martedì 27 gennaio 2015

W.D.C sotto traccia - Capitolo 20

Giacomo Delli Carri funzionario del MEF, ministero
dell’economia e finanze, riuscì a trovare un posto nel vagone
superaffollato della metro, linea A, Anagnina, Stazione Termini.
Aveva già passati venti minuti appeso alla maniglia e
stando attento che nessuno si strusciasse più di tanto perchè
di ladri la metropolitana di Roma era piena. Soprattutto durante
le ore di punta. Con un sospiro di sollievo Giacomo
Delli Carri, raccolse la borsa di finta pelle stretta al suo fianco
e socchiuse gli occhi cullato dallo sferragliare delle ruote sui
binari.
Ma non è che fosse facile fare una pennichella, ammesso
che ne avesse avuta la voglia. Perchè era un continuo andirivieni
di gente che scendeva ed entrava schiamazzando, inveendo
contro quelli che si ingommavano vicino alle porte e
non ti lasciavano passare.
Odori spesso lancinanti di gente che si lavava poco e una
congerie di razze ed espressioni diverse. Un cinema etnico alle
sette del mattino. Stando seduto gli era facile vedere come si
comportava la gente intorno a lui.
Lo colpì in particolare quel tale di mezza eta’ che stava
rimorchiando nella ressa una matura signora dalla bionda
capigliatura ossigenata. Ormai era arrivato al palpeggio insinuante
e considerando l’espressione assorta della vittima
l’operazione stava trovando un discreto gradimento.
La vista di quei due a mezzo metro dal suo naso gli aveva
risvegliato un certo formicolio nelle parti basse. Ma soprattutto
tanti ricordi di quando lui e Amelia stavano insieme.
Uno dei tanti errori della sua vita, disse tra sè. Ma per
qualche tempo ne era valsa la pena. Amelia era una bella donna,
molto piena in carne, un fisico da popolana romana stile
Fornarina. Ma a lui piaceva così.
Si erano conosciuti al supermecato sotto la casa di Giacomo.
Lei faceva la cassiera. E Giacomo si recava a comprare
qualche stupidaggine almeno tre volte al giorno, quando
Amelia era di turno, pur di poterla guardare. Una volta, era
un afoso pomeriggio d’estate e l’aria condizionata nel supermercato
funzionava male, arrivato alla cassa senza che nessuno
spingesse dietro di lui, Amelia gli aveva fatto un gran
sorriso dicendo:
“Certo che ne spende di soldi pur di passare da questa
cassa”.
Giacomo si era fatto coraggio e le aveva chiesto il telefono.
E lei senza farsi vedere da quelle pettegole delle colleghe glielo
aveva scritto sullo scontrino fiscale.
Giacomo mentre sonnecchiava nel vagone della metro ricordò
la sera in cui si erano incontrati in una trattoria che
aveva un berceaux con tralci di vite. Dopo il primo litro di
vino dei Castelli l’intesa era già perfezionata.
Giacomo sospirò mentre il molestatore e la vittima scendevano
alla fermata Re di Roma. Mancavano solo San Giovanni,
Manzoni, Via Vittorio Emanuele e poi sarebbero arrivati
a Termini. Da lì il percorso fino al ministero in via
XX settembre era di dieci minuti a piedi. Giacomo amava
comunque quella passeggiata dopo tutta la puzza respirata
nella metropolitana.
Amelia, Amelia: quanto erano stati felici insieme i primi
anni di matrimonio. I venti anni di differenza, lui cinquanta
e lei trenta, non li sentiva. Anzi: la vicinanza con quella donna
piena di energia lo aveva ricaricato. Era tutto un andare
a scoprire angoli di Roma che ignorava, spettacoli, gite nelle
località vicine. Figli no, lei non voleva perchè sentiva di doversi
dedicare solo a lui. Almeno così sussurrava nei momenti
d’intimità. Amelia, Amelia.
Poi si era fatta scorbutica, scostante. Sesso nemmeno a
parlarne. E una mattina non era ritornata dalla spesa.
Quando verso le quattro del pomeriggo finalmente Giacomo
era rientrato a casa aveva trovato un biglietto appiccicato
sul computer e firmato:
“Caro Giacomo: so di darti un gran dolore. Ma è meglio
prendere una decisione perchè io non ce la faccio ad andare
avanti così, continuando a mentire a te che sei tanto buono.
Quello che sto per dirti ti farà del male. Ma tu sei forte e
molto saggio. Sono sicura che saprai reagire nel migliore dei
modi. Me ne vado. La ragione? Ho trovato il vero amore e
non ci crederai è il mio primo fidanzatino del liceo. Ci siamo
incontrati di nuovo su Internet e la fiamma che sembrava
spenta è divampata di nuovo. Non voglio fingere ancora. Da
te ho avuto tanto affetto. Non potrò scordarti. Non mi maledire.
Amelia”.
Che botta era stata quella, rimuginava Giacomo. Si trattava
ora di abituarsi alla vita da singolo forzato. Ogni tanto
pagarsi un pò di sesso e aspettare la pensione che sarebbe
arrivata tra un anno. Poi avrebbe iniziato la vita da vecchio come
tanti altri vecchi, andando per giardinetti e cercando di non
mischiarsi con i pedofili. Recitando un rito di miseria controllata,
con gli euro contati, nessun vincolo familiare perchè
di parenti non era rimasto nessuno. O meglio qualcuno a
Cosenza, ma chi li sentiva o vedeva mai?
