domenica 26 aprile 2015

Capitolo 30 del giallo "W.D.C. sotto traccia"

Le due Chevrolet Suburban, nere e con in vetri oscurati
entrarono nel cancello della Casa Bianca dopo le ispezioni
d’uso da parte dei marines di guardia che ne ispezionarono
accuratamente il fondo con gli specchi. Nonostante gli autisti
avessero mostrato il badge dello FBI e della CIA.
“Fidarsi è bene. Ma non fidarsi è meglio”. Disse sorridendo
il direttore dello FBI al suo collega della CIA, quando
furono di fronte all’ingresso principale della White House.
I due, seguiti ciascuno da un assistente, furono accompagnati
nella Sala Ovale e fatti accomodare sui due divani
contrapposti.
“Ogni volta che mi trovo in questa stanza mi vien fatto
di pensare al presidente William Howard Taft che nel 1909
decise di espandere e rimodellare la West Wing”, disse il capo
del FBI.
“Già”, aggiunse il collega della CIA, “Per lui la Oval Room
doveva simboleggiare la sua visione della giornata moderna
di un Presidente che doveva essere il centro della amministrazione
e averne un controllo giornaliero più di quanto avessero
fatto i suoi predecessori”.
“Signori, il Presidente”, annunciò un usciere.
I quattro si alzarono metre il Presidente faceva il suo ingresso
accompagnato dal segretario per le relazioni con i media.
“Buon giorno. È meglio che veniate qui alla mia scrivania,
disse il Presidente.
I direttori presero posto nelle due sedie poste ai lati del
desk presidenziale, mentre gli altri sistemavano altre sedie di
fronte alla scrivania.
Il Presidente era vestito di grigio fumo di Londra con cravatta
a piccole righe su fondo bianco. Dopo quel meeting
aveva in agenda un lungo colloquio con il nuovo presidente
del Venezuela, succeduto a Chavez, morto di recente e che
tanti impicci aveva creato nei suoi anni di presidenza agli
Stati Uniti.
“Facciamo il punto sulle minacce di morte e i complotti
scoperti sino a oggi… ”, disse l’inquilino della White House.
“Signor Presidente”, iniziò il direttore dello FBI, “Partendo
dall’11 settembre 2001, grazie alla collaborazione delle
agenzie domestiche e internazionali abbiamo identificato
più di quaranta progetti terroristici contro gli Stati Uniti. Di
questi circa quattordici sono articolati nella soppressione del
Presidente. L’uccisione di Osama bin Laden ha confermato
che la guerra al terrorismo internazionale non è chiusa. Noi
siamo ancora il target preferito di queste azioni e i dollari
investiti nei programmi di sicurezza devono essere modulati
secondo il variare delle tecniche di aggressione”.
Il Presidente si rivolse con aria interrogativa al direttore
della CIA che sedeva alla sua sinistra.
“Dopo i tragici atti terroristici di Roma le informazioni
incrociate in nostro possesso ci confermano che il target è
cambiato. Da parte delle centrali del terrorismo internazionale
si cerca l’episodio sconvolgente a livello planetario.
E questo non può che essere focalizzato nell’uccisione del
Presidente degli Stati Uniti. Un attentato alla sua persona
avrebbe una doppia valenza: da una parte sarebbe la più grave
sconfitta di immagine per il nostro Paese.
In secondo luogo, il fatto poi che Lei si sia apertamente
schierato a favore delle energie rinnovabili ha fatto della sua
figura un bersaglio su cui convergono i propositi di molti
attori della cultura del petrolio.
Dagli estrattori, ai raffinatori, dalle aziende che costruiscono
impianti di gassificazione, centrali a carbone, ai costruttori
di autoveicoli. Per non parlare degli interessi domestici
legati alla distribuzione dei carburanti.
Questa singolare coincidenza di interessi diversi fa sì che il
pericolo degli atti di terrorismo internazionale si saldino con
i movimenti domestici americani da sempre schierati contro
Washington”.
“Quando anni fa mi sono presentato come candidato alle
elezioni presidenziali sapevo bene che correvo questo rischio”,
commentò il Presidente. “Fa parte del mio mestiere. Cercate
piuttosto di mobilitare tutte le vostre risorse e di evitare gli
errori che hanno punteggiato decenni di rivalità tra FBI e
CIA durante le passate presidenze. Di questo voi rispondete
a me e al Congresso. Lo sapete bene”.
I due direttori annuirono.
“Bene: adesso passiamo alla mia immagine personale.
John, quali sono gli ultimi rilevamenti?”.
“Purtroppo non sono buoni, signor Presidente. Siamo al
di sotto della soglia del 30% che già di per sè è molto bassa.
Le viene contestato da larga parte dell’opinione pubblica che
la nazione non è ancora riuscita a riprendersi dopo gli anni di
recessione nei quali siamo precipitati. Purtroppo, come Lei
sa bene, tutti gli indicatori macroeconomici indicano che la
ripresa dalla recessione è ancora debole”.
“Dai, John... non venire a ripetermi quello che mi dicono
tutti i giorni quelli della FED e gli altri consulenti economici:
GDP in calo mentre i fallimenti e la disoccupazione
sono alti. Gli ultimi provvedimenti basati sull’aumento della
circolazione monetaria, l’incremento della spesa e la diminuzione
delle tasse sono l’unica ricetta. Sta a te pompare i media
e contrastare le critiche.
Ma adesso state bene a sentire, possibilmente senza fare
obiezioni: ho deciso di fare un giro di alcuni giorni presso
alcune piccole comunità locali, soprattutto di stati che mi
odiano.
Visto che sta per scadere il secondo mandato e che non
ho la preoccupazione di andare a fare comizi in Ohio, voglio
invece recarmi in Arizona e in Nevada. A parlare con la gente
che vive intorno ai tre grandi laghi artificiali, Havasu, Mead
e Powell.
Voglio andare là e ricordare che, a partire dal 1936, i miei
predecessori alla Casa Bianca ebbero la visione di come doveva
essere governato questo Paese. Che non si doveva guardare
alle cose di casa nostra con la tradizionale miopia del politico
americano preoccupato solo della propria rielezione.
Quei presidenti, che in decenni diversi hanno affrontato
polemiche e rischi personali, hanno dato vita a immense modificazioni
del deserto che hanno assicurato e stanno assicurando
acqua al Nevada, Arizona e California.
Noi, prendendo esempio da quella visione che andava
avanti nei decenni, dobbiamo fare altrettanto. La via per noi
è il cambio di paradigma culturale. Dal petrolio e combustibili
fossili, alle energie rinnovabili. Lo dobbiamo fare per le
future generazioni.
Io credo in questo. Ecco perchè voglio cominciare da un
town-hall, un consiglio comunale, a Lake Havasu. E tu John,
devi battere la grancassa a più non posso su queste visite, anche
se è scontato che incontreremo molti oppositori. Quanto
alla sicurezza, ragazzi: pensateci voi”.
Il Presidente si alzò e strinse la mano a ognuno dei collaboratori
prima di avviarsi verso la porta che lo conduceva
all’incontro con il nuovo presidente venezuelano.

