mercoledì 27 maggio 2015

Capitolo 35 del giallo "W.D.C sotto traccia"

 House of the Temple.JPG

Il taxi si fermò di fronte alla bianca scalinata della House
of Temple. Anche se il vero nome era: "Home of The Supreme
Council, 33°, Ancient & Accepted Scottish Rite of
Freemasonry, Southern Jurisdiction, Washington D.C.

Cardoni, dopo avere pagato la corsa e richiesto una ricevuta,
uscì dalla macchina e cominciò a salire, dando un’occhiata
alle due sfingi poste ai lati della scala.

La House of Temple era uno dei luoghi della Washington
massonica più conosciuti non solo dai Fratelli in visita
da tutto il mondo ma anche dai turisti ‘normali’ attratti per
motivi di studio dalla notorietà della sua grande biblioteca
con decine di migliaia di volumi sull’Istituzione e contro l’Istituzione.

L’ex gran maestro e artefice della creazione del Rock saliva
con una certa fatica, reduce com’era da un infarto che lo aveva
colpito sei mesi prima e dal quale si era ripreso adottando
una ferrea dieta che gli aveva fatto perdere venti chili dell’imponente
corporatura.

Erano le quattro di un pomeriggio autunnale, con un cielo
grigio plumbeo che prometteva pioggia e temporali confermati
dalle accurate previsioni meteo.
L’orario per l’accesso dei turisti in visita alla House of
Temple era da tempo scaduto. Così Cardoni arrivato, soffiando
come un tricheco, alla sommità della lunga scala di
marmo, si trovò di fronte la porta dell’ingresso principale ermeticamente
chiusa e suonò il campanello.

Lunga attesa di qualche minuto e alla fine vide attraverso
le vetrate della porta arrivare un tale di nero vestito.

“Buon pomeriggio, signor Cardoni. Sono il segretario del
Grand Commander che l’attende nel suo studio”.

Il segretario sulla cinquantina introdusse Cardoni nel
grande ingresso contornato da immense colonne. Man mano
che procedevano illustrava all’ospite gli aspetti salienti dell’edificio.
“Il tempio è stato disegnato dall’architetto John Russell
Pope che all’epoca, si parla del 1911, aveva solo 27 anni.
Pope si ispirò al Mausoleo di Alicarnasso, considerato una
delle Sette Meraviglie. Dopo soli quattro anni e cioè il 18
ottobre del 1915 l’edificio veniva inaugurato”.

Cominciarono a salire una scala che si divideva in due
volute arrivando sino al tempio principale nel quale l’illuminazione
prevalente era quella naturale per ricordare che i
massoni, dopo un lungo percorso di autoperfezionamento,
sono alla ricerca della ‘luce’.

Sull’altare centrale erano appoggiati, oltre alla Bibbia,
anche i volumi sacri di altre religioni (ebraica, musulmana,
indu, buddismo, etc.) perché i massoni di tutto il mondo credono
nel Grande Architetto dell’Universo che tutti unifica.
Non è concepibile alcuna azione ‘pastorale’ all’insegna de: “Il
mio dio lava meglio del tuo”. Ed è anche questa la ragione su
cui poggiano le accuse di ‘relativismo’ da parte della gerarchia
cattolica.

Il segretario si soffermò di fronte a una cripta.
“Nel 1944 i resti del generale Albert Pike furono rimossi
dalla tomba nel cimitero di Oak Hill e ne fu autorizzata la
sepoltura in questa cripta. Pensi che Pike aveva dato disposizioni
di essere cremato. Dall’altro lato nel 1952 fu sepolto
il corpo di John Henry Cowles, Grand Commander per 31
anni. Lei sicuramente saprà che Albert Pike è stato colui che
ha rigenerato lo Scottish Rite”.

Il segretario nero vestito si prese qualche minuto nell’illustrare
la figura del Generale, unico confederato di cui si conservava
una statua a Washington DC. Uomo ‘rinascimentale’,
conoscitore di lingue morte (latino, greco, sanscrito),
e inglese, francese e spagnolo, episodi tumultuosi nella sua
vita professionale di avvocato. Prolifico scrittore e oratore,
corporatura massiccia e chioma fluente che si incatenava in
una grande barba, Albert Pike è una delle figure più incisive
della massoneria americana.

Cardoni sapeva tutto, ma per cortesia mostrava molta attenzione
all’esposizione.
Dopo avere viaggiato e vissuto nel Missouri, a New Orleans,
in Arkansas e avere partecipato alla guerra contro i
messicani e a quella civile, Albert Pike si trasferì finalmente
a Washington dove gli fu affidato il Rito Scozzese in qualità
di Gran Commander, carica che tenne per 32 anni sino alla
morte.
Nel 1871 scrisse “Morals and Dogma of the Ancient and
Accepted Scottish Rite of Freemasonry”, un tomo di 860 pagine
che ha suscitato adesioni ma anche frementi proteste da
parte degli ambienti cattolici (che accusavano Pike di satanismo.
Questo il segretario non lo disse, ma venne in mente a
Cardoni).

Erano ormai arrivati alla porta dello studio del Grand
Commander che attendeva seduto dietro la sua ampia scrivania
con al lato il Gran Maestro della Gran Loggia di Washington DC.
Rapida stretta di mano, ma il volto del Grand Commander
era visibilmente scuro e altrettanto accigliato era il Gran
Maestro di Washington DC.

“Signor Cardoni la stiamo ricevendo solo a seguito delle
molte insistenze da parte dei suoi uffici. Abbiamo annullato
tutte le richieste di incontro, salvo la sua perché viene dall’Italia.
Lei sa bene che siamo ancora sotto shock per la tragedia
che si è consumata un mese fa nello Scottish Rite Center,
dove il nostro carissimo Fratello Andrew è stato ucciso in
maniera barbara e senza alcuna giustificazione plausibile. Le
indagini sono ancora in corso, ma al momento le autorità
investigative brancolano nel buio. Ci hanno comunque imposto
di aumentare le misure di sicurezza”. E indicò all’ospite
una poltrona.

