Neve su Washington alla fine di ottobre. In pieno autunno,
la stagione del ‘foliage’, colori stupendi della vegetazione
che variano dal verde, al rosso, al giallo. E adesso la neve.
Roba da non crederci. Per fortuna solo un’imbiancatina. Non
certo quello che stava succedendo più a nord-est con decine
di migliaia di persone prive di energia elettrica, il traffico paralizzato
e i soliti guai che madre natura genera in America
quando decide di farsi sentire.
Washington riusciva, comunque, a sopravvivere alla prima
neve e al caos stradale generato da chi la macchina non sa guidarla
o si mette al volante con la stessa concentrazione con la
quale tira la catena del cesso.
Il Tower Hilton sulla Connecticut era il luogo deputato
per le grandi convention, le mega riunioni che vedono affluire
nell’immensa sala di questo albergo migliaia di persone
che partecipano ai gala promossi da varie sigle e associazioni.
Un albergo passato alla storia perché proprio di fronte al
suo ingresso secondario il presidente Reagan venne ferito da
John Hinckley, Jr. Era il 30 Marzo, 1981.
Nonostante il tempo inclemente quella sera i taxi continuavano
a riversare a getto continuo frotte di signore in
lungo e uomini in tuxedo diretti verso i varchi magnetici che
bloccavano l’accesso al salone delle cerimonie.
Funzionari dei servizi segreti, vestito nero, cravatta a righe
e auricolare e microfono in vista, controllavano borsette,
macchine fotografiche, camcorders, telefonini. Qualche
ospite veniva invitato a entrare dietro un separè dove veniva
analizzato da un metal detector portatile. Per le signore il trattamento
era condotto da un paio di agenti donne.
Tanto scrupolo era dovuto al fatto che quella sera il presidente
degli Stati Uniti sarebbe intervenuto al gala organizzato
dalla principale associazione degli Italo-Americani, la National
Italian American Foundation che coordina e rappresenta
i quasi venticinque milioni di oriundi italiani.
Si preannunciava un discorso di pochi minuti, giudicato
niente di più che una sveltina elettorale, per tenere buoni i
voti di quella componente di elettorato che aveva raggiunto
un peso politico molto consistente. Non più solo ristoratori
e pizzaioli, ma capi di aziende di alta tecnologia, giudici
della Corte Suprema, ministri, dirigenti, medici e scienziati
famosi.
La security del presidente aveva preteso che otto tavoli tra
quelli più importanti dell’immensa sala, a poca distanza dal
lungo tavolo presidenziale sul palcoscenico fossero eliminati,
lasciando un ampio spazio che era stato delimitato da un
cordone sostenuto da colonnine. E la richiesta non aveva reso
felici gli organizzatori della NIAF perché si trattava di tavoli
da ventimila dollari l’uno.
Gli altoparlanti in sala e nei corridoi cominciarono a
invitare gli ospiti a prendere posto. Molti si affannavano a
consultare con alcuni addetti agli ingressi della sala la planimetria
per identificare dove andare. Altri erravano sperando
finalmente di individuare il numero del proprio tavolo, sfilando
tra sedie già spostate da chi aveva preso possesso della
posizione, scansando le borse NIAF con dentro gli omaggi
delle varie aziende sponsor della manifestazione.
Paul Kidman, il Boss della Smithson & Bradley Law Firm
seguiva un paio dei suoi assistenti che lo stavano conducendo
al tavolo pagato profumatamente e in anticipo. Il suo volto,
di norma accigliato come sanno fare solo certi capi azienda
che vogliono tenere sulla corda i collaboratori ai quali non
concedono spazi di sia pur lieve contatto umano, era ancora
più scuro del solito. Perché al Boss giravano le scatole per
il fatto che i servizi di sicurezza della Casa Bianca avevano
imposto uno spazio di qualche metro tra il tavolo della presidenza
e quello da lui prenotato.
Ogni tanto distribuiva qualche stentato sorriso ai molti
che incontrava lungo il tragitto che si precipitavano a ossequiarlo.