martedì 21 aprile 2015

Capitolo 29 di "W.D.C sotto traccia"

“Ho prenotato”. Disse Rachel alzandosi dal costoso bidet
che aveva fatto installare nel suo bagno (arnese sanitario bandito
in America perché considerato poco igienico e odiato
dai perbenisti perché ritenuto uno strumento da professioniste
del sesso da evitare in una casa normale).
Si asciugò accuratamente con un piccolo tovagliolo di soffice
carta.
“Prenotato cosa e dove?” chiese con un filo di voce Michael
Bardi che era sdraiato nudo sul letto disfatto. Ma anche
Michael si sentiva disfatto dopo il trattamento di Rachel che
aveva scaricato su di lui per ore tutta la sua energia sessuale.
“A Sedona. Sono stanca, voglio fare una vacanza e celebrare
insieme la tua guarigione. Partiamo domani per Phoenix
dove prenderemo una macchina”.

“Ma che auto ci hanno dato?” chiese Rachel a Michael che
guidava.
“Una Nissan Versa. Era l’ultima che gli era rimasta, con
tutti i turisti che sono arrivati. Comunque ho fatto mettere
il GPS”
“Ma a quanto stai andando?”.
“85 miglia”.
“Ma sei matto?”.
“Guarda che il limite su queste autostrade in Arizona è di
75 miglia. Poi si può fare un arrotondamento. Raro trovare
la polizia. Vedi quel truck che ci sta superando. Sicuramente
viaggia a più di 90 miglia”.

