“Eccoci arrivati”, disse Valery aprendo la porta del piccolo appartamento in Kutuzovsky Prospekt. Negli anni dell’Unione Sovietica i giornalisti stranieri dovevano vivere in quel compound dove i poliziotti nelle garitte agli ingressi controllavano il movimento della gente. Più che di un appartamento si trattava di uno studio: una stanza con un divano, un paio di piccole poltrone, un tavolinetto centrale sul quale era appoggiato un vassoio di metallo con bottiglie di liquori. Il letto in un angolo della stanza era nascosto da un separè. Su un mobile troneggiava un samovar per il tè e Mauro, che aveva la passione per le antichità russe, dette un’occhiata interessata e vide che si trattava di un esemplare a nove bolli, uno dei più belli.
Svetlana che mostrava di conoscere bene l’ambiente si avvicinò al sistema dell’alta fedeltà dove inserì un CD di una band metallica russa che andava per la maggiore in quei giorni. Volume molto alto e la cosa non è che facesse piacere, soprattutto a Luigi Ferrario che soffriva di acufene, un fischio continuo che a volte gli lacerava il cervello, conseguenza di qualche esplosione ravvicinata alla quale aveva assistito senza il paraorecchie. Andrei aveva aperto la porta di un piccolo frigorifero e ne aveva estratta una bottiglia di vodka che fece circolare. Le due ragazze si servirono senza usare il bicchiere, bevendo e leccando il collo della bottiglia con grandi risate e sguardi provocanti ai due maturi italiani. Mauro Ciaparro e Luigi Ferrario avevano ormai un tasso alcoolico nel sangue da collasso, ma resistevano ancora. Faceva molto caldo nel piccolo appartamento. Natashia e Svetlana cominciarono a spogliarsi ridendo. Gettavano via gli indumenti. Rimasero completamente nude, arrampicate su tacchi altissimi, pelle bianco latte, sesso completamente rasato secondo l’usanza russa. Si muovevano ritmicamente seguendo il pulsare della musica lacerante. Si avvicinarono ai due ospiti e sorridendo si dettero da fare per sganciare le cinture dei pantaloni che fecero calare insieme alla biancheria intima. Gli avevano slacciato le camicie e cavalcando Mauro e Luigi che avevano aiutato a penetrarle, si stavano impegnando con lenti e progressivi movimenti del bacino, mentre li baciavano nel collo. Alcool, cibo, sesso con due statue di carne. Gli italiani si sentivano in paradiso. Affondavano il viso in quei seni turgidi, veri e non siliconati. Natashia e Svetlana si muovevano eroticamente all’unisono. Si scambiarono un’occhiata di assenso. Le siringhe di curaro impugnate da Andrei e Valery, che si erano spostati alle spalle del divano, penetrarono nel collo dei bombaroli fulminandoli. “Rivestitevi e fuori dai coglioni”, disse Andrei alle ragazze. “Chi parla fa la stessa fine”.
Nel frattempo Valery aveva preso da una scansia un paio di lunghi sacchi neri di plastica con chiusura lampo nei quali infilarono i cadaveri, che poi con fatica misero in una grande cesta di vimini. “Possiamo andare”, disse Valery ad Andrei. “Stanno salendo due addetti al servizio della monnezza. Vuoteranno tutto dentro il compactor. Li ho riempiti di rubli e non è la prima volta che me ne servo”. All’uscita del palazzo presero un taxi, destinazione Piazza della Lubianka. Il poliziotto alla porta esdaminò con attenzione i loro lasciapassare. Poi parlò per qualche secondo a un microfono. Un ufficiale apparve nel vano e salutati i due ospiti li condusse a un ascensore e fece loro segno di entrare dietro di lui. Piano terzo. Nonostante fossero le due di notte molte luci erano accese nei corridoi e nelle stanze dove lavoravano funzionari e agenti. L’ufficiale con passo cadenzato condusse i due ospiti di fronte alla porta di un ufficio e premè un pulsante. All’accendersi di una luce verde fece pressione sulla grande porta di noce e introdusse Andrei e Valery in una sorta di piazza d’armi in fondo alla quale era un’ampia scrivania con due poltrone di fronte. Andrei conosceva bene quell’ufficio al terzo piano che era appartenuto a Lavrenty Beria e più tardi a Yuri Andropov che doveva diventare segretario generale del partito sovietico. Durante gli anni passati come agente del KGB aveva assistito in diverse occasioni alla sentenza emessa nei confronti di altri agenti o gerarchi del partito che si erano macchiati di infedeltà. Questo era stato il suo lavoro: servizio di controspionaggio a tutela del partito e della Grande Russia contro le infiltrazioni fatte soprattutto dagli occidentali, americani in testa che distribuivano soldi a tonnellate pur di carpire informazioni sensibili. Qualche innocente c’era andato di mezzo. Ma è un prezzo che bisogna mettere in conto, pensava Andrei, pur di raggiungere l’obiettivo assegnato. I successi invece gli avevano creato un’aureola di grande fama. Poi era intervenuta la contro rivoluzione innescata da Gorbachev. Le cannonate ordinate da Eltzin contro la Casa Bianca, lo stesso nome di quella americana, sede del Soviet Supremo della Russia, dove si erano asserragliati quelli che non volevano abdicare al giuramento di fedeltà fatto al Partito e all’Unione Sovietica. Dopo, ognun per sé, dio per tutti. Chi aveva maturato un’esperienza significativa nella sicurezza trovava subito il modo di essere riciclato soprattutto dalla mafia russa che era uscita con prepotenza dall’anonimato e si infiltrava nei gangli vitali della nuova nazione, condizionando industria, finanza, commercio internazionale, informazione, mondo dello spettacolo. Andrei aveva trovato subito un’ottima sistemazione ‘professionale’ che gli permetteva di fare coordinamento tra i vari dipartimenti in cui la società criminale era articolata. Quanto a Valery era un subordinato, molto fedele a lui e all’organizzazione. Anche se qualche volta ad Andrei veniva il dubbio che tanto affetto potesse nascondere una tipica funzione di controllo per conto di altri. Ma il non fidarsi faceva parte della sua formazione professionale sperimentata per tanti anni nei Servizi. Percorsero i venti metri che li separavano dalla scrivania, dietro la quale sedeva il Direttore che prendeva ordini diretti solo dal Presidente della Federazione.