Giacomo sospirò ancora. Non era il sospiro di una persona
addolorata. No, era un modo di lasciare l’anima uscire dalla
sofferenza quotidiana, dai crucci del momento. Un sospiro
di liberazione perchè Giacomo sentiva che c’era qualcosa di
più importante e di più vero di Amelia, del ministero, delle
invidie e cattiverie dei colleghi, dell’arroganza della gente nei
contatti quotidiani, delle soperchierie, del fisico che ormai
era gonfio, distrutto con una pancia strabuzzante e una grande
voglia di cambiare registro, di evadere.
Mancava una fermata e sarebbero arrivati alla stazione Termini.
Il locomotore di testa schiacciò l’innesco elettrico che attivò
la serie di mine anticarro poste in mezzo al binario.
Giacomo insieme agli altri passeggeri fu scaraventato in
avanti, mentre la volta del tunnel crollava seppellendo con
tonnellate di calcestruzzo e roccia l’ammasso di vetture, i
morti, i vivi, i moribondi.
Edizione speciale del TG1
Il conduttore era visibilmente scosso:
“Un incidente di enormi proprozioni ha colpito la Capitale.
Una serie di esplosioni nel tunnel di arrivo della linea A
della metropolitana di Roma, ha coinvolto un convoglio gremito
di passeggeri nell’ora di punta. L’esposione ha causato il
crollo della volta del tunnel. Al momento non siamo in grado
di riferirvi altri dettagli sul grave incidente. Pompieri, forze
di polizia sono accorse sul luogo del disastro”
Mentre il giornalista parlava rivolgendosi alla camera un
uomo in maniche di camicia entrò sul set e gli porse un foglio.
Il giornalista dette un’occhiata e mormorò: “Dio mio!”
Poi cominciò a leggere: “Purtroppo vi devo dare notizia di
un altro grave episodio accaduto pochi minuti fa in piazza
San Pietro. Una bomba di alto potenziale ha fatto crollare
una parte del colonnato del Bernini nel settore in cui erano
in attesa centinaia di turisti che dovevano visitare i Musei Vaticani.
Anche in questo caso non siamo in grado di darvi altri
dettagli. La nostra linea resta aperta e ci collegheremo con le
nostre unità mobili che stanno accorrendo sia a Termini che
a San Pietro... ”.
Redazione ANSA via della Dataria. Chiamata telefonica.
Il centralino è super allertato. Una voce in inglese con forte
accento mediorentale dice:
“Oggi abbiamo vendicato i morti causati dalle crociate di
ieri e di oggi. Allah è Grande. Firmato Al Qaeda”.

mercoledì 21 gennaio 2015

W.D.C sotto traccia - Capitolo 19

Neve su Washington alla fine di ottobre. In pieno autunno,
la stagione del ‘foliage’, colori stupendi della vegetazione
che variano dal verde, al rosso, al giallo. E adesso la neve.
Roba da non crederci. Per fortuna solo un’imbiancatina. Non
certo quello che stava succedendo più a nord-est con decine
di migliaia di persone prive di energia elettrica, il traffico paralizzato
e i soliti guai che madre natura genera in America
quando decide di farsi sentire.
Washington riusciva, comunque, a sopravvivere alla prima
neve e al caos stradale generato da chi la macchina non sa guidarla
o si mette al volante con la stessa concentrazione con la
quale tira la catena del cesso.
Il Tower Hilton sulla Connecticut era il luogo deputato
per le grandi convention, le mega riunioni che vedono affluire
nell’immensa sala di questo albergo migliaia di persone
che partecipano ai gala promossi da varie sigle e associazioni.
Un albergo passato alla storia perché proprio di fronte al
suo ingresso secondario il presidente Reagan venne ferito da
John Hinckley, Jr. Era il 30 Marzo, 1981.
Nonostante il tempo inclemente quella sera i taxi continuavano
a riversare a getto continuo frotte di signore in
lungo e uomini in tuxedo diretti verso i varchi magnetici che
bloccavano l’accesso al salone delle cerimonie.
Funzionari dei servizi segreti, vestito nero, cravatta a righe
e auricolare e microfono in vista, controllavano borsette,
macchine fotografiche, camcorders, telefonini. Qualche
ospite veniva invitato a entrare dietro un separè dove veniva
analizzato da un metal detector portatile. Per le signore il trattamento
era condotto da un paio di agenti donne.
Tanto scrupolo era dovuto al fatto che quella sera il presidente
degli Stati Uniti sarebbe intervenuto al gala organizzato
dalla principale associazione degli Italo-Americani, la National
Italian American Foundation che coordina e rappresenta
i quasi venticinque milioni di oriundi italiani.
Si preannunciava un discorso di pochi minuti, giudicato
niente di più che una sveltina elettorale, per tenere buoni i
voti di quella componente di elettorato che aveva raggiunto
un peso politico molto consistente. Non più solo ristoratori
e pizzaioli, ma capi di aziende di alta tecnologia, giudici
della Corte Suprema, ministri, dirigenti, medici e scienziati
famosi.
La security del presidente aveva preteso che otto tavoli tra
quelli più importanti dell’immensa sala, a poca distanza dal
lungo tavolo presidenziale sul palcoscenico fossero eliminati,
lasciando un ampio spazio che era stato delimitato da un
cordone sostenuto da colonnine. E la richiesta non aveva reso
felici gli organizzatori della NIAF perché si trattava di tavoli
da ventimila dollari l’uno.
Gli altoparlanti in sala e nei corridoi cominciarono a
invitare gli ospiti a prendere posto. Molti si affannavano a
consultare con alcuni addetti agli ingressi della sala la planimetria
per identificare dove andare. Altri erravano sperando
finalmente di individuare il numero del proprio tavolo, sfilando
tra sedie già spostate da chi aveva preso possesso della
posizione, scansando le borse NIAF con dentro gli omaggi
delle varie aziende sponsor della manifestazione.