Cardoni, tentò di sorridere, ma l’atmosfera era tesa e non
certo cordiale.
“Mi rendo conto”, disse, “È stata una notizia che ha sconvolto
i Fratelli di tutto il mondo massonico”.

Il Grand Commander non era in vena di salamelecchi e
puntando un dito verso Cardoni, in maniera poco educata,
gli disse:
“A proposito: abbiamo assunto molte informazioni sul
suo conto presso i fratelli italiani. Ci è stato confermato che
lei non fa più parte di alcuna Obbedienza massonica. Allora
vorrei essere molto chiaro: noi la stiamo ricevendo in qualità
di studioso di materie esoteriche. Questo incontro viene registrato
da quella telecamera”.

Cardoni era abituato da una vita a tirare di fioretto con
avversari e concorrenti. Ma questa volta si trattava di evitare i
fendenti con la spada che il suo interlocutore aveva iniziato a
dargli sin dall’inizio del loro burrascoso incontro.

Gli venne in mente una metafora che gli era stata raccontata
da un monaco scintoista maestro di arti marziali. “Judo”
significa la ‘via facile’. Non opporre resistenza a violenza ma
piegarsi come fa il salice piangente sotto il peso della neve,
scaricarla e riassumere la posizione originaria. I rami rigidi
degli altri alberi si spezzavano, invece.

“Gentile Grand Commander, lei ha perfettamente ragione.
Non ho più alcun riferimento con le Obbedienze massoniche
italiane. Ma, come le è ben noto, una volta massone lo
sei per tutta la vita. Una sorta di sigillo sacerdotale anche se
noi insistiamo nel dire che l’Istituzione non è una religione
ma una forma di vita. Ho chiesto questo incontro perché ci
tenevo a confrontare con voi alcuni aspetti della vita del generale
Albert Pike che potrebbero essere di estrema attualità
oggi”.

Il capo del Rito Scozzese e il Gran Maestro di Washington
si sentivano presi in contropiede da quell’italiano, così viscido
e ossequioso. Si scambiarono un’occhiata interrogativa.

“Che cosa intende dire?” chiese il Grand Commander sospettoso.

“Adesso farò loro sapere le motivazioni che sono alla base
della mia richiesta di incontro. Quanto alla figura del sottoscritto
desidero ricordare a Lor Signori che ho costituito da
tempo un club chiamato ‘Rock’ la cui importanza sono sicuro
che vi sarà manifesta. Si tratta di un’organizzazione che
annovera tra i propri membri i massimi rappresentanti della
professioni, della politica, delle arti, dell’economia e della finanza.
Pertanto, considerato con molta attenzione l’esplicito
inizio da parte vostra di questo incontro, a mia volta voglio
sottolineare che questo studioso di scienze esoteriche, secondo
la vostra definizione, non è qui a titolo personale, ma rappresenta
una platea di tutto rispetto a livello mondiale”.

Il Grand Commander prese da un cassetto della scrivania
una pallina piena di silicone, di quelle che servono per scacciare
lo stress e cominciò a strizzarla passandola da una mano
all’altra.
Il Gran Maestro aveva invece abbassato lo sguardo e controllava
la lucentezza delle sue scarpe Church.

“Posso continuare?” chiese con voce sommessa Cardoni.

Con la mano il capo del Rito Scozzese fece un gesto eloquente.

“Entrando nel vivo della richiesta di un incontro con voi,
desidero richiamare la vostra attenzione sulla corrispondenza
epistolare che Albert Pike ha avuto con il nostro Giuseppe
Mazzini… ”.

“Lei si sta riferendo a una storia la cui falsità è stata dimostrata
centinaia di volte e che continua a essere ripresa dai siti
antimassonici che vomitano accuse contro la nostra Istituzione
campate in aria e senza alcun fondamento di veridicità”.

La risposta del Grand Commander fu pronta come se il
copione fosse stato studiato in precedenza conoscendo in
anticipo quale sarebbe stata la materia dell’interesse dell’ex
massone venuto da Roma.

“In tutta sincerità mi attendevo questa sua reazione. È
vero che non esistono prove dell’esistenza di questo carteggio
tra Pike e Mazzini che sembra essere sparito in Inghilterra.
Tuttavia le migliaia di citazioni che vengono fatte su libri
e blog in tutto il mondo sembrano essere la conferma che
qualcosa di vero dovrà pur esserci stata in questa storia… ”.

“Sono sbalordito dalla leggerezza con la quale un massone
come lei che ha ricoperto incarichi di grande prestigio,
prende come buona una sequela di fandonie che mirano solo
a screditare Albert Pike, Giuseppe Mazzini e tutta l’Istituzione”.

La pallina riempita di silicone rischiava di sbriciolarsi sotto
le dita del Grand Commander che aggiunse: “Sono sicuro
che adesso lei ci parlerà degli Illuminati e della loro influenza.
Si tratta di una sceneggiatura che abbiamo letto tante volte.
Le vorrei ricordare che, mentre in Italia la massoneria è sempre
stata osteggiata dal Vaticano che non ha mai digerito che
i massoni padri del Risorgimento avessero potuto annientare
il potere temporale dello stato papale, noi, qui in America
abbiamo vissuto tra il 1828 e il 1838 la nascita del Partito
Antimassonico che ha trovato una grande risposta in un certo
tipo di opinione pubblica influenzata da movimenti religiosi.
Molti fratelli ne hanno fatto le spese e hanno dovuto
vivere sotto traccia… ”.

Cardoni sentiva ora che i due di fronte a lui si erano rifugiati
in difesa e riprese a parlare:

“Ricordo bene… La sparizione di William Morgan, il
massone di Batavia, New York è stata la scintilla che ha fatto
scattare il movimento antimassonico. I fratelli vennero accusati
di averlo eliminato perché aveva intenzione di pubblicare
i segreti dei rituali”.