Mentre attendeva l’invito a sedersi su una delle due poltrone di pelle, Andrei atteggiò il viso a una sfavillante espressione e disse: “Tutto fatto. Non esistono più riferimenti dell’operazione romana”. Andrei si aspettava un sorriso e un encomio per quanto avevano portato a termine. “Siete degli idioti”, disse quasi sibilando il Direttore lasciandoli in piedi esterrefatti. “Avete combinato un casino senza precedenti che ci sta costando molto caro sul piano dei nostri rapporti internazionali. L’operazione Roma è ormai attribuita alla mafia russa perché qualche imbecille tra voi ha fatto dichiarazioni che sono state veicolate sia nel mondo islamico che in quello occidentale. Voi credevate di addossare agli arabi le due esplosioni nella capitale italiana. Invece avete creato un boomerang di grandi dimensioni che sta ritorcendosi contro di noi. Anche la situazione Chechena è in ebollizione di nuovo perché non accettano di essere tirati dentro un complotto nel quale non hanno alcuna responsabilità”. Il Direttore si interruppe un istante per riprendere fiato e prendere un sorso di acqua da un bicchiere. “Compagno Direttore” tentò di interloquire Andrei “Posso dire qualcosa… ?”. “Qui non ci sono compagni. E voi non siete autorizzato a parlare”. Questa la secca risposta del Direttore che premè un tasto. La grande porta si aprì di nuovo e fece il suo ingresso l’ufficiale che li aveva accompagnati in ascensore. Dietro di lui entrarono nell’ufficio quattro agenti in borghese. “Prendili e portali giù” ordinò il Direttore. “Sai quello che devi fare”.
giovedì 26 marzo 2015
domenica 22 marzo 2015
Capitolo 25 - Washington sotto traccia
“Benvenuti nel più antico ristorante georgiano”.
Li accolse con un gran sorriso Andrei che li condusse nella saletta dove attendeva il collega Valery insieme a due bellezze mozzafiato.
Presentazioni: Svetlana e Natascia. Ce l’avevano dipinto in faccia che si trattava di escort super lusso da almeno mille dollari a botta. La conversazione avveniva in inglese, una lingua che Mauro Ciaparro dominava perfettamente. Quanto a Luigi Ferrario si arrangiava. Ma quello che gli interessava in quel momento erano gli occhi azzurri di Natascia che gli sedeva accanto e che aveva cominciato a servirgli un bicchiere di vodka. Andrei era in vena di descrizioni turistiche:
“Questo ristorante è un landmark turistico di Mosca. La sua costruzione risale ai tempi degli Czar. Stalin era un frequentatore assiduo e si dice che si fosse fatto costruire un tunnel per raggiungere l’Aragvi dal suo ufficio nel Kremlino…”.
“Figlio di puttana… ” esclamò Ciaparro.
“Chi, Stalin?” chiese Andrei con un’espressione tra il sorpreso e il duro.
“No, il tassista. Ci ha fatto fare un sacco di giri a vuoto e mi ha rubato pure sul prezzo”.
“Normale”, disse ridendo Valery. “ Quasi come a Napoli”.
Andrei continuò nella descrizione del ristorante famoso per la sua cucina georgiana e per i vini Tsinandali. “Abbiamo voluto prenotare qui perché questo è un locale frequentato soprattutto dai russi e non dai turisti stranieri. Se non avete nulla in contrario ho ordinato un menu tipico georgiano senza andare sul solito caviale Beluga”. Un paio di grasse cameriere agghindate con nastri e grembiuli colorati cominciarono a portare piatti in tavola sui quali gli ospiti italiani si fiondarono perchè era da quando avevano mangiato lo schifoso spuntino offerto dalla compagnia aerea che non mettevano qualcosa nello stomaco.
“Queste cameriere, disse ridendo Mauro Ciaparro mentre masticava un piccolo blini, mi ricordano le “dezhurnaia”, le poliziotte ai tempi dell’URSS che facevano la guardia a ogni piano degli alberghi per controllare chi entrava e usciva dalle camere. Ma con un paio di calze italiane e un disco di Celentano uno si assicurava il passaggio libero di ogni ragazza”.
