritardo, dovuto alla ricerca della sala riunioni, era
solo di qualche minuto. Poi lasciò perdere. Tanto si trattava
della solita sceneggiata fatta dal potente di turno a beneficio
o maleficio dei suoi diretti collaboratori. E lui stava recitando
la parte dell’agnello sacrificale.
Tutti si alzarono, seguendo il boss che si avviava verso un
piccolo ascensore situato proprio dietro una libreria.
Qualche secondo la corsa dell’ascensore in discesa. La porta
si aprì e Michael si rese conto che si trovavano adesso in
una parte dei sotterranei del palazzo.
Il Boss tirò fuori una chiave e con quella aprì una porta
metallica subito dopo l’uscita dall’ascensore.
Entrarono in una stanza assolutamente spoglia: un tavolo,
una decina di sedie di legno, pareti di un colore anodizzato
tendente al grigio scuro.
“Bene, disse il Boss, cominciamo a verificare i punti di vista.
Inizio io dicendo al nostro ospite che questa è una Gabbia
di Faraday. Siamo circondati da una rete di rame e le nostre
conversazioni non saranno ascoltate da alcuno. Quanto alla
situazione che stiamo per vivere devo dire che sono molto
preoccupato perché qui rischiamo di perdere tutto. Sherman
vada avanti lei”.
Sherman era un tipo mingherlino, calvizie ripudiata con
tentativo costoso di riporto dei capelli dalla nuca. Voce stridula.
Affanno tipico di quelli che si fanno cogliere dal panico
quando devono parlare di fronte al loro capo.
“Ecco: se i tabloid escono con la storia del Presidente che,
quando il suo matrimonio stava attraversando un periodo
di mare mosso, si fece adescare dalla nota maitresse, Jeane
Pallettieri, che gli mise a disposizione una delle sue più belle
escort, allora tutto salta. Fino a ora siamo riusciti a tamponare
l’uscita di questa storia. Ma i margini di resistenza sono sempre
più esigui”.
“Inutile dire cosa succederà appena questa storia sarà pubblicata
col massimo risalto dai giornali scandalistici”, aggiunse
Mark Schwartz seduto alla destra del chairman. “Tutti i
nostri progetti saranno stoppati, il Presidente costretto alle
dimissioni se non vorrà rischiare l’impeachment, come del resto
successe a Clinton almeno per un ramo del Congresso”.
A questo punto intervenne con una certa aria irritata il
Boss e rivolgendosi a Michael gli disse:
“Oggi le abbiamo chiesto di venire qui e di lasciare momentaneamente
i lavori che sta seguendo per noi. La ragione
è presto detta: lei ha diversi passaporti. Ma quello che ci interessa
questa sera è, come dire?, la sua esperienza di situazioni
analoghe maturate in Italia. Io mi rendo conto bene
che la morale europea e quella italiana, in particolare, non
corrispondono certo a quella americana dove le storie di sesso
illegittimo dei personaggi politici non sono accettate dall’opinione
pubblica e sulle quali, è ovvio, ci si butta l’opposizione
con tutto il peso delle sue strutture centrali e periferiche”.
Michael Bardi si aggiustò sulla sedia che era scomoda in
verità. Schiaritasi la voce disse:
“Ammettiamo come molto probabile l’uscita dei tabloid.
In Italia o in Francia non succederebbe nulla. Le storie di
sesso dei personaggi della cronaca mondana e politica interessano,
ma non scatenano reazioni indignate dei perbenisti.
Anche perché in ogni italiano e in ogni francese c’è sempre
un sottofondo di “magari fossi io!”. L’ammirazione cioè non
dichiarata verso chi si permette di essere circondato da donne
bellissime, anche se pagate. Anzi, a maggiore ragione, perché
proprio quei personaggi hanno disponibilità finanziarie che
l’uomo della strada non ha”.
Paul Kidman, il presidente del grande studio di avvocati,
aspirò la sigaretta elettronica che sperava gli consentisse di
diminuire il numero di quelle normali che da anni superava
i due pacchetti al giorno.
“Senta, Bardi, queste considerazioni le conosciamo a
memoria, perché anche noi leggiamo i giornali e siamo informati
sui vari ‘Bunga-Bunga’ e via citando. Quello che le
chiediamo questa sera è il suo punto di vista come europeo
e come americano sulla situazione che si è creata intorno al
nostro Presidente”.
Michael Bardi odiava quell’uomo segaligno e l’accozzaglia
di figuri che gli stava intorno. Ma pagavano molto bene per
assicurarsi la sua consulenza. E non era il caso di far trasparire
il senso di irritazione.
“Secondo me la cosa migliore – disse con un atteggiamento
sereno - è che il Presidente vada in televisione e si rivolga
direttamente al cittadino americano dicendo:
“Mi sono trovato in un periodo di grande affanno matrimoniale.
Ho scoperto che mia moglie aveva perso la testa per
un ufficiale della sua security. Ma non volevo distruggere il
nostro legame, soprattutto per rispetto verso i miei figli. In
un momento di debolezza mi sono accompagnato con una
signora che è risultata essere poi un’escort che era sta pagata
da qualcuno dell’opposizione per tirarmi il colpo gobbo.
Sono specialisti in questo anche se poi negano. Il mio comportamento
non ha influito in alcun modo sul mio lavoro e
le mie decisioni politiche. Questo è il mio secondo mandato
e con il mio gabinetto sono riuscito a ridare fiducia all’America,
a ricostruire milioni di posti di lavoro, a consolidare il
primato degli Stati Uniti. Questa fiducia chiedo a voi di confermarla.
Perché noi Americani siamo un popolo di persone
tolleranti che riescono a comprendere e perdonare anche i
drammi familiari”. Ecco - concluse con una certa enfasi Michael
Bardi - io penso che il Presidente dovrebbe rivolgersi in
questo modo alla Nazione”.
“Lei parla così, intervenne il Boss, perché è mezzo italiano
e per giunta massone”.
“Perdoni se la interrompo – disse il giovane Michael - Non
capisco che cosa c’entri la mia vera o presunta appartenenza
all’Istituzione… ”.
Paul Kidman gli rivolse un ghigno compiaciuto perché
era riuscito a far centro nella compostezza professionale di
Michael Bardi. Ed era la sua tecnica preferita che consisteva
nel mettere in difficoltà chi gli stava di fronte, uscendo
all’improvviso con una notazione che si riferiva a un aspetto
personale di cui era a conoscenza. Come dirgli: “Guarda che
di te e su di te so tante cose”. E quasi sempre questo metteva
in serio imbarazzo il suo interlocutore e dava a lui un vantaggio
dialettico.
“Glielo spiego subito - disse - Per voi massoni la tolleranza
è la virtù fondamentale. Ma in politica non si fanno
prigionieri in America. Guai al vinto. La sua ipotesi non mi
convince. Ecco perché dobbiamo agire subito”.
Prese un bicchiere si versò un po’ d’acqua mentre i suoi
assistenti puntavano ansiosi su di lui sguardi preoccupati.
“L’unica soluzione - concluse il Boss - è quella di neutralizzare
i protagonisti di questa storia a cominciare dalla escort
e dalla maitresse. Qualcuno di voi vada a Boston e veda di
rintracciare la puttana. Idem per quanto riguarda la escort che
dovrebbe stare da qualche parte in Virginia, a quanto mi viene
riferito”.
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