Ma, soprattutto, non si soffermava sulle occhiate di ammirazione
che tutti i maschi rivolgevano alla superba lady
che lo accompagnava. Capelli rosso fuoco, colore naturale e
corpo da statua inguainato in un abito nero, grande scollatura
e profondo spacco laterale sinistro nel quale si insinuava il
movimento della coscia che appariva e scompariva secondo
il movimento.
Paul Kidman, nonostante la sua alterigia e supponenza,
sapeva come comportarsi in pubblico quando aveva la fortuna
di essere accompagnato da un pregiato esemplare di super
femmina.
Finalmente gli assistenti avevano individuato il tavolo e
il Boss, dopo avere salutato gli altri commensali che aveva
invitato (un senatore democratico e un congressman repubblicano,
di lontana origine italiana), aiutò la rossa compagna
a prendere posto sostenendo da dietro la sua sedia. Otto posti
intorno al tavolo, unica donna, costantemente ammirata,
la statua muliebre a sua volta riceveva con discreta simpatia
l’omaggio dei tanti che già la frequentavano per ragioni professionali.
La fama dell’avvocato Rachel O’Hara, alto dirigente
della nota società di lobby sulla K Street, non conosceva
confini. Specialmente tra i politici dei due schieramenti al
Congresso.
L’evento iniziò come cominciano tutte le grandi manifestazioni
grandi e piccole in America: inni nazionali interpretati
questa volta da due giovani ragazze molto avvenenti.
Purtroppo per quella italo-americana che, grazie a spinte e
sollecitazioni, si era vista attribuire l’incarico, il risultato finale
era stato molto scarso. Già l’inno di Mameli, a parte il
sentimentalismo patriottico, è musicalmente molto limitato.
Per giunta gli organizzatori si erano fatti convincere a usare
una pista preregistrata che aveva trasformato Fratelli d’Italia
in una sorta di languida canzonetta fuori tono per le possibilità
vocali della voce femminile. Insomma un disastro.
La ragazza che invece aveva interpretato The Star Spangled
Banner, l’inno americano, se l’era cavata bene, inserendo gli
immancabili vocalizzi, un’ottava sopra, che avevano suscitato
alla fine il lungo applauso dei tremila ospiti assiepati nel
salone.
Poi era stata la volta del monsignore che aveva pregato in
italiano e inglese.
Ed infine, Nancy Pelosi, in là con gli anni e ritornata a
essere Speaker della Camera, ovvero la terza carica dello stato,
aveva ricamato sulle sue radici italiane e infine aveva introdotto
il Presidente.
Il Commander in Chief aveva sfoderato anche in quella
occasione la sua consumata abilità di entertainer, dando la
sensazione di pronunciare a braccio un discorso che invece
seguiva sui pannelli laterali del ‘teleprompter’.
“Che sarebbe l’America senza l’Italia?” aveva chiesto retoricamente
al pubblico. E via con le citazioni di nomi quali
Colombo, Vespucci, Leonardo da Vinci, Galileo, Fermi fino
a terminare con i grandi italo-americani dello sport come
Di Maggio e, menzione ufficiale per la diva delle dive, Sofia
Loren.
Ogni frase del Presidente veniva sottolineata da applausi
fragorosi che si fecero ancora più consistenti quando il Capo
della Casa Bianca passò a ricordare i nomi degli italo-americani
membri della Corte Suprema, ministri, capi di agenzie
governative come la CIA o lo FBI, capi di aziende proiettate
nell’alta tecnologia.
Terminati i sette minuti del suo intervento, il Presidente si
rivolse ai membri che sedevano al lungo tavolo d’onore alle
spalle del podio, soffermandosi in modo particolare a stringere
la mano all’ambasciatore italiano a Washington e a quello
americano a Roma. Poi attorniato dagli agenti del Security
Service uscì attraverso una porta secondaria, dirigendosi
all’aeroporto dove avrebbe preso il volo su lo Air One diretto
in Ohio dove avrebbe dovuto tenere un comizio il giorno
dopo.
I grandi schermi televisivi che consentivano di seguire ogni
aspetto della manifestazione da qualsiasi angolo del salone,
erano impegnati ora dai filmati che precedevano il nome dei
personaggi che venivano gratificati in quella edizione del gala
NIAF da un premio alla carriera.