Andrei, Valery, Natascia e Svetlana si unirono ridendo al ricordo giovanile del vecchio Ciaparro, annaffiato da un brindisi all’amicizia. Le ragazze si alzarono per andarsi “a incipriare il naso”. Anche se poi la scusa era per farsi una sniffata di coca. Rimasti soli Andrei chiese ai due italiani:
“Adesso che non ci sono quelle scimunite ci dovete dire con sincerità come avete fatto a portare a termine un’operazione così complessa come quella di Roma. Quanti eravate?”.
“Quanti eravamo?”, si inserì Luigi Ferrario con il suo inglese romanesco, “Noi due soli. E quanti volevi che fossimo? Del resto Mauro ve l’aveva detto”.
“Incredibile, fece Andrei, dateci qualche dettaglio… ”.
“Beh, prima di tutto ci siamo travestiti da tecnici dell’ACEA, la società che distribuisce elettricità e acqua a Roma. Alla Stazione Termini ci siamo arrivati la mattina alle quattro. Non c’era nessuno per le strade. Abbiamo parcheggiato il furgone con le scritte ACEA vicino a un tombino che sapevamo conduceva ai treni. Abbiamo piazzato le cariche all’interno dei binari lavorando in modo che le telecamere della sicurezza credessero che stavamo riparando la corrente sulla linea portante. Luigi e io indossavamo una maschera di lattice con un’altra fisionomia che ci copriva il volto”.
“Quante cariche avete messo?” chiese Valery.
“Una decina” rispose Mauro “Tutte collegate tra loro wireless a un contatto sulla linea e per sicurezza anche a un timer. Alcune cariche le abbiamo posizionate in alto dietro alcuni sostegni di cemento della volta”.
“E in piazza San Pietro come avete fatto?”.
Mauro Ciaparro aspirò una sigaretta. Non avrebbe dovuto fumare perché dopo che gli avevano scoperto una lieve aritmia sarebbe stato meglio evitare il fumo. Ma quella era una serata speciale e poi la vodka e il pesante cibo georgiano lo stavano intorpidendo e aveva bisogno di un po’ di nicotina.
“Lì è stato un po’ più complicato. Siamo arrivati sempre con le divise da tecnici ACEA e con un furgone con braccio estensibile che manovravo io dalla macchina. Luigi è salito dentro il gabbiotto e ha piazzato le cariche all’interno del colonnato. Questo lavoro lo abbiamo fatto prima di Termini. Saranno state le due del mattino. Ovviamente siamo stati avvicinati da due della security vaticana che giravano nella piazza e strade vicine. Ci hanno chiesto i documenti, il permesso di effettuazione del lavoro. Gli abbiamo dato tutto, falso ovviamente, assicurando che ce la saremmo cavata in poco
tempo. Dovevamo ispezionare qualche cablatura perché era arrivato un segnale di interruzione della fornitura di energia in una struttura all’interno. Sono stati felici di ritornare alla macchina e noi abbiamo potuto completare il lavoro. Gli abbiamo fatto firmare persino il foglio di lavoro”.
“Formidabile”, esclamò Andrei a bassa voce mentre le due ragazze tornavano ridendo e fregandosi il naso.
Si era fatta quasi mezzanotte e il ristorante Aragvi stava per chiudere.
“Bene, disse Valery, adesso spostiamoci a casa mia così potremo continuare la serata in santa pace”. Fecero chiamare due taxi e una volta arrivati a destinazione fu Andrei che pagò la corsa.
Li accolse con un gran sorriso Andrei che li condusse nella saletta dove attendeva il collega Valery insieme a due bellezze mozzafiato.
Presentazioni: Svetlana e Natascia. Ce l’avevano dipinto in faccia che si trattava di escort super lusso da almeno mille dollari a botta. La conversazione avveniva in inglese, una lingua che Mauro Ciaparro dominava perfettamente. Quanto a Luigi Ferrario si arrangiava. Ma quello che gli interessava in quel momento erano gli occhi azzurri di Natascia che gli sedeva accanto e che aveva cominciato a servirgli un bicchiere di vodka. Andrei era in vena di descrizioni turistiche:
“Questo ristorante è un landmark turistico di Mosca. La sua costruzione risale ai tempi degli Czar. Stalin era un frequentatore assiduo e si dice che si fosse fatto costruire un tunnel per raggiungere l’Aragvi dal suo ufficio nel Kremlino…”.
“Figlio di puttana… ” esclamò Ciaparro.
“Chi, Stalin?” chiese Andrei con un’espressione tra il sorpreso e il duro.
“No, il tassista. Ci ha fatto fare un sacco di giri a vuoto e mi ha rubato pure sul prezzo”.
“Normale”, disse ridendo Valery. “ Quasi come a Napoli”.
