giovedì 26 marzo 2015

Capitolo 26 di Washington sotto traccia

“Eccoci arrivati”, disse Valery aprendo la porta del piccolo appartamento in Kutuzovsky Prospekt. Negli anni dell’Unione Sovietica i giornalisti stranieri dovevano vivere in quel compound dove i poliziotti nelle garitte agli ingressi controllavano il movimento della gente. Più che di un appartamento si trattava di uno studio: una stanza con un divano, un paio di piccole poltrone, un tavolinetto centrale sul quale era appoggiato un vassoio di metallo con bottiglie di liquori. Il letto in un angolo della stanza era nascosto da un separè. Su un mobile troneggiava un samovar per il tè e Mauro, che aveva la passione per le antichità russe, dette un’occhiata interessata e vide che si trattava di un esemplare a nove bolli, uno dei più belli.
Svetlana che mostrava di conoscere bene l’ambiente si avvicinò al sistema dell’alta fedeltà dove inserì un CD di una band metallica russa che andava per la maggiore in quei giorni. Volume molto alto e la cosa non è che facesse piacere, soprattutto a Luigi Ferrario che soffriva di acufene, un fischio continuo che a volte gli lacerava il cervello, conseguenza di qualche esplosione ravvicinata alla quale aveva assistito senza il paraorecchie. Andrei aveva aperto la porta di un piccolo frigorifero e ne aveva estratta una bottiglia di vodka che fece circolare. Le due ragazze si servirono senza usare il bicchiere, bevendo e leccando il collo della bottiglia con grandi risate e sguardi provocanti ai due maturi italiani. Mauro Ciaparro e Luigi Ferrario avevano ormai un tasso alcoolico nel sangue da collasso, ma resistevano ancora. Faceva molto caldo nel piccolo appartamento. Natashia e Svetlana cominciarono a spogliarsi ridendo. Gettavano via gli indumenti. Rimasero completamente nude, arrampicate su tacchi altissimi, pelle bianco latte, sesso completamente rasato secondo l’usanza russa. Si muovevano ritmicamente seguendo il pulsare della musica lacerante. Si avvicinarono ai due ospiti e sorridendo si dettero da fare per sganciare le cinture dei pantaloni che fecero calare insieme alla biancheria intima. Gli avevano slacciato le camicie e cavalcando Mauro e Luigi che avevano aiutato a penetrarle, si stavano impegnando con lenti e progressivi movimenti del bacino, mentre li baciavano nel collo. Alcool, cibo, sesso con due statue di carne. Gli italiani si sentivano in paradiso. Affondavano il viso in quei seni turgidi, veri e non siliconati. Natashia e Svetlana si muovevano eroticamente all’unisono. Si scambiarono un’occhiata di assenso. Le siringhe di curaro impugnate da Andrei e Valery, che si erano spostati alle spalle del divano, penetrarono nel collo dei bombaroli fulminandoli. “Rivestitevi e fuori dai coglioni”, disse Andrei alle ragazze. “Chi parla fa la stessa fine”.
Nel frattempo Valery aveva preso da una scansia un paio di lunghi sacchi neri di plastica con chiusura lampo nei quali infilarono i cadaveri, che poi con fatica misero in una grande cesta di vimini. “Possiamo andare”, disse Valery ad Andrei. “Stanno salendo due addetti al servizio della monnezza. Vuoteranno tutto dentro il compactor. Li ho riempiti di rubli e non è la prima volta che me ne servo”. All’uscita del palazzo presero un taxi, destinazione Piazza della Lubianka. Il poliziotto alla porta esdaminò con attenzione i loro lasciapassare. Poi parlò per qualche secondo a un microfono. Un ufficiale apparve nel vano e salutati i due ospiti li condusse a un ascensore e fece loro segno di entrare dietro di lui. Piano terzo. Nonostante fossero le due di notte molte luci erano accese nei corridoi e nelle stanze dove lavoravano funzionari e agenti. L’ufficiale con passo cadenzato condusse i due ospiti di fronte alla porta di un ufficio e premè un pulsante. All’accendersi di una luce verde fece pressione sulla grande porta di noce e introdusse Andrei e Valery in una sorta di