“Oggi quei segreti sono talmente segreti che lei li trova
descritti in ogni dettaglio in un’infinità di volumi venduti
nelle librerie”, intervenne il Gran Maestro stanco di guardarsi
le scarpe.

Cardoni dedicò un sorriso di compatimento all’osservazione
del capo dei massoni di Washington e proseguì:

“Rimaniamo al carteggio tra Giuseppe Mazzini e Albert
Pike. Sparito, distrutto da chi aveva interesse a che non fosse
ulteriormente divulgato. Ma come è successo per i Vangeli
apocrifi, vi sono molte versioni di quel carteggio e tutte
coincidono con la previsione fatta con precisione dal generale
Albert Pike sullo scoppio delle tre Guerre Mondiali. Vorrei
limitarmi a quella che descrive la prossima Terza Guerra
Mondiale… ”.

Il fondatore del Rock aprì la borsa diplomatica che si era
portata dietro e ne trasse alcuni fogli con riproduzione in
PDF di alcune pagine scritte con calligrafia ornata e precisa.
Li passò ai suoi ospiti perché osservassero, aggiungendo: “Siete
profondi conoscitori della produzione letteraria di Albert
Pike per non riconoscere che si tratta della sua calligrafia… ”.

Il Grand Commander restituì i fogli dicendo: “Esistono
decine di contraffazioni degli scritti del generale… ”.

“Va bene” sospirò Cardoni, “Ammettiamo per un momento
che si tratti invece di uno scritto autentico. Mi limito solo
a leggere quanto il generale scrisse sulla Terza Guerra Mondiale
dopo avere previsto le prime due che si sono avverate
secondo le sue precise indicazioni”. E cominciò a leggere.

“La Terza Guerra Mondiale sarà fomentata approfittando
delle differenze causate dagli agenti degli Illuminati tra
i politici Sionisti e i leaders del Mondo Islamico. La Guerra
sarà condotta in maniera tale che l’Islam e lo Stato di Israele
si distruggeranno a vicenda. Nel frattempo le altre nazioni,
una volta di più divise su questo problema, saranno costrette
a combattere sino al punto di di un completo esaurimento
fisico, morale, spirituale ed economico. Noi daremo spazio ai
nichilisti e agli ateisti e provocheremo un formidabile cataclisma
sociale che, in tutto il suo orrore, mostrerà chiaramente
alle nazioni gli effetti dell’ateismo assoluto, le origini di un
regresso all’inciviltà e ai bagni di sangue. Allora, ovunque,
i cittadini costretti a difendere se stessi contro le minoranze
rivoluzionarie stermineranno i distruttori della civiltà e
le moltitudini disilluse dalla Cristianità, i cui spiriti deistici
saranno senza una bussola né una direzione, ansiose di trovare
un ideale ma senza conoscere a chi indirizzare la loro
adorazione, riceveranno la vera luce della universale e pura
manifestazione di Lucifero, portata finalmente alla visione di
tutti. Questa manifestazione porterà a una generale reazione
che seguirà la distruzione sia della Cristianità che dell’ateismo.
Ambedue conquistati e sterminati nello stesso tempo”.

Cardoni dopo avere terminato la lettura fece una pausa
mentre i due massoni lo guardavano con volto impassibile e
concluse:

“Tutto si può dire sulla autenticità o meno di questo scritto.
Ma gli avvenimenti che caratterizzano la scena mondiale
corrispondono a quanto immaginato da Albert Pike, a cominciare
dal minacciato conflitto tra arabi e Israele”.

“Le confermo, disse in maniera ultimativa il Grand Commander,
che si tratta di una bufala che abbiamo già esaminato
a fondo. Del resto non possiamo perdere il nostro tempo
inseguendo i mitomani che affollano con i loro scritti le librerie
e Internet. Nella sua esposizione lei ha dimenticato di fare
riferimento a qualcuna delle 6338 profezie di Nostradamus
che forse potrebbero essere ancora più attinenti”.

Un sorriso di scherno illuminò il volto del Gran Maestro
di Washington D.C. che approvò con un cenno del capo.

“Va bene”, aggiunse Cardoni, “rispetto e comprendo il
vostro punto di vista. Ma scendiamo sul pratico: la Terza
Guerra Mondiale si scatenerà nello scontro tra la civiltà del
petrolio e quella delle energie alternative. ‘Rock’ è dalla parte
dei produttori e raffinatori di petrolio perché siamo coscienti
che l’insistenza ad esempio della Casa Bianca sulla riduzione
delle importazioni di greggio e l’investimento di ingenti
risorse in fonti energetiche non inquinanti determinerà un
quadro di estrema conflittualità. Questa la nostra proposta:
siamo disponibili a versare al Rito tre milioni di dollari per
le vostre attività caritatevoli se vorrete prendere posizione a
favore della nostra tesi”.

Il Grand Commander si alzò e appoggiando le mani sullo
scrittoio della sua scrivania disse: “Capisco bene perché lei
non faccia più parte di alcuna Obbedienza massonica. Lei
non è un Fratello ma, con tutto il dovuto rispetto, un faccendiere
internazionale. Noi massoni non trattiamo argomenti
religiosi o politici. Pertanto la sua proposta non la riceviamo
e la consideriamo mai formulata in questo ufficio. Buona
sera”.

Cardoni provò ad allungare la mano per la stretta di commiato,
ma il gesto venne ignorato. Il segretario, che aveva
assistito all’incontro seduto in disparte, accompagnò l’ospite
straniero all’uscita.

Cardoni scese la lunga scalinata tra le due sfingi e arrivato
sulla Sedicesima Street provò a fermare un taxi senza successo.
A Washington, quando piove nessuno ti fila. A cominciare
dai tassisti.