Andrei continuò nella descrizione del ristorante famoso per la sua cucina georgiana e per i vini Tsinandali. “Abbiamo voluto prenotare qui perché questo è un locale frequentato soprattutto dai russi e non dai turisti stranieri. Se non avete nulla in contrario ho ordinato un menu tipico georgiano senza andare sul solito caviale Beluga”. Un paio di grasse cameriere agghindate con nastri e grembiuli colorati cominciarono a portare piatti in tavola sui quali gli ospiti italiani si fiondarono perchè era da quando avevano mangiato lo schifoso spuntino offerto dalla compagnia aerea che non mettevano qualcosa nello stomaco.
“Queste cameriere, disse ridendo Mauro Ciaparro mentre masticava un piccolo blini, mi ricordano le “dezhurnaia”, le poliziotte ai tempi dell’URSS che facevano la guardia a ogni piano degli alberghi per controllare chi entrava e usciva dalle camere. Ma con un paio di calze italiane e un disco di Celentano uno si assicurava il passaggio libero di ogni ragazza”.
Andrei, Valery, Natascia e Svetlana si unirono ridendo al ricordo giovanile del vecchio Ciaparro, annaffiato da un brindisi all’amicizia. Le ragazze si alzarono per andarsi “a incipriare il naso”. Anche se poi la scusa era per farsi una sniffata di coca. Rimasti soli Andrei chiese ai due italiani:
“Adesso che non ci sono quelle scimunite ci dovete dire con sincerità come avete fatto a portare a termine un’operazione così complessa come quella di Roma. Quanti eravate?”.
“Quanti eravamo?”, si inserì Luigi Ferrario con il suo inglese romanesco, “Noi due soli. E quanti volevi che fossimo? Del resto Mauro ve l’aveva detto”.
“Incredibile, fece Andrei, dateci qualche dettaglio… ”.
“Beh, prima di tutto ci siamo travestiti da tecnici dell’ACEA, la società che distribuisce elettricità e acqua a Roma. Alla Stazione Termini ci siamo arrivati la mattina alle quattro. Non c’era nessuno per le strade. Abbiamo parcheggiato il furgone con le scritte ACEA vicino a un tombino che sapevamo conduceva ai treni. Abbiamo piazzato le cariche all’interno dei binari lavorando in modo che le telecamere della sicurezza credessero che stavamo riparando la corrente sulla linea portante. Luigi e io indossavamo una maschera di lattice con un’altra fisionomia che ci copriva il volto”.
“Quante cariche avete messo?” chiese Valery.
“Una decina” rispose Mauro “Tutte collegate tra loro wireless a un contatto sulla linea e per sicurezza anche a un timer. Alcune cariche le abbiamo posizionate in alto dietro alcuni sostegni di cemento della volta”.
“E in piazza San Pietro come avete fatto?”.
Mauro Ciaparro aspirò una sigaretta. Non avrebbe dovuto fumare perché dopo che gli avevano scoperto una lieve aritmia sarebbe stato meglio evitare il fumo. Ma quella era una serata speciale e poi la vodka e il pesante cibo georgiano lo stavano intorpidendo e aveva bisogno di un po’ di nicotina.
“Lì è stato un po’ più complicato. Siamo arrivati sempre con le divise da tecnici ACEA e con un furgone con braccio estensibile che manovravo io dalla macchina. Luigi è salito dentro il gabbiotto e ha piazzato le cariche all’interno del colonnato. Questo lavoro lo abbiamo fatto prima di Termini. Saranno state le due del mattino. Ovviamente siamo stati avvicinati da due della security vaticana che giravano nella piazza e strade vicine. Ci hanno chiesto i documenti, il permesso di effettuazione del lavoro. Gli abbiamo dato tutto, falso ovviamente, assicurando che ce la saremmo cavata in poco
tempo. Dovevamo ispezionare qualche cablatura perché era arrivato un segnale di interruzione della fornitura di energia in una struttura all’interno. Sono stati felici di ritornare alla macchina e noi abbiamo potuto completare il lavoro. Gli abbiamo fatto firmare persino il foglio di lavoro”.
“Formidabile”, esclamò Andrei a bassa voce mentre le due ragazze tornavano ridendo e fregandosi il naso.
Si era fatta quasi mezzanotte e il ristorante Aragvi stava per chiudere.
“Bene, disse Valery, adesso spostiamoci a casa mia così potremo continuare la serata in santa pace”. Fecero chiamare due taxi e una volta arrivati a destinazione fu Andrei che pagò la corsa.
sabato 14 marzo 2015
Capitolo 24 - Washington sotto traccia
Ciaparro e Ferrario erano due bombaroli professionisti.
Conosciuti dalle cosche mafiose più agguerrite avevano prestato
la loro consulenza in diverse occasioni, senza arrivare al
piazzamento finale degli esplosivi e alla pressione sul telecomando.
Ciaparro si era fatto una approfondita esperienza da militare
quando inserito in una unità del Genio lo avevano mandato
a sminare alcuni territori in Libano ai tempi della guerra
civile. Qualcuno dei suoi comilitoni ci aveva rimesso la pelle.
Ma era molto facile morire in quei tempi in Libano e lui
invece se l’era cavata.
Poi si era fatto assumere dalla BSC (Blackwater Security
Consulting) che era stata costituita nel 2001 con base a Moyock,
North Carolina. La missione ufficiale della BSC era
quella di proteggere i diplomatici in Iraq. Ma sono stati molti
gli episodi nei quali i mercenari della BSC hanno compiuto
eccidi contro la popolazione civile irachena.