Dall’aeroporto di Phoenix avevano preso la I 17 con direzione
Flagstaff, un centinaio di miglia. Poi l’uscita sulla SR-
179 per arrivare a Sedona. Due ore circa prima di giungere
a destinazione.
Arrivarono a Oak Creek Village, località alle porte di Sedona
dove Rachel aveva prenotato un bed & breakfast famoso
per il lusso delle sue camere.
Adobe Graham Inn era gestito da Ron e Cheryl due curiosi
personaggi che avevano riversato nell’arredamento delle
sette camere e nella gestione del b&b il loro talento di amanti
dell’arte e la passione per i cibi organici.
A Rachel e Michael era stata assegnata la Sundance room
arredata con un enorme letto a baldacchino sul quale persino
i due giovani che erano di alta statura, stentarono all’inizio
a salire. Un rustico di gran lusso con la cura quasi maniacale
dei dettagli. Il menu della colazione e anche le posate e stoviglie
cambiavano ogni giorno.
Rachel appena posato il suo bagaglio a mano, scalciò da
una parte le scarpe, si liberò della tunica di lino con la quale
aveva viaggiato, rimanendo in tanga, seni con capezzoli
eretti.
Aveva aperto l’acqua della vasca Jacuzzi dove si immerse
tra un ribollire dei getti. Michael nel frattempo aveva stappato
una bottiglia di Dom Perignon che aveva versato in due
flutes, posti sul bordo della vasca insieme ad alcune candele
accese.
Il rituale americano della nota vasca di idromassaggio dal
nome italiano era rispettato. E anche lui si immerse nell’acqua
che ribolliva mentre il corpo di Rachel gli s’incollava addosso.