Paul Kidman, il Boss della Smithson & Bradley Law Firm
seguiva un paio dei suoi assistenti che lo stavano conducendo
al tavolo pagato profumatamente e in anticipo. Il suo volto,
di norma accigliato come sanno fare solo certi capi azienda
che vogliono tenere sulla corda i collaboratori ai quali non
concedono spazi di sia pur lieve contatto umano, era ancora
più scuro del solito. Perché al Boss giravano le scatole per
il fatto che i servizi di sicurezza della Casa Bianca avevano
imposto uno spazio di qualche metro tra il tavolo della presidenza
e quello da lui prenotato.
Ogni tanto distribuiva qualche stentato sorriso ai molti
che incontrava lungo il tragitto che si precipitavano a ossequiarlo.
Ma, soprattutto, non si soffermava sulle occhiate di ammirazione
che tutti i maschi rivolgevano alla superba lady
che lo accompagnava. Capelli rosso fuoco, colore naturale e
corpo da statua inguainato in un abito nero, grande scollatura
e profondo spacco laterale sinistro nel quale si insinuava il
movimento della coscia che appariva e scompariva secondo
il movimento.
Paul Kidman, nonostante la sua alterigia e supponenza,
sapeva come comportarsi in pubblico quando aveva la fortuna
di essere accompagnato da un pregiato esemplare di super
femmina.
Finalmente gli assistenti avevano individuato il tavolo e
il Boss, dopo avere salutato gli altri commensali che aveva
invitato (un senatore democratico e un congressman repubblicano,
di lontana origine italiana), aiutò la rossa compagna
a prendere posto sostenendo da dietro la sua sedia. Otto posti
intorno al tavolo, unica donna, costantemente ammirata,
la statua muliebre a sua volta riceveva con discreta simpatia
l’omaggio dei tanti che già la frequentavano per ragioni professionali.
La fama dell’avvocato Rachel O’Hara, alto dirigente
della nota società di lobby sulla K Street, non conosceva
confini. Specialmente tra i politici dei due schieramenti al
Congresso.
L’evento iniziò come cominciano tutte le grandi manifestazioni
grandi e piccole in America: inni nazionali interpretati
questa volta da due giovani ragazze molto avvenenti.
Purtroppo per quella italo-americana che, grazie a spinte e
sollecitazioni, si era vista attribuire l’incarico, il risultato finale
era stato molto scarso. Già l’inno di Mameli, a parte il
sentimentalismo patriottico, è musicalmente molto limitato.
Per giunta gli organizzatori si erano fatti convincere a usare
una pista preregistrata che aveva trasformato Fratelli d’Italia
in una sorta di languida canzonetta fuori tono per le possibilità
vocali della voce femminile. Insomma un disastro.
La ragazza che invece aveva interpretato The Star Spangled
Banner, l’inno americano, se l’era cavata bene, inserendo gli
immancabili vocalizzi, un’ottava sopra, che avevano suscitato
alla fine il lungo applauso dei tremila ospiti assiepati nel
salone.
Poi era stata la volta del monsignore che aveva pregato in
italiano e inglese.
Ed infine, Nancy Pelosi, in là con gli anni e ritornata a
essere Speaker della Camera, ovvero la terza carica dello stato,
aveva ricamato sulle sue radici italiane e infine aveva introdotto
il Presidente.
Il Commander in Chief aveva sfoderato anche in quella
occasione la sua consumata abilità di entertainer, dando la
sensazione di pronunciare a braccio un discorso che invece
seguiva sui pannelli laterali del ‘teleprompter’.
“Che sarebbe l’America senza l’Italia?” aveva chiesto retoricamente
al pubblico. E via con le citazioni di nomi quali
Colombo, Vespucci, Leonardo da Vinci, Galileo, Fermi fino
a terminare con i grandi italo-americani dello sport come
Di Maggio e, menzione ufficiale per la diva delle dive, Sofia
Loren.
Ogni frase del Presidente veniva sottolineata da applausi
fragorosi che si fecero ancora più consistenti quando il Capo
della Casa Bianca passò a ricordare i nomi degli italo-americani
membri della Corte Suprema, ministri, capi di agenzie
governative come la CIA o lo FBI, capi di aziende proiettate
nell’alta tecnologia.
Terminati i sette minuti del suo intervento, il Presidente si
rivolse ai membri che sedevano al lungo tavolo d’onore alle
spalle del podio, soffermandosi in modo particolare a stringere
la mano all’ambasciatore italiano a Washington e a quello
americano a Roma. Poi attorniato dagli agenti del Security
Service uscì attraverso una porta secondaria, dirigendosi
all’aeroporto dove avrebbe preso il volo su lo Air One diretto
in Ohio dove avrebbe dovuto tenere un comizio il giorno
dopo.
I grandi schermi televisivi che consentivano di seguire ogni
aspetto della manifestazione da qualsiasi angolo del salone,
erano impegnati ora dai filmati che precedevano il nome dei
personaggi che venivano gratificati in quella edizione del gala
NIAF da un premio alla carriera.
“Che ne pensa del discorso del Presidente?”, chiese Paul
Kidman, avvicinandosi all’orecchio sinistro di Rachel O’Hara
un po’ perché il gran frastuono degli altoparlanti non consentiva
di tenere una conversazione con un tono normale di
voce. E soprattutto perché non voleva che gli altri ospiti intorno
al suo tavolo sentissero quello che stava dicendo. Del
resto i suoi assistenti e i due membri del Congresso seguivano
con attenzione le immagini sui maxi schermi.
“Scritto bene, recitato meglio”. Rispose Rachel. “Rimbalzerà
su tutti i media italo-americani e gli assicurerà un po’ di
consenso anche su quella sponda che in genere è sempre stata
molto più sensibile ai messaggi dei repubblicani”.