Coprendosi il capo con la borsa di pelle si avviò sconsolato
verso il suo hotel, il Jefferson, che stava sulla stessa strada ma
ad almeno venti minuti di distanza a piedi.

venerdì 22 maggio 2015

Capitolo 34 del giallo "W.D.C sotto traccia".

A jungle area in Timbiqui, in south-western Colombia.
“Ecco, Onorevole: quello che vede è l’ultimo modello di
sottomarino appena mimetizzato con i colori verde e celeste”.
Mauricio Herrera era impegnato a illustrare a Edmundo
Gutierrez le caratteristiche tecniche e operative dell’ultimo
nato del piccolo cantiere nella giungla. I due erano circondati
da un manipolo di guardie schierate, armate di fucili
mitragliatori.

“Interessante” sottolineò Gutierrez, “Mi racconti come è
nato il progetto e come si è evoluto nel tempo... ”.

“I primi modelli sono stati messi in acqua nel 2000. Erano
semisommergibili, navigavano sotto il pelo dell’acqua e venivano
facilmente identificati perché avevano una torretta che
sporgeva e lo scarico del motore elettro-diesel. Questo invece
è un vero sottomarino. Vede: è costruito in fibra di vetro e
legno per non essere identificato dal radar o dal sonar. Ha
due motori con un serbatoio di nafta di 5700 litri e una autonomia
di 3200 chilometri. Viaggia a undici chilometri all’ora
ovvero 5.9 nodi. Ha un equipaggio di tre persone e può portare
dieci tonnellate di cocaina dalla Colombia al Messico”.

“Quanti ne lanciate adesso?”.

Mauricio Herrera si strinse nelle spalle. “Non ho dati aggiornati
globali. Ma per quanto riguarda la nostra ‘azienda’
organizziamo circa quattro spedizioni al mese”.

Edmundo Gutierrez si mise a sedere su una delle sedie pieghevoli
e prese da un tavolino da campeggio un bicchiere di
limonata potenziata con vodka gelata. L’aria in quello spiazzo
in mezzo alla giungla era molto pesante con un’umidità che
sicuramente era intorno al cento per cento. Tutti sudavano
copiosamente.

“Ma se la guardia costiera colombiana o quella messicana
intercettano un sottomarino... ?” chiese l’onorevole.

Mauricio Herrera sorrise: “Quando vengono scoperti l’equipaggio
in un minuto affonda il sottomarino e aspetta in
acqua che la polizia li tiri a bordo. Le normative attuali impediscono
di metterli in galera se non ci sono prove schiaccianti.
È anche vero che gli americani stanno spingendo per una
modifica della legge che consenta di imprigionare anche sulla
base di un reale sospetto. Che ci fanno tre o quattro persone
a bagno in mezzo all’oceano?”.

Gutierrez si asciugò il sudore dalla fronte e dal collo con
una salvietta di carta e affrontò il secondo bicchiere questa
volta di ottima Tequila, non senza avere prima leccato il sale
che aveva messo sul dorso della mano sinistra...

“Quanto li pagate?”, chiese.

“Circa tremila dollari a testa. Che sono niente per noi,
ma per loro rappresentano una fortuna e un grosso aiuto alla
famiglia”.

“Quanti cantieri avete?”.

“Abbastanza”, rispose Mauricio Herrera senza scendere nei
particolari. Era un po’ nervoso. Quell’onorevole Gutierrez
che era stato raccomandato dalla centrale narco, doveva essere
un uomo di rispetto. Lo si vedeva e capiva subito. Ma lui
non era tenuto a scendere nei dettagli ma solo a dare informazioni
di carattere generale.

“I cantieri sono situati nei vari fiumi fangosi della costa colombiana
che si gettano nel Pacifico. Come vede, onorevole,
il fiume ogni tanto si allarga in qualche insenatura dove costruiamo
il bacino e iniziamo la costruzione che ormai viene
fatta in gran parte con prefabbricati che arrivano da diverse
parti del paese. Un luogo come questo è protetto dalle mangrovie
e dalla vegetazione tropicale”.

“Quanto costa un sottomarino?”, chiese ancora Gutierrez
che aveva fatto segno a una delle guardie di riempirgli di
nuovo il bicchiere di Tequila. “Ottima!” disse.

“La distilliamo noi, Onorevole. Quanto al sottomarino
dipende dalla lunghezza e dalla capacità di carico. Uno come
questo va sui due milioni di dollari e ci vuole circa un anno
per costruirlo. La maggior parte di questi natanti è destinata
a un solo viaggio che se va a destinazione rende un bel po’ di
guadagno... ”.

“Non meno di quattrocento cinquanta milioni di dollari”,
commentò Gutierrez accendendosi un sigaro.
Il sole stava calando e l’aria si era leggermente rinfrescata.
Gli operai che lavoravano al sottomarino si erano allontanati
diretti alle tende nelle quali dormivano, qualcuno insieme
alla propria donna.

“Ma come fanno a navigare e a orientarsi per centinaia di
miglia in uno spazio così ristretto” chiese ancora Edmundo
Gutierrez, anche se l’interrogatorio cominciava a mettere sul
chi vive Mauricio Herrera che aveva imparato sino da bambino
a non fidarsi di nessuno. Meno che mai dei cosiddetti
amici.

“Hanno il GPS che viene alimentato dalle batterie dei due
motori che hanno, come in questo modello, una potenza di
400 cavalli. E poi c’è la rete... ”.

“Che sarebbe?”.

“I cartelli più importanti hanno deciso di creare una rete
di pescherecci d’alto mare, ognuno dislocato in un settore
preciso. Questi grossi pescherecci sono un punto di riferimento
stabile per gli equipaggi che possono rifornirsi di viveri
e carburante, quando emergono”. Si trattava di informazioni
super vecchie che erano state pubblicate anche dai
media. Quindi non compromettenti.