La guida aspettava da una mezz’ora nella ampia hall del
b&b. L’appuntamento era per le dieci. Michael e Rachel
finalmente discesero la scala e si avvicinarono alla poltrona
dove sedeva il loro ospite scusandosi per il ritardo.
“Signori, bene arrrivati. Mi avete ‘arruolato’ per qualche
giorno. Ma prima di iniziare le nostre esplorazioni penso sia
utile darvi qualche ragguaglio su ciò che stiamo andando a
vedere e sperimentare.
Mi chiamo Carlo Montezuma, proprio come il mio antico
avo che riportò nella Verde Valley i miei progenitori della tribù
Yavapai che erano stati decimati nella deportazione nella
riserva di San Carlo, lontana da qui 180 miglia.
Sì, noi ‘native Americans’ abbiamo molto sofferto. Qualcuno
parla di genocidio, considerato che in tutto il continente
gli ‘indiani’ sono stati eliminati a milioni. Ma sono
affermazioni che non si possono fare in pubblico”.
Rachel e Michael ascoltavano attenti sorbendo il tè di pesca
che Ron aveva portato insieme a dei minuscoli muffin dal
sapore squisito.
“Vado avanti”, disse Carlos Montezuma.
“Sedona… a proposito… prima che me lo domandiate…
è il nome della moglie del fondatore del primo ufficio postale.
Voi avete richiesto di partecipare a qualche seduta di
meditazione nei vortex di questa città.
Questa area per migliaia di anni è sempre stata considerata
come sacra. Le popolazioni primitive accorrevano in certi
periodi del’anno a invocare lo Spirito.
I vortex di Sedona sono diventati famosi in tutto il mondo,
non perchè siano creati da vento o acqua. Ma perchè si tratta
di vortici di energia spirituale che scaturisce dalla terra di
alcune zone.
Questa energia interagisce in diverse forme e modi. Non
è facile da spiegare. Bisogna provare. La leggenda Indiana
sostiene che ci sono quattro località nel mondo che hanno
questo potere energetico.
Due sono di natura positiva e due di natura negativa.
Quelle di natura positiva sono rispettivamente Kauai nelle
Hawaii e Sedona… ”.
“E quelle negative?” chiese Rachel.
“Preferisco non scendere nei particolari. Ma forse lo scoprirà
da sola a suo tempo. Sedona e Kauai, diciamo noi pellerossa,
sono dei vortexes nei quali il Grande Spirito si manifesta
facendo nascere l’arcobaleno. Il punto di massima
esternazione di questa energia si ha quando due ‘ley lines’ si
intersecano.
Qui a Sedona ci sono tre aree di massima concentrazione
di energia. La prima è mascolina; l’altra femminile e la terza
neutrale (il bilanciamento tra le due). Per esperienza professionale
ritengo che si debba cominciare da quella femminile
che è situata nel vortex della Cathedral Rock, proprio qui
vicino”.
“Perchè non cominciare dal vortex maschile?” chiese Michael
Bardi.
“Giusta domanda. Perchè il vortice femminile racchiude
anche l’energia maschile. Ma oltre alla forza e al coraggio, ha
anche la gentilezza, la bellezza, la compassione e la capacità
di amare.
Noi guide raccomandiamo che la prima visita sia fatta al
vortex femminile prima di passare agli altri due. Questo dipende
dal fatto che si tratta di una forma di forza magnetica
che aiuta a rimuovere l’energia negativa dal corpo umano e
dallo spirito.
Andremo dunque al Cathedral Rock Vortex dove il punto
di massima energia è situato vicino al fiume e permette di
sanare molte disfunzioni sia del corpo che dell’anima”.
Lasciata la macchina in una piazzola, cominciarono a
salire percorrendo uno stretto sentiero che non presentava
particolari difficoltà. Le pietre lisce in alcuni tratti erano la
dimostrazione che quel percorso veniva fatto da migliaia di
persone ogni anno.
Dopo venti minuti arrivarono in una valle stretta percorsa
da un’ansa del fiume.
Alberi e vegetazione bassa interrotta in alcuni punti da
tappeti di erba. Alcuni massi di colore arancione punteggiavano
la spianata.
Dietro si spalancava il fondale delle rocce rosse della Cattedrale