“Concordo con lei. Però bisogna ammettere che è un
grande comunicatore. In questo momento ha bisogno di costruire
intorno a sé un consenso nazionale per avere una base
su cui fondare il suo piano di diffusione delle energie alternative.
Posso chiederle qual è il suo punto di vista, se non sono
indiscreto?”.
Rachel O’Hara, prima di rispondere, prese il bicchiere del
vino sul quale appoggiò le labbra sorbendo un po’ di Chianti.
Tanto per prendere tempo e riflettere. Si asciugò la bocca con
delicatezza e avvicinandosi a sua volta all’orecchio destro di
Paul Kidman gli chiese:
“Vuole un parere professionale o personale?”.
“L’uno e l’altro… ” fu la risposta fatta sorridendo dal Boss.
E uno dei suoi assistenti che aveva girato la testa verso i due
rimase sorpreso nel vedere una espressione quasi umana sul
volto del suo arcigno Capo.
“Le dirò... ”, cominciò Rachel. “Questo Presidente non
mi piace molto a titolo personale. Lo trovo vuoto e superficiale.
Gli asseriti successi della sua amministrazione dopo
sette anni di governo sono molto limitati nonostante lo
strombazzare della sua propaganda che, lo devo riconoscere,
sa come indirizzarsi alla pancia e non al cervello dell’americano
medio”.
Paul Kidman dedicò uno sguardo tra il sorpreso e il divertito
alla Rossa che gli sedeva vicino.
“Il progetto delle energie alternative è sostanzialmente
molto interessante, devo riconoscere. Liberare il mondo
occidentale, ma soprattutto gli Stati Uniti, dallo strangolamento
petrolifero dei paesi detentori di petrolio, mi riferisco
in particolare a quelli arabi, è comunque un proposito non
certo originale. Altri presidenti americani lo hanno espresso
in più occasioni nei decenni passati. L’attuale capo della Casa
Bianca è convinto di riuscire in qualche modo a limitare il
consumo di petrolio acquistato dall’estero, potenziando le
varie energie alternative”.
Rachel O’Hara prese fiato e si concesse ancora un paio di
sorsi di vino. Il cibo e il Chianti le avevano arrossate le guance
sulle quali si appoggiavano alcuni riccioli della chioma di
fuoco. Prima di riprendere a parlare si girò verso il Boss il
quale non tralasciava di gettare sguardi allupati sulla sua profonda
scollatura resa ancora più provocante da un reggiseno
push-up.
“Quanto al mio parere professionale, che dirle? Lavoro al
momento attuale con clienti del settore petrolifero. Ma nel
mio lavoro impegno solo il mio mestiere e la capacità dei
miei collaboratori. Non esprimo giudizi di merito, ma solo
di fattibilità. Come ogni esperto di lobby non sposo un’idea
politica, ma sono a disposizione di chi ci paga. E la nostra
preferenza va a quelli che ci pagano di più”.
Rachel concluse il suo discorso dedicando un sorriso malizioso
a Paul Kidney.
Il gala ormai volgeva al termine. Le signore in lungo stavano
alzandosi non senza prima avere preso le composizioni
floreali del centro tavola. Un’abitudine tutta americana che
scandalizzava le ospiti italiane al loro primo contatto con la
realtà delle mega riunioni nei grandi alberghi.

martedì 13 gennaio 2015

W.D.C sotto traccia Capitolo 18

Gaetano Olderisi, maestro venerabile della Loggia Garibaldi
era di fronte all’ingresso principale del George Washington
Masonic Memorial. E stava osservando dall’alto
della lunga scalinata il traffico che si snodava dalla King Street
verso la stazione ferroviaria Amtrak.
Il mausoleo era posto su una collinetta che dominava la
città di Alexandria. Se uno non si imbatteva nella grande
aiuola con il compasso e la squadra disegnati, avrebbe potuto
definire quella grande costruzione come un campanile di una
basilica cristiana.
Il Memorial era stato costruito nel 1920 con il contributo
di oltre due milioni di massoni americani che avevano espresso
in una lapide “la stima imperitura dei massoni americani
per colui alla memoria del quale questo monumento sarà testimonianza
per gli anni a venire”.
Michael Bardi stava salendo la scalinata di corsa, saltando
i gradini per fare prima. Arrivò finalmente in cima un po’
trafelato.
“Worshipful Master Olderisi, scusatemi. Non riuscivo a
trovare un parcheggio”.
Gaetano Olderisi, sorrise lo baciò tre volte sulle guance e
disse:
“Finalmente ho l’onore e il piacere di vedervi, Fratello Michael…
Entriamo dentro il tempio perché siamo inseriti in
una visita guidata e gli ho chiesto di pazientare per qualche
minuto”.
All’interno del memorial un piccolo gruppo di persone
stava attendendo Michael e il suo Maestro Venerabile. Una
coppia, lui pelle abbronzata, di media altezza, lei bionda e
molto graziosa che appoggiava la testa sulla sua spalla. Una
famigliola di grassoni, padre, madre e figlio, obesi e felici.
Si presentarono sorridendo: John, Mary e Peter. Venivano
dal Texas e John era un 'fratello' di una Loggia di Houston.
Un giovane sui venticinque, rigorosamente vestito di scuro
era la guida, dichiarò di non essere massone e di lavorare
nel tempio per guadagnare qualcosa.
“Buon giorno. Mi chiamo Tyron e sono la vostra guida per
la visita di questo memorial. La prima cosa che desidero dirvi
è lo scopo di questa costruzione”.
Si mise a leggere a voce alta l’iscrizione che campeggiava su
una architrave: "Per ispirare l’umanità attraverso l’educazione
che consenta di emulare e promuovere le virtù, il carattere
e la visione di George Washington, l’Uomo, il Massone e il
Padre della nostra Nazione”.