Ciaparro aveva mostrato subito i suoi talenti aveva lasciato
la BSC e lo avevano convinto a unirsi a un commando ‘figlio
di nessuno’ che piazzava bombe alternativamente tra gli sciiti
e i sunniti in modo da fare crescere l’odio reciproco tra le
due componenti della popolazione irachena. Sperando che
il conflitto si ingigantisse coinvolgendo sia l’Iran shiita che
l’Arabia Saudita sunnita. Pagavano molto bene.
Quanto a Luigi Ferrario il suo curriculum vitae era certo
meno impressionante di quello di Ciaparro. Comunque
si era fatto un nome come giovanissimo aggregato ai tempi
della Banda della Magliana alla fine degli anni ’80 e quanto
a esplosivi era diventato un serio ed esperto fornitore della
manovalanza laziale, costantemente aggiornato sugli ultimi
ritrovati. Aveva canali riservati con diversi paesi.
Erano arrivati in piazza Lubianka. Si fermarono a osservare
la facciata del palazzo che sotto l’Unione Sovietica era
divenuto la sede della Cheka, la polizia segreta che poi aveva
preso il nome di KGB.
“Quando sono venuto in questo paese tanti anni fa”, disse
parlando sottovoce Ciaparro, “ogni volta che si passava in
questa piazza ti veniva naturale tenerti alla larga da questa
costruzione e svicolare. Chi veniva portato qui dentro il più
delle volte rischiava di non uscire. E se usciva era per essere
deportato in Siberia, come è successo allo scrittore Aleksandr
Isayevich Solzhenitsyn di cui vedi qui adesso la statua, che
hanno messo dopo che è andato al potere Gorbachev. Della
Lubianka si diceva che contavano soprattutto i piani sottoterra
(fino a sette livelli, ma sarà vero?) dove c’erano le stanze
degli ‘interrogatori’ e le prigioni. Noi giovani del PCI eravamo
convinti che fosse solo la solita propaganda occidentale.
Sono stati gli stessi russi che hanno poi rivelato che cosa si
nascondeva in questo palazzo che, comunque, è ancora la
sede del KGB, il servizio segreto di cui è stato direttore lo
stesso Putin”.
Luigi Ferrario si fregò le mani perché un venticello cominciava
ad abbassare la temperatura.
“Mi mette un senso di angoscia questo palazzo. Senti: a
che ora dobbiamo ritrovarci con quei due?”.
“Alle otto. Prendiamo un taxi. Pago con i rubli che mi
hanno mandato nella busta”.
Mauro Ciaparro si avvicinò alla stazione dei taxi. Il primo
di fila era una Lada Priora della AvtoVAZ.
“Restaurant Aragvi, 6 Tverskaya” disse il vecchio italiano,
provocando un sorriso sfacciato del tassista che borbottò
qualcosa in russo che suonava “Come se non lo sapessi... ”.
“Bella macchina”, disse Ciaparro. “Pensare che li abbiamo
motorizzati noi i sovietici costruendo la fabbrica di Togliattigrad
che produceva la Zhiguli che altro non era se non la
Fiat 124. Quando lasciavi la macchina in strada dovevi levare
i tergicristallo, altrimenti te li rubavano perché erano preziosi
e introvabili i ricambi”.
Il traffico serale si era intensificato, ma il tassista procedeva
sulle corsie preferenziali e dopo un quarto d’ora arrivarono di
fronte al ristorante Aragvi. Ciaparro pagò con un biglietto da
mille rubli, pari a 23 Euro e il tassista ingranò la marcia e se
ne andò senza dare il resto.
Conosciuti dalle cosche mafiose più agguerrite avevano prestato
la loro consulenza in diverse occasioni, senza arrivare al
piazzamento finale degli esplosivi e alla pressione sul telecomando.
Ciaparro si era fatto una approfondita esperienza da militare
quando inserito in una unità del Genio lo avevano mandato
a sminare alcuni territori in Libano ai tempi della guerra
civile. Qualcuno dei suoi comilitoni ci aveva rimesso la pelle.
Ma era molto facile morire in quei tempi in Libano e lui
invece se l’era cavata.
Poi si era fatto assumere dalla BSC (Blackwater Security
Consulting) che era stata costituita nel 2001 con base a Moyock,
North Carolina. La missione ufficiale della BSC era
quella di proteggere i diplomatici in Iraq. Ma sono stati molti
gli episodi nei quali i mercenari della BSC hanno compiuto
eccidi contro la popolazione civile irachena.
Ciaparro aveva mostrato subito i suoi talenti aveva lasciato
la BSC e lo avevano convinto a unirsi a un commando ‘figlio
di nessuno’ che piazzava bombe alternativamente tra gli sciiti
e i sunniti in modo da fare crescere l’odio reciproco tra le
due componenti della popolazione irachena. Sperando che
il conflitto si ingigantisse coinvolgendo sia l’Iran shiita che
l’Arabia Saudita sunnita. Pagavano molto bene.