con le guglie color carminio indorate dai raggi lunghi
del sole in un contrasto di luci e di ombre.
Rachel e Michael si fermarono con il fiato corto, abbagliati
da tanta bellezza.
La guida Montezuma li fece sedere su due rocce levigate.
Da uno zaino tolse alcune collane colorate e una corona di
penne vermiglie e bianche che mise sul capo.
Impose ai due giovani di sedere con la gambe riunite sotto
il corpo e le palme delle mani appoggiate sulle cosce e rivolte
verso l’alto. Occhi chiusi.
Poi prese a salmodiare alcune frasi dal suono sincopato
nella sua lingua Yavapai.
Michael aveva affrontato questa esperienza con un tipico
cinismo italiano. La considerava una manifestazione di paganesimo,
buona per incantare gli allocchi, ovvero i turisti
danarosi pronti a sborsare centinaia di dollari per simili scemenze.
Man mano che l’ossessionante cadenza vocale di Montezuma
saliva e calava di tono, in una lingua densa di consonanti
e suoni gutturali, sentiva scaturire dall’interno delle
sue viscere una sorta di fuoco che andava a investire tutto il
suo corpo. Una febbre che bruciava, ritmicamente, seguendo
l’altalena del cantico del pellerossa.
Poi udì un sospiro, un gemito, un lamento continuato.
Rachel stava piangendo a dirotto, gli occchi chiusi, scuotendo
la testa in avanti e indietro e mormorava suoni indistinti
che andavano crescendo di tono.
All’improvviso fermò il moto della testa, mentre il suo
corpo veniva scosso da una febbre terzana e cominciò a mugolare
con una voce che non era più la sua, come se fosse
scesa in trance e parlasse per bocca di uno spirito.
I capelli le si erano alzati per un fenomeno elettromagnetico,
il viso stravolto e il trucco che le scolava sulle guance
rendevano la sua faccia una maschera da tragedia greca.
Adesso urlava frasi senza senso. Gli occhi ormai aperti e
sbarrati a guardare una realtà che le era sconosciuta.
Agguantata una pietra cominciò a percuotersi il petto e la
testa sgranando una giaculatoria di bestemmie e espressioni
oscene. Dalla bocca le usciva una bava giallastra.
“Sono io... distruggo tutto... tutto quello che tocco... quello
che trovo... niente amore... soldi... soldi... denaro... tutto...
per me... solo potere... sempre più forza... più potere... no
pietà... vince sempre Satana... ti adoro Lucifero... ”.
E urlava in preda a una crescente vibrazione psicomotoria
come una tarantolata. Finchè cadde a terra paralizzata, agonizando
perchè non riusciva a respirare.
Michael si precipitò su di lei e iniziò la respirazione bocca
a bocca, nonostante la bava, ma senza successo. Disperato le
pose una mano sotto il seno sinistro e iniziò un forte massaggio
cardiaco.
Rachel cominciò a respirare di nuovo. Dopo una decina
di minuti Montezuma, la guida pellerossa, l’aiutò insieme a
Michael a rimettersi in piedi. Si avviarono lentamente sul
sentiero per raggiungere la macchina nel parcheggio. Rachel
man mano riusciva a riprendere forza. Era come se si stesse
svegliando da un incubo.
“Michael”, disse con un filo di voce. “La mia borsa… ho
lasciato la borsa su quella pietra. Per favore vai a prenderla…
Grazie, tesoro”.
Michael ritornò sui suoi passi mentre Rachel e Montezuma
proseguivano il loro cammino lungo il sentiero.
La borsa era caduta vicino a un cespuglio quando Rachel
era stata colta dalle convulsioni. Michael la raccolse e in quel
momento un telefono cellulare cominciò a vibrare. Michael
aprì la borsa, estrasse lo smart phone.
Sul display appariva un messaggio sms. “Perché non rispondi?
Voglio avere aggiornamenti su quello che stai controllando
da vicino. Fatti viva e subito. Firmato Paul”. Il telefono
da cui era partito il messaggio era quello personale
del Boss della Smithson & Bradley Law Firm che Michael
conosceva bene. Michael cancellò la chiamata.