“Mauricio: lei poco fa ha detto che il radar e il sonar non
riescono a identificare questi nuovi sottomarini che sono
costruiti in fiberglass. E allora come vengono identificati?”,
chiese pensieroso Gutierrez morsicando il sigaro.

“A vista, dall’aria, Onorevole. Anche se come vede cerchiamo
di mimetizzarli. E poi lo scarico dei motori avviene attraverso
un lungo tubo che esce dalla poppa del sottomarino
per ridurre la possibilità di essere intercettato agli infrarossi.
Purtroppo per noi i voli della guardia costiera e della polizia
si sono intensificati e anche il numero di sottomarini scoperti
in navigazione sta aumentando. Per cui abbiamo deciso di
modificare la tecnologia delle nostre spedizioni”.

“Non capisco. Si spieghi meglio”. Disse Edmumdo Gutierrez
che non amava gli indovinelli e voleva da collaboratori
e subordinati risposte precise, sintetiche e convincenti.
Mauricio Herrera era un subordinato anche se era il direttore
del cantiere. Almeno così si era presentato. Ma Gutierrez
era sicuro che uno come Herrera, che si esprimeva con tanta
proprietà di linguaggio, dovesse essere in realtà una sorta di
esperto delle pubbliche relazioni del cartello con il quale, da
tempo Gutierrez faceva affari in Messico.

“Quello che lei vede è l’ultimo modello di sottomarino
che stiamo finendo in questo cantiere. Inizieremo anche
qui, come in altri cantieri, la costruzione dei torpedo. Sono
sommergibili come questo, ma senza motore e trainati a una
profondità di 30 metri da un peschereccio come se fossero
un’ampia rete. In una situazione di pericolo il torpedo viene
mollato e affonda, rilasciando una boa, identica a quella della
pesca ai tonni, con un trasmettitore crittato che consente di
recuperare il natante e il carico. Ormai il novanta per cento
delle consegne va a buon fine grazie all’impiego dei torpedos”.

Gutierrez a questo punto obiettò: “Molte consegne vengono
fatte usando ultraleggeri che riescono a sfuggire ai radar…”.

“Piccole quantità non superiori al quintale e mezzo. Quello
che conta sono i grandi quantitativi. I sottomarini sino a
ora hanno garantito le consegne di tonnellate di cocaina. Ma
stiamo andando avanti... ”.

“E cioè?”.

“Il futuro sarà dei sottomarini senza equipaggio e manovrati
da terra come se fossero degli aerei drone. La tecnologia
perfezionata sugli aerei senza pilota ci consente ormai di
progettare dei drone sottomarini. E stiamo passando dalla
fase di progettazione a quella di costruzione... del resto tutto
è giustificato dalla domanda crescente di droga del mercato
americano, come lei sa meglio di me”.

Il rumore di un elicottero in avvicinamento interruppe il
dialogo tra Mauricio Herrera e l’Onorevole Gutierrez.
Guidato da una radio mobile del cantiere il velivolo atterrò
su una spianata poco distante dal bacino del sottomarino.
Herrera accompagnò l’Onorevole Gutierrez e lo aiutò a
issarsi a bordo salutandolo con la mano mentre il pilota dava
gas ai rotori e riprendeva quota.

L’onorevole Gutierrez si mise la cuffia e chiese al pilota via
microfono quale fosse il programma.
“Voleremo per circa trenta minuti e atterreremo su un aeroporto
privato dove un Falcon la sta attendendo per ricondurla
a Acapulco”.

La giungla equatoriale si snodava sotto l’elicottero che
procedeva sfiorando gli alberi per sicurezza. Tante le volte ci
fosse stato qualche malintenzionato con un lancia razzi.

sabato 16 maggio 2015

Capitolo 33 del giallo "W.D.C sotto traccia"

Dopo quattro ore e quarantacinque minuti di guida, superando
di gran lunga il limite di settantacinque miglia orarie
della I-10 E e della CA-62 E arrivarono a Lake Havasu City.
Kevin aveva dimostrato di essere un gran guidatore, uno
che spesso preferiva accollarsi centinaia di miglia piuttosto
che prendere un aereo, mezzo di trasporto verso il quale nutriva
il massimo del terrore. Proprio lui che di aerei se ne
intendeva perché aveva fatto tre missioni in Irak e in Afghanistan
come capitano della Guardia Nazionale.
E del resto guidando la sua potente Mercedes CL63 AMG,
biturbo, non è che rimanesse isolato dalla sua attività e dal
business. Kevin riceveva in continuazione telefonate, dettava
messaggi al computer di bordo o inviava testi a viva voce.
La sua segreteria lo teneva aggiornato nei minimi dettagli.
Di questo si rendeva conto Habib Fareh che faceva finta di
pisolare.

Arrivarono al Ponte di Londra, acquistato e ricostruito
pietra su pietra a Lake Havasu City, città che aveva visto arrivare
sul lago omonimo il sindaco della capitale inglese per
presenziare all’inaugurazione sia del ponte che del Villaggio
Inglese. Era il 1971.
Si diressero verso il London Bridge Resort, un’imponente
costruzione con piscine, scivoli d’acqua, scalo barche sul
lago. Appena usciti dalla vettura furono assaliti da un’ondata
di caldo. La temperatura era al di sopra dei cinquanta gradi
anche se il tasso di umidità era molto basso dato che il
deserto del Mohave riusciva a non farsi sconfiggere dal lago
artificiale e dettava le sue regole. Sembrava di respirare l’aria
di fronte a un forno di fusione di un laminatoio.
Al ricevimento una giovane sorridente che rispondeva al
nome di ‘Sunny’ assegnò loro le camere.
Erano quasi le sette di sera.
“Ci vediamo al Martini Restaurant, qui sotto, dopo una
doccia... Ti va bene? Diciamo alle otto?” disse Kevin.
“Perfetto”. Assentì l’arabo.