Quanto a Luigi Ferrario il suo curriculum vitae era certo
meno impressionante di quello di Ciaparro. Comunque
si era fatto un nome come giovanissimo aggregato ai tempi
della Banda della Magliana alla fine degli anni ’80 e quanto
a esplosivi era diventato un serio ed esperto fornitore della
manovalanza laziale, costantemente aggiornato sugli ultimi
ritrovati. Aveva canali riservati con diversi paesi.
Erano arrivati in piazza Lubianka. Si fermarono a osservare
la facciata del palazzo che sotto l’Unione Sovietica era
divenuto la sede della Cheka, la polizia segreta che poi aveva
preso il nome di KGB.
“Quando sono venuto in questo paese tanti anni fa”, disse
parlando sottovoce Ciaparro, “ogni volta che si passava in
questa piazza ti veniva naturale tenerti alla larga da questa
costruzione e svicolare. Chi veniva portato qui dentro il più
delle volte rischiava di non uscire. E se usciva era per essere
deportato in Siberia, come è successo allo scrittore Aleksandr
Isayevich Solzhenitsyn di cui vedi qui adesso la statua, che
hanno messo dopo che è andato al potere Gorbachev. Della
Lubianka si diceva che contavano soprattutto i piani sottoterra
(fino a sette livelli, ma sarà vero?) dove c’erano le stanze
degli ‘interrogatori’ e le prigioni. Noi giovani del PCI eravamo
convinti che fosse solo la solita propaganda occidentale.
Sono stati gli stessi russi che hanno poi rivelato che cosa si
nascondeva in questo palazzo che, comunque, è ancora la
sede del KGB, il servizio segreto di cui è stato direttore lo
stesso Putin”.
Luigi Ferrario si fregò le mani perché un venticello cominciava
ad abbassare la temperatura.
“Mi mette un senso di angoscia questo palazzo. Senti: a
che ora dobbiamo ritrovarci con quei due?”.
“Alle otto. Prendiamo un taxi. Pago con i rubli che mi
hanno mandato nella busta”.
Mauro Ciaparro si avvicinò alla stazione dei taxi. Il primo
di fila era una Lada Priora della AvtoVAZ.
“Restaurant Aragvi, 6 Tverskaya” disse il vecchio italiano,
provocando un sorriso sfacciato del tassista che borbottò
qualcosa in russo che suonava “Come se non lo sapessi... ”.
“Bella macchina”, disse Ciaparro. “Pensare che li abbiamo
motorizzati noi i sovietici costruendo la fabbrica di Togliattigrad
che produceva la Zhiguli che altro non era se non la
Fiat 124. Quando lasciavi la macchina in strada dovevi levare
i tergicristallo, altrimenti te li rubavano perché erano preziosi
e introvabili i ricambi”.
Il traffico serale si era intensificato, ma il tassista procedeva
sulle corsie preferenziali e dopo un quarto d’ora arrivarono di
fronte al ristorante Aragvi. Ciaparro pagò con un biglietto da
mille rubli, pari a 23 Euro e il tassista ingranò la marcia e se
ne andò senza dare il resto.
martedì 3 marzo 2015
Capitolo 23 di "W.D.C sotto traccia"
“Ogni volta che lo vedo lo trovo fantastico”.
Mauro Ciaparro con l’amico Luigi Ferrario stava ammirando
San Basilio, nella piazza Rossa.
“Pensa - continuò Ciaparro - che la prima volta che sono
venuto qui era il 1968. Ero studente e il partito mi mandò a
seguire un corso all’università Lomonosov”.
“Una Russia completamente diversa da questa”, disse Ferrario.
“Sì, ma anche affascinante. Noi italiani che eravamo riusciti
a rinascere col boom economico, quando venivamo in
Unione Sovietica facevamo un balzo all’indietro di quaranta
anni, anche se noi del PCI non lo volevamo ammettere”.
“Doveva essere dura a quei tempi… ”.
“Pensa che ogni persona girava con la sportina a rete che
si chiamava Avoska per metterci dentro quello che riusciva a
trovare, magari dopo una coda di ore. Una volta mi è capitato
di barattare una chitarra appena comprata con un chilo
di patate. Ma in Italia la nostra propaganda batteva sulla
metropolitana di Mosca che era ed è grandiosa, sulle grandi
costruzioni staliniane, imitazioni dei primi grattacieli americani,
che allora punteggiavano il panorama della città, sulla
bellezza del Kremlino. A proposito te ne dico una bella: la
prima volta che sono entrato con altri pochi turisti a visitare
il museo del Kremlino siamo stati costretti in un vestibolo a
indossare delle sovrascarpe di tela per non graffiare il parquet
delle sale. In quella sala c’erano dei cartelli che intimavano di
non fumare e sai in quale lingua erano scritti? In Italiano”.
Ciaparro e Ferrario erano arrivati quella mattina con un
volo da Roma dell’Aeroflot all’aeroporto internazionale Sheremetyevo
che con gli altri due, Domodedovo International
Airport e Vnukovo, serviva la capitale della Federazione Russa.
Mauro Ciaparro aveva superato i settantacinque anni anche
se non li dimostrava. Asciutto un po’ per natura e molto
per l’attività sportiva che continuava a fare sia in palestra che
correndo qualche maratoncina romana.