Ospedale di Sedona. Sala di attesa. Le sedie erano quasi
tutte occupate. Michael ne trovò una libera vicino alla macchina
frigorifera che dispensava acqua depurata.
“Non ti fidare... ”. Montezuma era apparso all’imrpovviso
da una porta laterale. Si era avvicinato senza fare rumore e
chinatosi verso Michael gli parlava all’orecchio.
“Guarda che su di lei c’è un dossier che fa paura. La seguiamo
da tempo. Bravissima nel doppio gioco e nel ricattare...
Cerca di approfondire... ”.
“Quanto ad approfondimenti, non ti preoccupare. È insaziabile
e nessuno la ferma” sorrise Michael. Ma si rese conto
di avere detto una frase poco elegante che puzzava maschilismo
d’accatto, proprio lui che si era sempre fatto paladino
del diritto delle donne di liberarsi dai tabu’ sessuali imposti
dai maschi e dalle religioni.

lunedì 6 aprile 2015

Capitolo 28 del "Washington DC sotto traccia"

“Bene”, disse il Boss della famosa Smithson & Bradley, Law Firm di Washington con oltre 500 avvocati. “Andiamo giù”. Oltre il Boss e i suoi quattro associates si era aggiunto anche Joe Linkedin, consulente per le strategie. Uscirono dall’ascensore interno ed entrarono nella spoglia stanza, meglio conosciuta come ‘gabbia di Faraday’. “Dopo tutti gli attentati che si sono succeduti a cominciare da quello di Roma la confusione regna a livello globale”, aprì la discussione il Boss. “Joe ci dica qual è lo scenario più verosimile a breve data”.
Joe Linkedin era un omone, ex giocatore di football americano, collo taurino, muscolatura imponente, malamente coperta da un abito nero di taglia super extra large. Si schiarì la voce: “Credo che allo stato la visione più seria sia quella di Jeremy Rifkin, presidente della Foundation on Economic Trends, consulente, come sapete, di molti capi di stato. Tra questi anche Angela Merkel.
Jeremy Rifkin ha sostenuto in una serie di interviste ai principali media internazionali tra i quali La Stampa di Torino che l’Europa e Usa stanno vivendo una crisi strutturale. Bisogna cambiare paradigma di sviluppo, a partire dalle abitudini energetiche. “Non mi sembra un’affermazione di grande originalità. Noi lo stiamo sostenendo da tempo. E anche il nostro Presidente si è fatto paladino della crociata delle fonti di energia rinnovabili”. Joe Linkedin negli anni passati sui campi di football nel ruolo di difensore aveva metabolizzato che prima bisogna indovinare da che parte passerà la punta avversaria, poi bisogna ridurre la distanza correndo e infine placcarlo prima che vada in meta. Quanto all’arcigno Boss che gli stava davanti, si potevano inghiottire anche le sue acide provocazioni che erano temperate dagli assegni che gli dava ogni anno. “Esatto”, ribattè. “Ma Jeremy Rifkin va oltre. Lui sostiene che dobbiamo passare dal modello della Seconda Rivoluzione industriale a quello della Terza, per smettere di vivere consumando le ricchezze del passato e tornare a produrre liberando la nostra creatività. Secondo Rifkin verso la fine degli Anni Settanta si è conclusa la Prima rivoluzione industriale, nel senso che abbiamo smesso di vivere grazie alla ricchezza che producevamo. Siamo entrati nella Seconda Rivoluzione industriale, in cui poco alla volta abbiamo bruciato tutti i nostri risparmi e poi abbiamo cominciato a vivere di debito”. “E anche questa valutazione non ha caratteri di estrema novità... ”, commentò il Boss mentre i suoi cani da guardia annuivano soddisfatti. “Niente di nuovo sotto il sole, è vero. Però può essere utile ogni tanto rimettere insieme le tessere del puzzle per avere una visione d’assieme per tracciare uno scenario futuro”. Re
plicò Joe Linkedin che stava irrigidendosi. “Bene: prosegua”, disse il Boss. “Facciamo un passo indietro. Secondo me è valido lo scenario tracciato da Rinfkin nell’intervista a un quotidiano italiano in cui affermava che durante gli Anni Ottanta si sono create le condizioni per una grande recessione legata all’edilizia: abbiamo costruito troppo, a prezzi non sostenibili. La crisi si è manifestata tra il 1989 e il 1991, con gli alti tassi di disoccupazione che hanno determinato la sconfitta di George Bush padre nelle presidenziali vinte da Bill Clinton. Invece di rimettere in ordine la casa e tornare a un’economia capace di produrre, abbiamo vissuto bruciando i risparmi che avevamo accumulato nei decenni precedenti: basti pensare che nel 1991 il tasso di risparmio delle famiglie americane era al 9%, e nel 2001 era sceso a zero”. Joe Linkedin si fermò un momento per riprendere fiato. Con la scusa di bere un sorso d’acqua mise gli occhi addosso al Boss che ricambiò lo sguardo con un’occhiata gelida. Gli scherani intorno a lui avevano espressioni asettiche, ma certo non mostravano una particolare eccitazione su quanto lui andava recitando. “A quel punto, invece di rimettere la testa a posto, ricominciò Linkedin, abbiamo continuato a consumare, usando stavolta le carte di credito. Abbiamo accumulato enormi debiti personali, e anche questa fonte di benessere illusorio si è esaurita. Allora abbiamo deciso di usare le nostre case come fossero dei bancomat: abbiamo finanziato e rifinanziato dei mutui, per ricevere in cambio soldi da spendere. In questa maniera il nostro debito personale è arrivato alle stelle, senza più vie d’uscita per ridurlo o per trovare altre risorse». “Ma secondo lei e il suo oracolo che cosa hanno fatto e avrebbero dovuto fare i governi?” interruppe il Boss.