“Che ne pensa del discorso del Presidente?”, chiese Paul
Kidman, avvicinandosi all’orecchio sinistro di Rachel O’Hara
un po’ perché il gran frastuono degli altoparlanti non consentiva
di tenere una conversazione con un tono normale di
voce. E soprattutto perché non voleva che gli altri ospiti intorno
al suo tavolo sentissero quello che stava dicendo. Del
resto i suoi assistenti e i due membri del Congresso seguivano
con attenzione le immagini sui maxi schermi.
“Scritto bene, recitato meglio”. Rispose Rachel. “Rimbalzerà
su tutti i media italo-americani e gli assicurerà un po’ di
consenso anche su quella sponda che in genere è sempre stata
molto più sensibile ai messaggi dei repubblicani”.
“Concordo con lei. Però bisogna ammettere che è un
grande comunicatore. In questo momento ha bisogno di costruire
intorno a sé un consenso nazionale per avere una base
su cui fondare il suo piano di diffusione delle energie alternative.
Posso chiederle qual è il suo punto di vista, se non sono
indiscreto?”.
Rachel O’Hara, prima di rispondere, prese il bicchiere del
vino sul quale appoggiò le labbra sorbendo un po’ di Chianti.
Tanto per prendere tempo e riflettere. Si asciugò la bocca con
delicatezza e avvicinandosi a sua volta all’orecchio destro di
Paul Kidman gli chiese:
“Vuole un parere professionale o personale?”.
“L’uno e l’altro… ” fu la risposta fatta sorridendo dal Boss.
E uno dei suoi assistenti che aveva girato la testa verso i due
rimase sorpreso nel vedere una espressione quasi umana sul
volto del suo arcigno Capo.
“Le dirò... ”, cominciò Rachel. “Questo Presidente non
mi piace molto a titolo personale. Lo trovo vuoto e superficiale.
Gli asseriti successi della sua amministrazione dopo
sette anni di governo sono molto limitati nonostante lo
strombazzare della sua propaganda che, lo devo riconoscere,
sa come indirizzarsi alla pancia e non al cervello dell’americano
medio”.
Paul Kidman dedicò uno sguardo tra il sorpreso e il divertito
alla Rossa che gli sedeva vicino.
“Il progetto delle energie alternative è sostanzialmente
molto interessante, devo riconoscere. Liberare il mondo
occidentale, ma soprattutto gli Stati Uniti, dallo strangolamento
petrolifero dei paesi detentori di petrolio, mi riferisco
in particolare a quelli arabi, è comunque un proposito non
certo originale. Altri presidenti americani lo hanno espresso
in più occasioni nei decenni passati. L’attuale capo della Casa
Bianca è convinto di riuscire in qualche modo a limitare il
consumo di petrolio acquistato dall’estero, potenziando le
varie energie alternative”.
Rachel O’Hara prese fiato e si concesse ancora un paio di
sorsi di vino. Il cibo e il Chianti le avevano arrossate le guance
sulle quali si appoggiavano alcuni riccioli della chioma di
fuoco. Prima di riprendere a parlare si girò verso il Boss il
quale non tralasciava di gettare sguardi allupati sulla sua profonda
scollatura resa ancora più provocante da un reggiseno
push-up.
“Quanto al mio parere professionale, che dirle? Lavoro al
momento attuale con clienti del settore petrolifero. Ma nel
mio lavoro impegno solo il mio mestiere e la capacità dei
miei collaboratori. Non esprimo giudizi di merito, ma solo
di fattibilità. Come ogni esperto di lobby non sposo un’idea
politica, ma sono a disposizione di chi ci paga. E la nostra
preferenza va a quelli che ci pagano di più”.
Rachel concluse il suo discorso dedicando un sorriso malizioso
a Paul Kidney.
Il gala ormai volgeva al termine. Le signore in lungo stavano
alzandosi non senza prima avere preso le composizioni
floreali del centro tavola. Un’abitudine tutta americana che
scandalizzava le ospiti italiane al loro primo contatto con la
realtà delle mega riunioni nei grandi alberghi.
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