piazza d’armi in fondo alla quale era un’ampia scrivania con due poltrone di fronte. Andrei conosceva bene quell’ufficio al terzo piano che era appartenuto a Lavrenty Beria e più tardi a Yuri Andropov che doveva diventare segretario generale del partito sovietico. Durante gli anni passati come agente del KGB aveva assistito in diverse occasioni alla sentenza emessa nei confronti di altri agenti o gerarchi del partito che si erano macchiati di infedeltà. Questo era stato il suo lavoro: servizio di controspionaggio a tutela del partito e della Grande Russia contro le infiltrazioni fatte soprattutto dagli occidentali, americani in testa che distribuivano soldi a tonnellate pur di carpire informazioni sensibili. Qualche innocente c’era andato di mezzo. Ma è un prezzo che bisogna mettere in conto, pensava Andrei, pur di raggiungere l’obiettivo assegnato. I successi invece gli avevano creato un’aureola di grande fama. Poi era intervenuta la contro rivoluzione innescata da Gorbachev. Le cannonate ordinate da Eltzin contro la Casa Bianca, lo stesso nome di quella americana, sede del Soviet Supremo della Russia, dove si erano asserragliati quelli che non volevano abdicare al giuramento di fedeltà fatto al Partito e all’Unione Sovietica. Dopo, ognun per sé, dio per tutti. Chi aveva maturato un’esperienza significativa nella sicurezza trovava subito il modo di essere riciclato soprattutto dalla mafia russa che era uscita con prepotenza dall’anonimato e si infiltrava nei gangli vitali della nuova nazione, condizionando industria, finanza, commercio internazionale, informazione, mondo dello spettacolo. Andrei aveva trovato subito un’ottima sistemazione ‘professionale’ che gli permetteva di fare coordinamento tra i vari dipartimenti in cui la società criminale era articolata. Quanto a Valery era un subordinato, molto fedele a lui e all’organizzazione. Anche se qualche volta ad Andrei veniva il dubbio che tanto affetto potesse nascondere una tipica funzione di controllo per conto di altri. Ma il non fidarsi faceva parte della sua formazione professionale sperimentata per tanti anni nei Servizi. Percorsero i venti metri che li separavano dalla scrivania, dietro la quale sedeva il Direttore che prendeva ordini diretti solo dal Presidente della Federazione.
Mentre attendeva l’invito a sedersi su una delle due poltrone di pelle, Andrei atteggiò il viso a una sfavillante espressione e disse: “Tutto fatto. Non esistono più riferimenti dell’operazione romana”. Andrei si aspettava un sorriso e un encomio per quanto avevano portato a termine. “Siete degli idioti”, disse quasi sibilando il Direttore lasciandoli in piedi esterrefatti. “Avete combinato un casino senza precedenti che ci sta costando molto caro sul piano dei nostri rapporti internazionali. L’operazione Roma è ormai attribuita alla mafia russa perché qualche imbecille tra voi ha fatto dichiarazioni che sono state veicolate sia nel mondo islamico che in quello occidentale. Voi credevate di addossare agli arabi le due esplosioni nella capitale italiana. Invece avete creato un boomerang di grandi dimensioni che sta ritorcendosi contro di noi. Anche la situazione Chechena è in ebollizione di nuovo perché non accettano di essere tirati dentro un complotto nel quale non hanno alcuna responsabilità”. Il Direttore si interruppe un istante per riprendere fiato e prendere un sorso di acqua da un bicchiere. “Compagno Direttore” tentò di interloquire Andrei “Posso dire qualcosa… ?”. “Qui non ci sono compagni. E voi non siete autorizzato a parlare”. Questa la secca risposta del Direttore che premè un tasto. La grande porta si aprì di nuovo e fece il suo ingresso l’ufficiale che li aveva accompagnati in ascensore. Dietro di lui entrarono nell’ufficio quattro agenti in borghese. “Prendili e portali giù” ordinò il Direttore. “Sai quello che devi fare”.

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