“I governi si sono comportati grosso modo nella stessa maniera, puntando decisamente sul debito per finanziare la loro attività. Nel frattempo il costo delle materie prime, a partire dal petrolio, è aumentato in continuazione, per la nostra domanda e per quella sempre crescente dei Paesi emergenti, come la Cina e l’India. Se questo non bastava già a complicare la situazione, abbiamo interpretato la globalizzazione come una nuova opportunità di consumo, invece che di produzione: in sostanza per noi occidentali diventare global ha significato poter comprare beni a basso costo dai Paesi emergenti. Così si è creato un circolo vizioso, che non ci consentirà mai di uscire dalla crisi”. “Visto che lei sposa la tesi di Rifkin in toto quale soluzione bisognava adottare?”. Joe Linkedin continuò: “Ogni volta che c’è una recessione, facciamo sempre la stessa cosa: pompiamo un po’ di soldi sul mercato, e diciamo che vogliamo fare tagli alle spese. Ma la ripresa si alimenta spendendo, i Paesi emergenti ne approfittano aumentando la loro produzione e questo fa salire i costi delle materie prime come il petrolio. Di conseguenza tutti i prezzi aumentano, compresi quelli del cibo, e quindi ci ritroviamo in breve in una nuova situazione insostenibile, tornando a fare affidamento sul debito per soddisfare le nostre esigenze. Così non ne verremo mai fuori, anche se il Congresso tagliasse davvero quattro trilioni di dollari al debito americano”. Il Boss si mostrava annoiato: “Andiamo sul pratico. Quale sarebbe questo paradigma della Terza rivoluzione industriale, consigliato da Rifkin?”. “Primo, interrompere tutti questi comportamenti fallimentari di cui abbiamo parlato. Secondo, sviluppare un nuovo modello economico capace di generare milioni di posti
di lavoro, liberando di nuovo la nostra creatività e capacità produttiva. Il primo passo da compiere è il mutamento delle regole del gioco, liberalizzando l’attività imprenditoriale. Ci stiamo avvicinando al tramonto dell’era del petrolio e il Mediterraneo, tanto per fare un esempio, è l’Arabia Saudita dell’energia verde”, sostiene Jeremy Rifkin, padre della economia a idrogeno, “Sostenibilità, energia auto-prodotta e condivisa secondo il modello della rete di Internet e idrogeno” sono le parole d’ordine di una economia che in futuro ridisegnerà una nuova politica orizzontale e partecipata. Ma quello ancora più importante è cambiare le nostre abitudini energetiche, voltando finalmente le spalle alla dipendenza dal petrolio”. “Energia autoprodotta secondo il modello della rete di Internet. Vuol essere più chiaro?”. “Semplice: dieci anni fa non eravamo quello che siamo adesso. Oggi l’individuo in qualsiasi parte del mondo ha riacquistato una sua indipendenza. Viviamo in società di massa che sono però caratterizzate da miliardi di individui che dialogano tra loro, si scambiano informazioni personali, fanno business, muovono miliardi di dollari speculando. Se ognuno di questi individui avesse oltre che un computer, un laptop, uno smart phone con il quale inserirsi in rete anche la possibilità di autoprodurre energia e coprire le sue necessità quotidiane, il surplus non consumato potrebbe metterlo in rete realizzando oltre tutto un guadagno”. “Ed è proprio quello che stiamo seminando da tempo a cominciare dal nostro Presidente che non so se abbia mai consultato Rifkin. Bene Mr. Linkedin: la ringrazio per il suo tempo. Le faremo sapere a breve quando riterrò utile un altro scambio di idee sugli scenari prossimi venturi”. Il Boss porse la mano all’ex giocatore di football senza alzarsi.180
Appena il colosso ebbe varcata la soglia della Gabbia di Faraday, il Boss si rivolse a uno dei suoi quattro assistenti sibilando minacciosamente: “Più lo vedo e più questo tipo mi sembra un cretino. E pensare che gli diamo un bel pò di soldi... e lei che lo ha caldeggiato per mesi”. L’assistente sbiancò in volto e si strinse nelle spalle dicendo: “Gode di un’alta considerazione tra i capi di governo... ”. “Senza alcuna eccezione sono tutte teste di cazzo. Andiamo avanti. Qual è la situazione personale del Presidente per quanto riguarda la sua vita privata?”. La domanda era rivolta al secondo assistente. “Quanto al pericolo che il presidente USA possa essere coinvolto in uno scandalo sessuale, le opportunità sono diminuite dopo la sparizione delle due escort e dei due giornalisti del Post che avevano scavato per sei mesi. Inoltre, dopo il casino (perdoni il mio francese!) del News of the World di Rupert Murdoch, i tabloid si sono fatti cauti nel trattare storie di grandi politici”. Il Boss annuì suscitando un afflato di caldo affetto da parte del subordinato. “Chi sa dirmi che fine ha fatto quel Michael Bardi?”. Intervenne il terzo assistente dicendo con un sorriso obliquo: “Qualcuno ha cercato di farlo fuori, recentemente. Sembra che si tratti di un super killer arabo messo in pista dai finanziatori della riscossa islamica... ma si è salvato”. Il Boss ascoltò attento senza manifestare alcun sentimento. Poi, concludendo la riunione ordinò: “Bisogna investire in una estesa azione massmediatica per convincere la gente che noi siamo i buoni e loro, petrolieri e
annessi, sono i cattivi. ‘That's the power of the press, baby, the power of the press. And there's nothing you can do about it’, come diceva Humphrey Bogart. Questo è tutto”.