Luigi Ferrario era sui quarantacinque e non si poteva certo
definire un Adone: stomaco prominente che dimostrava una
particolare predilezione per la tavola e la bottiglia.
Mauro Ciaparro era in vena di rimembranze. Camminavano
attraversando la Piazza Rossa in mezzo a frotte di turisti
di ogni lingua che si godevano l’ombelico della Gran Madre
Russia grazie anche al mite autunno, una rarità per la capitale.
“Che tempi strani quelli, caro Luigi. Si era osservati dalla
mattina alla sera. Se ti univi a una ragazza potevi essere sicuro
che quella doveva riferire a un commissario del popolo ogni
giorno. Guai a farsi scappare dei commenti non ortodossi. I
francesi, che come al solito credevano di poter essere critici
verso l’URSS, sperimentarono sulla pelle che significava essere
interrogati dagli specialisti. E furono rimandati subito a Parigi.
Poi c’era la coabitazione… ”.
“Beh, quella c’era ancora in alcune regioni italiane… ”.
Ciaparro guardò in faccia Ferrario sorridendo:
“Come no? Ma qui devi sapere che fuori di ogni appartamento
vi era un cartello col numero degli squilli che dovevi
fare per non chiamare tutte le famiglie che coabitavano,
ognuna in una stanza. Quando una ragazza mi invitava a
‘casa sua’, ovvero nella stanza che occupava con un paio di
amiche, in cucina c’erano le pentole col lucchetto e non ti
dico il bagno che cosa era. Quanto a privacy le altre ragazze
si mettevano in testa la coperta e ridevano dei miagolii dell’amica”.
“Che effetto ti fa trovarti nella stessa città di un tempo,
in cui la vita è completamente diversa?”, domandò Ferrario.
Ormai avevano ripreso il loro vagabondare nella Piazza
Rossa. Si erano avvicinati al Mausoleo di Lenin.
“Un mondo totalmente diverso. A quei tempi una gran
miseria diffusa che rendeva omogenea tutta la popolazione
al livello più basso. Operai, medici, artisti. La casta era costituita
dai membri del partito che erano una minoranza e
potevano permettersi di andare nei negozi Beriotska dove si
potevano acquistare generi occidentali purchè si pagasse in
dollari e non in rubli. Oggi, guardati attorno: traffico caotico,
limousine che fanno concorrenza a quelle americane, le
più grandi firme della moda… ”.
Mauro Ciaparro continuava nell’esposizione dei suoi ricordi
lontani: “Ecco, vedi: questo è il Mausoleo di Lenin con
dentro il corpo imbalsamato del creatore dell’Unione Sovietica.
Ai miei tempi la fila dei visitatori, quasi tutti sovietici che
venivano in viaggio premio da altre regioni, era lunga centinaia
di metri. Ore e ore di attesa. Gli italiani che venivano
qui per affari si presentavano davanti alle guardie alla porta e
dicevano: “Italianski Delegatia” e venivano fatti passare alla
faccia di quelli che attendevano al freddo”.
Si avviarono verso Piazza Lubianka che distava novecento
metri dalla Piazza Rossa.
Luigi Ferrario chiese all’amico Mauro.
“Ancora non mi hai detto come ti hanno contattato… ”.
“Tutto per posta normale. I telefoni sono controllati e anche
gli sms. Ci hanno mandato i biglietti, il ristorante dove
dobbiamo incontrarci questa sera. Sono loro che ci procureranno
un posto dove dormire. Non credo in un albergo,
perché è meglio non lasciare tracce. Domani, quando ripartiremo
con l’ultimo volo per Roma, questa volta con scalo a
Vienna (e non so perché) ci daranno il contante che avanziamo
ancora per l’operazione”.
“Mauro, siamo chiari: ci hanno promesso un sacco di volte
che ci avrebbero pagato per il lavoro che abbiamo fatto.
Ma, dopo il piccolo acconto in Euro, di grana non se n’è vista
più”. Siamo sicuri che questi amici tuoi non ci prendono per
il culo? Perchè io non sono interessato a fare giri turistici”.
“Tranquillo, Luigi. Vedrai che andrà tutto bene... Questa è
gente seria e sono appoggiati ai massimi livelli”.
Mauro Ciaparro con l’amico Luigi Ferrario stava ammirando
San Basilio, nella piazza Rossa.
“Pensa - continuò Ciaparro - che la prima volta che sono
venuto qui era il 1968. Ero studente e il partito mi mandò a
seguire un corso all’università Lomonosov”.
“Una Russia completamente diversa da questa”, disse Ferrario.
“Sì, ma anche affascinante. Noi italiani che eravamo riusciti
a rinascere col boom economico, quando venivamo in
Unione Sovietica facevamo un balzo all’indietro di quaranta
anni, anche se noi del PCI non lo volevamo ammettere”.
“Doveva essere dura a quei tempi… ”.