“Vedi Michael”, disse in italiano bisbligliando Gaetano
Olderisi che era passato al ‘tu’ lasciando il ‘voi’ massonico,
“Tutto questo può essere scambiato per culto della personalità.
Ma gli americani sono innamorati del loro Padre
Fondatore. È un sentimento diffuso, al di là delle differenze
di classe, di pelle e di religione. In un Paese come gli Stati
Uniti George Washington rappresenta tutto: il garante del
sentimento nazionale, l’artefice di una missione impossibile
condotta al comando di un esercito di contadini, male armati
e soprattutto, peggio addestrati. L’eroe che è riuscito a
sconfiggere l’esercito della nazione imperiale più potente nel
mondo. Un personaggio rinascimentale che univa a un grande
talento strategico anche enormi capacità imprenditoriali”.
La guida Tyron era impegnata nell’illustrazione dei due
grandi affreschi che coprivano le pareti principali del salone
d’ingresso. Il primo sulla parete nord raffigurava George
Washington che partecipava a una funzione religiosa nella
Christ Church a Philadelphia nel 1778 per aiutare i poveri
dopo il ritiro delle truppe inglesi dalla città. Il secondo affresco
raccontava la posa della pietra d’angolo del Campidoglio
nel 1793 fatta da Washington che indossava il grembiule
massonico, attorniato dai suoi ufficiali anch’essi con i paramenti
dell’Istituzione.
Scarso l’interesse della coppia di giovani che si sbaciucchiavano.
Tutto teso invece il grassone John del Texas, volto
illuminato dalla gioia di trovarsi nel santuario massimo della
massoneria. Sguardo rivolto alla grande statua in bronzo del
Fondatore della nazione.
“È come quando i turisti entrano a San Pietro, a Roma”,
pensava Michael. “Hai voglia di criticare lo sfarzo del tempio
e del Papato. Uno si sente catturato e schiacciato”.
“Adesso, disse Tyron la guida, prenderemo uno dei due
ascensori obliqui che salgono sino alla sommità della torre.
Proprio così. Non sono verticali ma hanno una incidenza di
7 gradi e mezzo. La loro costruzione è iniziata nel 1947 e ci
sono voluti anni prima che venisse completata”.
All’aprirsi delle porte il gruppo si incuneò nell’ascensore.
Michael dette un’occhiata alla targhetta che diceva quanto
era il peso massimo consentito e guardò con preoccupazione
i corpaccioni dei tre della famiglia texana che gli stavano davanti
rivolti verso l’uscita.
Il tour continuava a snodarsi nei diversi piani. Il terzo dedicato
all’ordine sociale del Grotto. Il quarto con il museo di
George Washington. Il quinto, settimo e ottavo piano dedicati
ai tre corpi principali del Rito York: Royal Arch, Royal
and Select Masters e i Knight Templars.
“Questa cappella dei Cavalieri Templari è molto significativa.
Lo sai che è stata inaugurata dall’allora vicepresidente
Nixon, che non era massone. Sono belle le vetrate con
le immagini di Cristo che guarisce il cieco, il sermone della
montagna e la Crocefissione e Resurrezione”, disse Gaetano
Olderisi.
“E pensare alla fine che hanno fatto fare a Jacques De
Molay e a tanti altri templari il papa Clemente V e il re di
Francia Filippo il Bello nel 1312. Altro che eresia: volevano
impossessarsi dei grandi tesori accumulati dai Templari nei
loro scontri con i musulmani”, replicò Michael accarezzando
una delle armature poste su un piedistallo.
“Il potere religioso e politico quando si combinano insieme
costituiscono una miscela molto pericolosa”, assentì Gaetano
Olderisi pensieroso.
E finalmente l’ascensore obliquo raggiunse il nono piano,
la cima della torre.
“Avete dieci minuti per uscire fuori sull’osservatorio che
corre intorno”, disse la guida.
Michael Bardi e Gaetano Olderisi fecero il giro del ballatoio,
ammirando la vecchia Alexandria e poi, al di là del
Potomac, la Washington monumentale della quale si scorgevano
a occhio nudo la cupola di Capitol Hill, le guglie della
Cattedrale multireligiosa e più lontano il complesso della
Georgetown University costruita nel 1789.
Mentre i componenti del gruppo si attardavano in osservazione
e fotografie su uno dei lati dell’osservatorio, Michael
e Gaetano preferirono lasciare il resto della comitiva appoggiandosi
al parapetto del lato opposto.
“Che succede Michael? Perché non partecipi ai lavori di
Loggia. Sai la stima che ho per te. Abbiamo bisogno di giovani
preparati e pieni di energia, come tu sei… ”.
“Maestro Venerabile, i miei impegni professionali mi impediscono
di partecipare con assiduità. Ma non sarei completamente
sincero se non le dicessi che se ho qualche ora
libera da passare a Washington preferisco dedicarla a qualche
amica… spero che lei mi comprenda… ”.
Gaetano Olderisi sospirò. “È un cammino lungo e difficile,
caro Michael, quello del massone. Lo scopo è quello di
lavorare per cercare di perfezionarci, di passare dalla pietra
grezza a quella squadrata”.
Continuò a illustrare a Michael gli obblighi morali di un
appartenente alla antica Istituzione che affonda le sue radici
nella notte dei tempi.
Olderisi parlava, parlava e Michael non osava interromperlo.
Tanto meno si azzardava a fare notare all’anziano fratello
che purtroppo in molte Logge manca, come dire?, un appeal.
Non si possono perdere ore a discutere del sesso degli angeli,
mentre fuori della Loggia la vita scorre a velocità convulsa.