giovedì 2 aprile 2015

Capitolo 27 di "Washington sotto traccia"

Il volo United 803 (Washington-Tokyo) arrivò in anticipo alle 14:09 dopo 13 ore e 34 minuti al Narita Airport. Il viaggiatore uscì dal Terminal 2 e prese il treno veloce Skyliner per Tokyo, trentasei minuti di tragitto pubblicizzati e garantiti sino alla stazione di Nippori sul fiume Arakawa. Poi un taxi per raggiungere il laboratorio sperimentale nel Community centre nel distretto Kyobashi, Nihonbashi & Kudanshita.
Una porta anonima con la scritta Darko. Suonò il campanello e una telecamera mobile iniziò una ricognizione del suo volto. Poi una voce registrata chiese in giapponese e poi in inglese chi fosse. “Ho un appuntamento con Mr. Ishi”, disse il visitatore. “Ascensore, seconda porta a destra”. Questa volta era una voce umana di donna. Nella cabina un solo pulsante. Quando le porte si aprirono il visitatore si trovò in un corridoio bianco sul quale si affacciavano alcune porte e in fondo al quale scorse dietro una vetrata un vasto ambiente, tipo palestra.
Seconda porta a destra. Si introdusse senza bussare. Un piccolo ufficio disadorno, una scrivania e due sedie di fronte. Dietro la scrivania un ometto sui cinquanta e oltre, baffetti alla Clark Gable. “Sono Ishi San. Bene arrivato. Ho ricevuto le sue e-mail. Lei è interessato al nostro drone sferico, vero?”. Il visitatore evitò di stringere la mano a Ishi e annuì. “Bene. Vedo che lei è di poche parole. Perciò per risparmiare il nostro tempo, penso che la cosa migliore sia andare nel laboratorio per una dimostrazione dal vivo”. Si alzò seguito dal visitatore e si avviarono lungo il corridoio verso la porta di fondo, attraversando l’ampia vetrata ed entrando in un salone dove erano sistemate alcune attrezzature elettroniche, schermi e un arredamento minimalista. Sorridendo Ishi San indicò una poltrona di plastica bianca sulla quale sedette il visitatore. “Vede questo contenitore sferico di fiberglass? Ecco: adesso con questo telecomando azionerò l’apertura e il volo del drone”. Premuti alcuni pulsanti la parte superiore del contenitore si separò e il drone si staccò dall’involucro cominciando a volare per la stanza. Una sorta di gabbia sferica nera all’interno della quale era un’elica azionata da un motore elettrico, una telecamera e altri apparati miniaturizzati. “Il settimo dei prototipi costruito dall’inventore del drone sferico, Fumiyuki Sato, aveva molti limiti per sua esplicita dichiarazione. Prima di tutto doveva essere comandato a vista e questo riduceva di molto il suo impiego, nonostante la telecamera incorporata. e anche il comportamento in volo aveva delle bizzarrie”. “Sono passati alcuni anni da quella presentazione”. Disse con il suo fare asciutto il visitatore. “Il settore del drone sferico è stato occupato da diversi elaboratori. Voi che cosa potete dire per quanto riguarda il vostro prodotto?”. “Mentre gli altri hanno fatto di questa invenzione una sorta di giocattolo, molto simile a un modello di aereo o elicottero telecomandato, noi abbiamo perfezionato il progetto in maniera radicale. Il drone adesso è in grado di essere guidato, grazie alla telecamera, in ambienti chiusi distanti dal pilota che osserva su un monitor. Una sorta di aereo drone senza equipaggio, ma dalle dimensioni e caratteristiche completamente diverse. Perchè questa sfera non si disintegra negli urti con pareti o altri ostacoli. Ha una sicurezza di guida eccezionale, garantita da tre giroscopi. Pensi se l’avessimo avuto quando si è verificato il disastro nella centrale nucleare di Fukushima. Avremmo potuto controllare dall’interno il reattore e verificare i danni subiti dallo tzunami. Questo drone sferico può portare anche un mini carico utile... ”. “Ecco: siamo arrivati allo scopo della mia richiesta d’incontro. Avete sviluppato il drone anche come arma?”. “La risposta è affermativa, anche se si tratta di una evoluzione del drone che non possiamo pubblicizzare perchè rischiamo di essere incriminati dal ministero della difesa del nostro paese. Spostiamoci in un altro ambiente”. Ishi San e il visitatore passarono attraverso una porta ad apertura digitale in un grande corridoio di cemento armato della lunghezza di cento metri in fondo al quale erano posti alcuni bersagli e sagome umane. “Metta questa cuffia antirumore e gli occhiali a visiera”, disse Ishi San mentre armeggiava intorno a un altro esemplare di drone sferico che era appoggiato su una base di plastica. L’elica del drone cominciò a girare e il prototipo si alzò cominciando alcune evoluzioni nell’ampio balipedio.
Due piccoli razzi teleguidati si staccarono dell’interno della sfera e andarono a colpire con le loro testate esplosive le sagome umane che erano poste sulla parete di fondo disintegrandole a cinquanta metri di distanza. “Entriamo in questa cabina insonorizzata” disse Ishi San. Nessuna apertura sull’esterno ma solo un monitor posto su un computer. Ishi San accese il monitor, collegato wi-fi con la telecamera del drone. Fece una panoramica per inquadrare i bersagli che nel frattempo erano stati rimpiazzati da un assistente. Motore e il drone si alzò di nuovo questa volta in un volo alla cieca. Ishi San manovrò portandolo a mezza altezza e sparò i razzi che centrarono di nuovo le due sagome umane. “Come vede, disse lo scienziato nipponico non senza una punta di orgoglio, il prodotto che abbiamo realizzato è molto diverso da quello che lei aveva visto sui media tempo fa. Se quello si poteva costruire con un migliaio di dollari questo ovviamente è molto più caro. Ah, dimenticavo: la velocità di traslazione è ora vicina ai 100 chilometri all’ora”.
I due ritornarono nello spoglio ufficio di Ishi San e discussero a lungo sui tempi di consegna di cinque drone ultima generazione completamente armati e con parti di ricambio, presenza di un tecnico per l’apprendimento al volo in qualsiasi parte del mondo, spese a carico del compratore. “A chi devo intestare la fattura e quale tipo di pagamento vuole effettuare?”. “A nessuno, quanto al pagamento: cash anticipato”. Il visitatore aprì la valigetta 24 ore ed estrasse alcuni pacchi di banconote, guardando Ishi San con uno sguardo intenso accentuato dal colore ambrato della sua pelle. “La chiamerò tra dieci giorni per concordare il ritiro del materiale. È inutile che le sottolinei che, se la notizia di questa fornitura dovesse trapelare in qualche modo, le conseguenze per lei saranno molto gravi”.