L’ambiente del ristorante era in penombra, rischiarata dalle
candele sui tavoli. Di lato il bancone del bar.
Kevin, per fare onore al nome del ristorante, era già arrivato
al terzo cocktail Martini. E continuò con impegno ordinando
una bottiglia di pregiato vino italiano.
Habib Fareh rifiutò le insistenti pressioni di Kevin che voleva
assaggiasse quel nettare venuto dalla lontana Italia.
“Sono un credente praticante” disse Habib e quando si
trattò di ordinare scelse nel menu un’insalata ‘Caprese’ di
mozzarella e pomodoro. La mozzarella non era certo di bufala,
animale che dopo lo sterminio fatto un paio di secoli
prima era apprezzato ancora per la sua carne, magari venduta
in strisce essiccate ma non certo per il latte. Quanto ai
pomodori venivano dal Messico sperando che non fossero
inquinati da salmonella.

L’arabo non aveva voglia di tenere viva la conversazione e,
nonostante gli sforzi di Kevin dopo la pseudo insalata caprese,
chiese scusa, ma dichiarandosi molto stanco per il viaggio
decise di andare a dormire. Si sarebbero rivisti alle otto il
giorno dopo per la colazione e per la visita del loft e le pratiche
successive.
Kevin vuotò la bottiglia di Primitivo che assaporava come
un nettare paradisiaco. Si sentiva in pace con se stesso e con
il mondo. Dopo i tanti morti visti sui teatri di guerra e che
gli ritornavano davanti quando qualche incubo metteva a
repentaglio il sonno, tornato in patria sano nel corpo a differenza
delle decine di migliaia di altri soldati che avevano
subito ingiurie fisiche e psichiche, adesso sentiva il bisogno -
dovere di rendersi utile al suo prossimo che in quel momento
era rappresentato da quel fratello arabo. Un tipo certo non
molto espansivo e piuttosto eccentrico. Ma si trattava di un
massone come lui che bisognava aiutare al meglio. E poi che
vai a spezzare il capello? Domani lo attendeva un’altra giornata
di impegno e ore di viaggio per tornare a casa.
Kevin dopo un paio di bicchierini di grappa (era un fanatico
dell’Italia anche se non vi si era mai recato) decise di
avviarsi barcollando verso la propria camera. Che in realtà era
una suite di due vani con angolo cucina, ampia vasca Jacuzzi.

“Dormito bene?” chiese Kevin mentre si accingeva ad affrontare
un piatto di uova con regolamentare pancetta e patate
fritte.
“Come un neonato”. Sorrise l’arabo il cui colorito tendeva
sempre di più a stingere sul verdognolo.
Finita la colazione (l’arabo si era limitato a un po’ di frutta
e yogurt) uscirono dall’hotel e a piedi, percorrendo un camminamento
tra aiuole e finte cascatelle d’acqua riciclata entrarono
nel Villaggio Inglese, imitazione alla lontana di un
ambiente stradale di Londra.
“Ecco”, disse Kevin fermandosi davanti a una porta di uno
stabile in stile Tudor. “Siamo arrivati”. Digitò un codice in
un box che era appeso alla maniglia di ingresso. Dalla scatola
trasse la chiave dell’appartamento.
Il loft era molto vasto e in buone condizioni. Chiaramente
i proprietari avevano ristrutturato l’ambiente prima di metterlo
sul mercato.
“Che te ne pare”, chiese Kevin.
“Mi sembra un’ottima soluzione. Quanto chiedono?”.
“Chiedono trecento sessantamila dollari, ma non sono
trattabili”.
“Preferisco fare una prova se sono disponibili per un affitto”.
“Ho carta bianca dalla proprietà che chiede cinque mila
dollari al mese. Ma il contratto deve essere per un anno”.
“Non ci sono problemi. Pago in contanti per un anno.
Però il contratto di leasing lo devi fare intestandolo alla mia
società”.

Kevin si attaccò al cellulare. Aprì il laptop che appoggiò sul
countertop della cucina. Tirò fuori dalla ventiquattro ore una
piccola stampante wi-fi e si mise a lavorare.
Nel frattempo Habib Fareh andava in giro osservando
l’appartamento.
Dopo una mezz’ora Kevin si rivolse all’arabo:
“Allora è tutto pronto, se vuoi firmare queste carte. Personalmente
provvederò a trasferire alla proprietà il contante
che mi hai detto di essere in grado di darmi per il quale farò
un versamento sul mio conto e successivo trasferimento bancario
ai destinatari che non sono americani”.
Habib Fareh firmò le carte come amministratore della società
libanese e consegnò a Kevin la somma richiesta in biglietti
da 100 dollari che erano contenuti in un’ampia valigia.
Kevin aveva da tempo capito che quel pagare in contanti
doveva mascherare qualcosa di poco limpido. Ma come dicono
i latini “pecunia non olet”. Così gli avevano insegnato
nel corso di letteratura al college. E poi su quella somma anticipata
avrebbe potuto ritagliarsi una cospicua provvigione a
copertura delle spese. Ma come faceva quel libanese a disporre
di tanto cash? Meglio verificare se quei biglietti da cento
erano buoni.
“Mi devo assentare per un po’ perchè ho qualche difficoltà
di collegamento con Internet. Torno tra una ventina di minuti”.