E poi si sarebbe potuto osservare che se i massoni sono un
modello da imitare, allora è necessario tornare a mischiarsi e
confrontarsi nella società civile per cercare di modificarne i
comportamenti in senso positivo.
Predicando, ma soprattutto, praticando i canoni della morale
e dell’etica. A cominciare dalla politica.
Questo pensava Michael mentre Gaetano Olderisi dipanava
con il suo eloquio sonnolento la sua litania massonica.
Con la coda dell’occhio Michael si accorse che qualcuno
era entrato nella loro sezione dell’osservatorio.
Era il giovane dal carnato bruno, rimasto solo, che si avvicinava
sorridendo.
Istintivamente Michael portò la mano alla pistola sotto
l’ascella. Ma non fece in tempo a estrarla. Due colpi secchi
della Beretta con silenziatore e Michael crollò a terra mentre
dalla spalla sinistra cominciava a fuoriuscire un rigagnolo di
sangue.
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Il telefono squillò.
Una mano sollevò il ricevitore.
“Fatto!” disse una voce e riattaccò.
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La splendida rossa, che si lasciava una scia di profumo che
aveva già messo in catalessi un paio di portantini dello Inova
Alexandria Hospital, si avvicinò al banco delle informazioni
dietro il quale sedeva una volontaria al di là dei sessanta.
“Può dirmi qual è la camera del Sig. Bardi, please?”.
“Non può ricevere visite. A meno che si tratti di casi molto
urgenti… ”, rispose la dama volontaria con una palese
acredine.
“E allora io sono un caso molto urgente. Perché sono il
suo avvocato”. E Rachel tirò fuori dalla borsa Prada la sua
tessera professionale.
“Scriva qui il suo nome e ora di entrata, poi prenda l’ascensore
di destra. Stanza numero 24/d”.
La porta si socchiuse lentamente. Michael cercò con la destra
la P38 sotto il cuscino.
Un folata di Boucheron si insinuò nella stanza prima che
comparissero le forme sinuose di Rachel.
“Michael, tesoro: ma che ti hanno fatto?”, chiese la rossa
sventolando la sua gran chioma di fuoco, mentre si chinava
a depositare un casto bacio sulla fronte del giovane paziente.
Rachel prese posto sulla sponda del letto.
“Chiaramente ci sono persone che vogliono farmi fuori”,
disse Michael con un filo di voce perché ancora debole per la
gran quantità di sangue che aveva perduto.
“Per mia fortuna era con me un amico che si è prodigato
nel chiamare l’ambulanza e farmi portare qui dove sono stato
operato per qualche ora. Perché sembra che la mia spalla fosse
messa molto male”.
“Ma ho letto sul Post che ti hanno sparato due colpi. Uno
deve essere andato a vuoto”.
“No. Quando sei il target di un assassino professionista il
margine di errore non esiste o è minimo. Il primo colpo mi
ha preso al torace, ma porto sempre il giubbetto antiproiettile
in teflon che mi ha salvato. Dovresti ricordare, visto che
mi hai spogliato molte volte. Il colpo mi ha rotto un paio di
costole”.
Rachel sorrise, ammiccando.
“Come sta lui?” chiese e cominciò ad accarezzare il pene
di Michael che nonostante la ferita e la debolezza reagì immediatamente.
“Sta bene, vedo”. E sollevata la coperta e il lenzuolo iniziò
un trattamento di blow job eseguito con tecnica raffinata.
Un colpo alla porta che si aprì. Entrò d’impeto una infermiera
nera di grosse dimensioni.
“Le visite sono terminate. Prego lasciare subito il malato”.
Rachel raccolse la borsa da cui tirò fuori un fazzoletto col
quale si asciugò la bocca fulminando con uno sguardo di odio
l’infermiera cicciona che la soqquadrava con aria ironica.
“Bitch, puttana” sussurrò la nera mentre Rachel superava
la porta, “Abbiamo telecamere in ogni unità e ti abbiamo
seguito live. Grande successo soprattutto fra i medici e le infermiere
stagiste”.
L’avvocato O’Hara uscì dalla camera di Michael Bardi sfilando
davanti a un gruppo di dottori e nurse che applaudivano
ghignando.

domenica 4 gennaio 2015

W.D.C sotto traccia - capitolo 17

L’Embraer ERJ’s 170 lr della Egypth Air Express proveniente dal Cairo iniziò l’avvicinamento all’International Airport di Hurghada. Tra i quaranta passeggeri quattro parlavano russo ed erano sbarcati un’ora prima da un volo diretto Mosca-Cairo gestito da Aeroflot. “Ormai Hurghada è diventata una colonia marina russa”, disse uno dei quattro parlando all’orecchio del suo compagno di viaggio che avrà avuto una sessantina di anni. “Mi ricordo venti anni fa quando ci sono venuto la prima volta”, aggiunse l’altro passeggero scolando una micro bottiglietta di vodka che aveva pagato allo steward in dollari. “Anche questo aeroporto - aggiunse - lo sai… glielo abbiamo fatto noi, in un pacchetto di altre infrastrutture militari. A cominciare dalla diga di Aswan che gli ha dato energia elettrica a non finire”. “Già. Però gli ha rovinato tutto l’ambiente. Per millenni le piene del Nilo erano il miglior fertilizzante. Oggi sono costretti a importare concimi chimici a migliaia di tonnellate. Senza parlare del Delta dove ormai l’acqua salata entra per chilometri e brucia le colture”.