“Pensa che ogni persona girava con la sportina a rete che
si chiamava Avoska per metterci dentro quello che riusciva a
trovare, magari dopo una coda di ore. Una volta mi è capitato
di barattare una chitarra appena comprata con un chilo
di patate. Ma in Italia la nostra propaganda batteva sulla
metropolitana di Mosca che era ed è grandiosa, sulle grandi
costruzioni staliniane, imitazioni dei primi grattacieli americani,
che allora punteggiavano il panorama della città, sulla
bellezza del Kremlino. A proposito te ne dico una bella: la
prima volta che sono entrato con altri pochi turisti a visitare
il museo del Kremlino siamo stati costretti in un vestibolo a
indossare delle sovrascarpe di tela per non graffiare il parquet
delle sale. In quella sala c’erano dei cartelli che intimavano di
non fumare e sai in quale lingua erano scritti? In Italiano”.
Ciaparro e Ferrario erano arrivati quella mattina con un
volo da Roma dell’Aeroflot all’aeroporto internazionale Sheremetyevo
che con gli altri due, Domodedovo International
Airport e Vnukovo, serviva la capitale della Federazione Russa.
Mauro Ciaparro aveva superato i settantacinque anni anche
se non li dimostrava. Asciutto un po’ per natura e molto
per l’attività sportiva che continuava a fare sia in palestra che
correndo qualche maratoncina romana.
Luigi Ferrario era sui quarantacinque e non si poteva certo
definire un Adone: stomaco prominente che dimostrava una
particolare predilezione per la tavola e la bottiglia.
Mauro Ciaparro era in vena di rimembranze. Camminavano
attraversando la Piazza Rossa in mezzo a frotte di turisti
di ogni lingua che si godevano l’ombelico della Gran Madre
Russia grazie anche al mite autunno, una rarità per la capitale.
“Che tempi strani quelli, caro Luigi. Si era osservati dalla
mattina alla sera. Se ti univi a una ragazza potevi essere sicuro
che quella doveva riferire a un commissario del popolo ogni
giorno. Guai a farsi scappare dei commenti non ortodossi. I
francesi, che come al solito credevano di poter essere critici
verso l’URSS, sperimentarono sulla pelle che significava essere
interrogati dagli specialisti. E furono rimandati subito a Parigi.
Poi c’era la coabitazione… ”.
“Beh, quella c’era ancora in alcune regioni italiane… ”.
Ciaparro guardò in faccia Ferrario sorridendo:
“Come no? Ma qui devi sapere che fuori di ogni appartamento
vi era un cartello col numero degli squilli che dovevi
fare per non chiamare tutte le famiglie che coabitavano,
ognuna in una stanza. Quando una ragazza mi invitava a
‘casa sua’, ovvero nella stanza che occupava con un paio di
amiche, in cucina c’erano le pentole col lucchetto e non ti
dico il bagno che cosa era. Quanto a privacy le altre ragazze
si mettevano in testa la coperta e ridevano dei miagolii dell’amica”.
“Che effetto ti fa trovarti nella stessa città di un tempo,
in cui la vita è completamente diversa?”, domandò Ferrario.
Ormai avevano ripreso il loro vagabondare nella Piazza
Rossa. Si erano avvicinati al Mausoleo di Lenin.
“Un mondo totalmente diverso. A quei tempi una gran
miseria diffusa che rendeva omogenea tutta la popolazione
al livello più basso. Operai, medici, artisti. La casta era costituita
dai membri del partito che erano una minoranza e
potevano permettersi di andare nei negozi Beriotska dove si
potevano acquistare generi occidentali purchè si pagasse in
dollari e non in rubli. Oggi, guardati attorno: traffico caotico,
limousine che fanno concorrenza a quelle americane, le
più grandi firme della moda… ”.
Mauro Ciaparro continuava nell’esposizione dei suoi ricordi
lontani: “Ecco, vedi: questo è il Mausoleo di Lenin con
dentro il corpo imbalsamato del creatore dell’Unione Sovietica.
Ai miei tempi la fila dei visitatori, quasi tutti sovietici che
venivano in viaggio premio da altre regioni, era lunga centinaia
di metri. Ore e ore di attesa. Gli italiani che venivano
qui per affari si presentavano davanti alle guardie alla porta e
dicevano: “Italianski Delegatia” e venivano fatti passare alla
faccia di quelli che attendevano al freddo”.
Si avviarono verso Piazza Lubianka che distava novecento
metri dalla Piazza Rossa.
Luigi Ferrario chiese all’amico Mauro.
“Ancora non mi hai detto come ti hanno contattato… ”.
“Tutto per posta normale. I telefoni sono controllati e anche
gli sms. Ci hanno mandato i biglietti, il ristorante dove
dobbiamo incontrarci questa sera. Sono loro che ci procureranno
un posto dove dormire. Non credo in un albergo,
perché è meglio non lasciare tracce. Domani, quando ripartiremo
con l’ultimo volo per Roma, questa volta con scalo a
Vienna (e non so perché) ci daranno il contante che avanziamo
ancora per l’operazione”.
“Mauro, siamo chiari: ci hanno promesso un sacco di volte
che ci avrebbero pagato per il lavoro che abbiamo fatto.
Ma, dopo il piccolo acconto in Euro, di grana non se n’è vista
più”. Siamo sicuri che questi amici tuoi non ci prendono per
il culo? Perchè io non sono interessato a fare giri turistici”.
“Tranquillo, Luigi. Vedrai che andrà tutto bene... Questa è
gente seria e sono appoggiati ai massimi livelli”.
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