Kevin appena uscito attraversò il London Bridge si diresse
alla filiale della Bank of America all’interno del piccolo centro
commerciale.
Arrivato allo sportello chiese alla cassiera, chiaramente una
discendente dei Navajos, se poteva cambiare due biglietti da
cento dollari.
La ragazza era un po’ perplessa. Kevin le disse di avere
tre conti correnti presso la filiale di Santa Monica della stessa
banca. La ragazza digitò nel suo sistema e verificato che
l’informazione era corretta chiese a Kevin come voleva che
fossero cambiate le due banconote. In biglietti da venti. Ma
prima di consegnare il denaro inserì le due banconote in una
macchina che ne valutò la filigrana e la perfetta validità. 
Ritornato sui suoi passi e attraversato di nuovo il ponte si
imbatté vicino al loft nell’arabo che gli chiese: “Tutto OK?”.
“Sì, ho avuto qualche piccola difficoltà. Ma tutto è risolto.
Queste sono le chiavi dell’appartamento. Tu che fai? Ritorni
con me a Los Angeles?”.
“No, guarda. Mentre eri assente ho fatto anch’io qualche
telefonata. Domani arriva il camion da San Diego con le mie
attrezzature. E quindi mi devo trattenere. Ti sono molto grato
per l’aiuto che mi hai dato. Nelle prossime ore restiamo in
contatto”.
E dette a Kevin il triplice fraterno abbraccio.
Dopo avere pagato il conto della sua camera e della cena,
Kevin si diresse verso il parcheggio. Aprì il portabagagli dove
mise la valigia gonfia di biglietti da cento dollari e prese
di nuovo la via di casa, questa volta senza spingere troppo
sull’acceleratore.

Mentre guidava si chiedeva chi diavolo fosse quel libanese.
“È un fratello ed è stato introdotto dal mio Maestro Venerabile”,
pensava mentre ascoltava sulla radio satellitare Sirio-
Xm un preludio di Chopin.
“Certo che questo fatto di pagare in contanti qualche dubbio
me lo lascia. Per fortuna ho verificato che le banconote
sono buone. Ma nel mio mestiere se ne incontrano di persone
strane”.
Ormai era arrivato all’altezza del passo di San Bernardino
e il traffico si era fatto più intenso.
Kevin, nonostante la stanchezza, accentuò la concentrazione,
perché quando viaggi a ottanta miglia su un’autostrada
a sei corsie non sai mai cosa ti può succedere. C’è sempre il
drogato o l’ubriaco o quello che gli prende un coccolone che
sbanda esce dalla sua ‘lane’ e ti investe.

La fiammata partì da sotto il cofano prima dell’esplosione.
La Mercedes CL63 AMG saltò in aria, investendo un paio di
vetture che procedevano nelle corsie vicine.
Si ribaltò più volte, mentre le altre macchine cercavano
in qualche modo di evitarla e alcune si tamponavano violentemente.
Finì nell’ampio spazio avallato che divideva i due
sensi di marcia dell’autostrada.
Il rogo la distrusse quasi completamente. L’incidente causo`
la chiusura dell’autostrada con decine di miglia di auto
incolonnate. Molti i feriti, alcuni gravi, dei tamponamenti.
Dopo una decina di minuti due elicotteri della polizia già
giravano sul luogo del maxincidente, mentre da diverse località
dell’area molto urbanizzata arrivavano autoambulanze e
elio ambulanze dirette poi ai più vicini nosocomi.

L’analitico rapporto della polizia stabili che l’esplosione era
stata determinata da un ritorno di fiamma dovuto al difettoso
funzionamento di uno dei due turbocompressori. Caso
raro per un brand come la Mercedes che immediatamente
avviò una richiesta per essere autorizzata a verificare il relitto
della macchina.
Dell’esplosivo al plastico e del minitimer magnetico che
l’arabo aveva introdotto sotto il parafango anteriore sinistro
nessuna traccia. Ovvio, trattandosi di un prodotto nuovo,
appena sperimentato con successo in altri attentati.
Un agente trovò tra i resti carbonizzati della potente vettura
alcuni biglietti di banca da cento dollari semibruciati.
Le banconote esaminate presso il Bureau of Engraving and
Printing, la Zecca di Washington, risultarono essere perfettamente
contraffatte.

sabato 9 maggio 2015

Capitolo 32 del giallo "WDC sotto traccia"

 masonic-lodge-2.jpg
“Welcome to Santa Monica-Palisades Lodge #307” diceva
la targa situata al 926 del Santa Monica Boulevard, una moderna
costruzione che conteneva anche alcune camere con
bagno per 'fratelli' in visita da altri stati della Federazione o
dall’estero.
L’ospite si presentò al primo piano dove già alcuni fratelli
sedevano sulle poltrone dell’ingresso in attesa dell’apertura
della stated communication della Loggia.
Sguardi distratti da parte dei più anziani. Un giovane
gli venne incontro sorridendo e gli chiese in cosa poteva
essergli utile.
A sua volta l’ospite sorrise e disse: “Sono un fratello libanese.
Ho qui con me le lettere della mia Grand Lodge che
attestano il mio ‘good standing massonico”. Con chi devo
parlare? Chi è il vostro segretario?”.
Il giovane fratello gli disse di attendere e gli indicò una
poltrona prima di entrare all’interno del tempio. Dopo qualche
minuto uscì insieme a un altro massone di mezza età.
“Sono il segretario della Loggia. Bene arrivato. Posso vedere
i tuoi documenti, please?”.
L’ospite tirò fuori dalla sua borsa alcuni fogli che il segretario
esaminò.
“Bene arrivato tra noi, fratello Habib Fareh. Il nostro meeting
inizierà tra poco. Puoi prendere un apron, un grembiule
di cortesia, da quella scatola messa accanto al libro delle presenze
dove puoi registrare il tuo nome e quello della loggia di
appartenenza all’obbedienza della Gran Loggia del Libano”.
“Grazie”, rispose l’arabo, “Ma preferisco indossare il mio
apron che ho qui nella mia valigetta”. Varcata la soglia del
tempio prese posto al ‘sud’, nella fila di poltrone vicine al
Junior Warden.
Prima di dare inizio al rituale di apertura il Maestro Venerabile
della Loggia si avvicinò a Habib Fareh salutandolo
con simpatia. Poi salì i tre gradini dell’Oriente e messo sul
capo il cilindro batté un colpo di maglietto e iniziò il dialogo
secondo il rito York con il primo e il secondo ‘Sorvegliante’.