Il russo più anziano guardò con aria divertita il giovane compagno di viaggio che si era lanciato in una elencazione dei guai causati dalla diga di Aswan. “Vedo che ti sei imbevuto di propaganda capitalista”, disse. Il giovane russo scosse la testa. “Proprio per niente. Questi sono dati e non sono smentibili. Resta il fatto che l’Unione Sovietica ha dato all’Egitto e altri paesi africani nel giro dei decenni migliaia di miliardi di rubli. E oggi ci ritroviamo questo paese sotto il controllo degli americani. Un bel successo”. Il sessantenne russo, corporatura massiccia, aspirò dalla finta sigaretta elettronica che emetteva vapore a ogni boccata. “Ti stavo dicendo di Hurghada”, continuò il giovane russo. “Oggi è una grande città con centinaia di alberghi. La concorrenza di Sharm El Sheik dall’altra parte del Mar Rosso l’ha messa un po’ in affanno negli ultimi anni. Ma dopo gli attentati che ci sono stati a Sharm El Sheik e la criminalità che sta aumentando, Hurghada ha ripreso a correre. Pensare che era il paradiso degli scuba divers. Molti si spostano ora a Mar Sa La. E Hurghada continua a essere il sessificio, tipo Rimini in Italia. Ma a prezzi molto abbordabili per la classe media russa”.
L’Embraer toccò terra dolcemente. I controlli doganali li avevano già fatti al Cairo e i quattro si imbarcarono su un’auto a noleggio nera che attendeva appena fuori del terminal con un cartello inserito nel lavavetro su cui era scritto Lilyland. Lilyland Beach Club era uno dei primi resort costruiti a Hurghada da architetti italiani. Nonostante fossero passati un paio di decenni, Lilyland conservava ancora una sua originalità rispetto ai falansteri realizzati da catene internazionali alberghiere nelle quali a norma di legge doveva figurare una sostanziale presenza del capitale egiziano. Di quale provenienza non era il caso di indagare. Piccole unità abitative di diverso taglio, grandi piscine. E una baia artificiale con un lungo molo che si addentrava nelle chiare acque del Mar Rosso. Lilyland per anni era stato un punto di riferimento per il turismo medio alto italiano e tedesco. Poi l’invasione dei russi che con mille dollari potevano trascorrere quindici giorni a mezza pensione, aereo compreso, aveva abbassato il livello del resort. Hurghada era ormai in mano ai russi, al punto che la cartellonistica era scritta in cirillico. A Lilyland la direzione si era vista costretta a riservare il ristorante centrale solo ai russi. Italiani e tedeschi erano pregati di andare da altre parti.
Dopo avere fatto check in i quattro russi si videro consegnare la chiave dell’unità che era stata loro assegnata. Presero uno degli shuttle elettrici e l’autista si fermò davanti alla loro abitazione. Due camere con letti separati, due bagni, tinello con cucina e grandi divani che all’occorrenza si trasformavano in letti. Erano ormai le otto di sera e dopo aver indossato abiti da spiaggia, i quattro si diressero verso il ristorante russo. Un cameriere mostrò loro un tavolo riservato. Il locale era pieno di connazionali. Intere famiglie con ragazzini, alcuni dei quali urlavano a più non posso. Donne mature single in cerca dell’avventura egiziana. Passando tra i tavoli colsero gli sguardi di un gruppo che stava cenando. L’appuntamento era alle 23:30 intorno alla piscina quando fosse terminato lo show serale del gruppo di intrattenitori italiani. “Va bene questa bottiglia?” chiese sorridendo Valery, uno di quelli che li avevano osservati quando entravano nel ristorante. Ridendo mise sul tavolo di plastica una bottiglia di vodka gelata appena tolta dal freezer. Il gruppo era composto da otto persone che si accomodarono intorno al tavolo rubando un po’ di sedie agli altri clienti. “Quello che ci vuole”, disse Andrei, il tipo sessantenne appena arrivato dal Cairo, accendendosi l’ennesima sigaretta vera. Giro di liquore tra tutti i presenti. “Cheers, prost, skoll, nastrovie, good health, salute”, disse Valery. Gli altri risposero con un sonoro “Nastrovie!”. “Tovarich, cominciò Andrei parlando sommessamente, Ci troviamo qui per una serie di ragioni. Alcune di scenario altre che richiedono un impegno immediato. Non si tratta solo di una guerra tra noi che abbiamo e controlliamo il petrolio e i verdi che vogliono la sostituzione dei fossili con le energie alternative. Fuori di dubbio che la decisione, dopo il disastro di Fukushima, del primo ministro giapponese di stoppare la costruzione di nuove centrali nucleari e focalizzarsi sul green, ha rotto le uova nel paniere, non solo a chi costruisce centrali nucleari, ma anche a tutti quelli che estraggono, vendono e raffinano petrolio”. Altro giro della bottiglia di vodka e mugolii di consenso. Andrei continuò: “Ma non è che anche tra quelli che estraggono petrolio ci sia concordia. Gli arabi stanno portando avanti una politica a dir poco confusa. La casa reale dell’Arabia Saudita continua nella sua azione di lobby in America, lavorando ai fianchi i parlamentari dei due partiti. Mi risulta che abbiano assoldato uno dei più feroci killer con lo scopo di eliminare tutti quelli che in qualche modo possono intralciare il loro lavoro. Non mi sorprenderei se il target finale fosse anche il Presidente degli Stati Uniti che, sicuro del suo secondo mandato e fanatico delle energie non derivate dal fossile, sta dando un grande supporto a tutte quelle iniziative imprenditoriali che sono focalizzate sul solare, vento, maree, biomassa e via citando”. Gli altri sette intorno al tavolo si scambiarono occhiate di preoccupato consenso.
“L’Irak segue le direttive che riceve da Teheran. Ma lo scenario è in movimento per colpa degli israeliani che vogliono assestare una mazzata in testa all’Iran. Quanto alla Libia, dopo l’uccisione di Gheddafi, i ribelli hanno confermato una linea di prudente collaborazione con gli USA, Francia e Italia. Se poi ci spostiamo sull’America latina, il Venezuela continua a essere un’incognita soprattutto dopo la notizia della malattia di Chavez. Noi come Russia non possiamo permetterci di rinnegare i nostri rapporti con gli USA. Anche perché loro hanno una gran bisogno delle nostre Soyouz per rifornire la stazione spaziale. Ci pagano bene i passaggi. 63 milioni di dollari a sedile. E ci lasciano lavorare abbastanza bene in America Latina perché ogni tanto gli vendiamo informazioni riservate sui colombiani e la coca importata negli States. Adesso con i sottomarini costruiti ad hoc”. “Ma non c’è solo l’America, compagno Andrei”, intervenne Valery che sembrava essere il portavoce dell’altro gruppo. “I consumi mondiali di carburante stanno aumentando in maniera esponenziale e non possiamo perdere la fetta che ci siamo assicurata”. “Sacrosanto quello che dici, Tovarich. In questo scenario globale si inserisce anche una nostra esigenza immediata: quella di non perdere il controllo della situazione. La competizione interna al nostro schieramento fatta dagli arabi è un grosso problema. Come sapete da anni gli americani soffiano con la CIA sui movimenti irredentisti delle nazioni nordafricane. Qualche risultato l’hanno ottenuto con la decapitazione dei dittatori del nord Africa e Yemen che erano al potere da decenni. Ma prendete il caso dell’Egitto: le proteste di piazza Tahrir hanno fatto fuori Mubarak. Al suo posto si sono installati i generali che di Mubarak ne avevano piene le palle. Ma non è che con loro la situazione sia migliorata. Anzi i Fratelli Musulmani che prima vivevano in semiclandestinità, adesso sono uno dei pilastri dello scenario politico”.
Il bar aveva chiuso i battenti non senza avere prima fornito un’altra bottiglia di vodka che era stata pagata da Andrei. Gli ospiti del resort erano ormai andati a dormire. Alcuni si dovevano alzare alle cinque per andare a Luxor unendosi con i loro van in affitto alle centinaia di veicoli che si muovono sull’autostrada con camionette di poliziotti armati in testa e in coda nel caso di attacchi di qualche terrorista. Li attendevano ore di spaventi perché all’interno della lunga fila gli autisti si superano al millimetro ingaggiando epiche tenzoni. Altri erano fatti di stanchezza per le lezioni di wind surf, scuba diving, beach volley, gite a cavallo a malapena attenuate dai massaggi forniti dalla SPA del resort. Gli otto adesso potevano parlare con un tono di voce più marcato. Ma non c’era voglia di dialogare, quanto piuttosto di ascoltare quello che Andrei continuava a esporre con un linguaggio secco e tagliente che rivelava la sua passata esperienza di alto ufficiale nel KGB ai tempi dell’Unione Sovietica.Altro giro di vodka e Nastrovie. “Questo fondamentalismo islamico è preoccupante non solo per gli occidentali. Ma anche per noi. Se pensate a quello che ci costa la Cecenia. Ecco perché ritengo che la vecchia idea americana di fare leva sulle loro divisioni religiose (sciiti e sunniti) per farli implodere sia tutt’ora un elemento di cui tenere conto, lavorando sui contrasti e gli scontri dove e quando sia possibile. Ognuno di voi ha una posizione di rilievo nella Famiglia. Tenetevi pronti a intervenire con i vostri luogotenenti nelle aree in cui vi sarà richiesto. Il nostro deve essere un lavoro sotto traccia, come sempre. Ma, definito l’obiettivo, dobbiamo portare a casa risultati. E tra i risultati vi saranno attentati nelle principali piazze occidentali da attribuire ai fondamentalisti islamici. Che negheranno, figuriamoci. Ma questo deve fare crescere l’odio diffuso nell’opinione pubblica occidentale contro l’arabo e quello che rappresenta in termini di pericolo e condizionamento. Purtroppo c’è il problema del terrorismo interno nelle nazioni democratiche. Come è successo a Oslo, ve lo ricordate? Per colpa di quell’imbecille fondamentalista cristiano, neonazista che ha ammazzato più di novanta persone. E dire che quelli di Al Qaeda ci si erano buttati sopra, salvo poi fare una clamorosa marcia indietro. Un pericolo che persiste in tutte le democrazie industriali. Pensate alle cento sessanta vittime delle bombe a Oklahoma City nel 2005”.
Andrei si soffermò e invitò a parlare gli altri ‘compagni’. Molte le domande di approfondimento. Una in particolare: qual era lo stato dei rapporti tra loro e Cosa Nostra. Andrei riprese la parola. “Come si fa a fidarsi degli italiani? Non per niente gli hanno appiccicato addosso la definizione che sono il popolo che non finisce una guerra dalla parte in cui l’aveva cominciata. Sono ‘double standard’, fa parte della loro natura, del loro DNA. Del resto hanno sempre servito molti padroni, salvo tradirli al momento opportuno. Noi ci facciamo rispettare e li rispettiamo finché stanno ai patti. Ma vi ricordo che quando ci troviamo di fronte a comportamenti ambigui dovete informarci immediatamente. Noi prenderemo le nostre decisioni immediate e sapete quali sono. Domani partiamo, ognuno con la propria destinazione operativa. Ci troveremo in un altro paese per fare di nuovo il punto sulla situazione. Das Vidaniya, arrivederci al prossimo incontro”. Valery: “E a proposito del Rock, che ci dici?”. Andrey: “Chi l’ha costituita?”. “Cardoni, mi sembra” disse Valery. “Di che nazionalità è Cardoni, tovarich Valery?”. “Italiano… ”. “Bene: ti sei dato da solo la risposta”.