“Caro Fratello, rimani con noi per il nostro buffet. Una
cosa modesta, ma è un modo per stare ancora insieme”, disse
il Maestro Venerabile della Loggia.
Nella sala era stata allestita, come di consueto al termine
dei lavori dell’officina, una sfilata di panini, patatine, insalata,
gelato, maionese che i fratelli mettevano tutti insieme,
dolce e salato, in un solo piatto.
Habib Fareh prese un disgustoso panino al prosciutto, una
busta di patatine, un bicchiere di Pepsi e si mise a sedere
al tavolo del Maestro Venerabile, dove altri sei già avevano
preso posto.
“Sei qui per lavoro o per turismo?” chiese il capo della
loggia.
“Per lavoro. Sto cercando un appartamento da comprare
in Arizona, a Lake Havasu, dove voglio aprire uno studio
fotografico. Ho una grossa esperienza in questo settore”.
Il Maestro Venerabile sorrise. “Ho la persona che fa per te,
se non hai trovato già qualche agente immobiliare”. E rivolto
al tavolo accanto disse a uno dei commensali: “Kevin, forse
puoi essere di qualche aiuto al nostro fratello libanese”.
Un pò sorpreso Kevin, uno dei più noti agenti immobiliari
di Santa Monica, si avvicinò al tavolo del Maestro Venerabile
e scambiò una stretta di mano con l’arabo.
“Hi, Fratello in cosa posso esserti utile?”.
Fissarono di vedersi il giorno dopo nello studio di Kevin
sulla Promenade street, la strada chiusa al traffico di Santa
Monica, dove si esibiscono gli artisti da strada più bravi d’America.

“Ma che ci vuoi andare a fare a Lake Havasu?” chiese con
aria impertinente Kevin, allungando i piedi sulla scrivania
mentre tirava una boccata al sigaro Havana.
“Domanda più che lecita”, rispose Habib. “Partendo da
Lake Havasu voglio documentarmi su come sono stati realizzati
questi enormi invasi artificiali che danno acqua a tre
stati. E soprattutto alla California che, altrimenti, morirebbe
di sete. È stata fatta una violenza alla natura, al deserto, con
dei risultati sconvolgenti. Qualcosa di simile è stato fatto con
le dighe sul Tigri e l’Eufrate, Quella costruita da Ataturk in
Turchia ha dato vita a un grande territorio con incremento
delle coltivazioni. I vostri tre laghi sul Colorado hanno creato
grandi comunità turistiche e sono una inesauribile fonte di
produzione di energia elettrica, garantendo l’approvvigionamento
di acqua agli assetati abitanti del Nevada, Arizona e
California”.
“Il mondo è bello perché è vario”, commentò Kevin. “Penso
di poterti essere d’aiuto perché come agente immobiliare
sono autorizzato a esercitare anche in Arizona”.
Si mise a consultare il laptop.
“Credo di avere trovato qualcosa di interessante. Vieni
qui vicino. Ecco, vedi: questo grande loft è situato nel cosiddetto
Villaggio Inglese, a poche decine di metri dal London
Bridge, la copia del ponte di Londra voluta dall’imprenditore
McCulloch, quello noto per le seghe a motore. Ma famoso
anche perché con i suoi motori vennero costruiti i primi gokart.
Ti piacciono i gokart?”.
“Ad essere sincero non mi interessano proprio. Comunque
vedo dalle foto che si tratta forse di una buona soluzione per
quello che sto cercando. Come si potrebbe fare?”.
“Senti: visto che sei un fratello e visto che voglio prendermi
un giorno libero ti ci porto io. Dobbiamo partire subito
perchè ci sono 300 miglia da fare. Dormiamo al London
Bridge Resort. Domattina vediamo il loft. Se ti va concludiamo
il tutto e io ritorno a LA nel pomeriggio”.
“Ti sottoponi a una tremenda sfacchinata... ”.
“Lo faccio volentieri per aiutarti in pieno spirito massonico.
Tra mezz’ora partiamo, OK?”.
“Va bene”.

lunedì 4 maggio 2015

Capitolo 31 del giallo "W.D.C sotto traccia."

Michael Bardi compose il numero privato di Rachel.
Squillo prolungato prima della risposta: “Ah, sei tu?! Mi trovo
in un meeting”.
“Sei sparita dalla circolazione. Ci possiamo vedere?”.
“Facciamo alle due al Caffè Milano, ti va bene?”.
“Perfetto”.
Il Caffè Milano di Franco Nuschese era il locale più ‘in’
di Washington DC. Se volevi trovare qualche personaggio
importante della politica, dell’economia o dello spettacolo
(in transito nella Capitale) il punto di ritrovo sicuro era quel
ristorante passato di mano in mano sino a che il nuovo proprietario,
Nuschese appunto, ne aveva rialzato le sorti con
un’attenta azione di pubbliche relazioni.
Quanto al cibo, se uno pretendeva di trovare gli stessi sapori
dei migliori ristoranti in Italia rimaneva deluso. Il Caffè
Milano, sia pure in una scala superiore rispetto ad altri
concorrenti, doveva accontentare gli americani che, anche se
appartenenti a categorie sociali selezionate, non avevano la
stessa sofisticazione degli europei quanto a cibo.
Michael era stato accompagnato al tavolo che aveva prenotato
in fondo alla sala per evitare il rumore che in genere
caratterizzava quel locale dove, al secondo bicchiere di vino
il tono della conversazione saliva oltre i cento decibel, per
merito soprattutto delle clienti, in genere belle ragazze, che
cominciavano a squittire con sonore risate.
Mentre attendeva l’arrivo della sua ospite che ritardava secondo
la migliore tradizione muliebre, si mise a osservare le
porzioni che venivano servite nei tavoli vicini.
Ricordò divertito la scena di quel film di culto ‘Big Night’
con Stanley Tucci. La storia di due fratelli italiani che avevano
aperto un ristorante a New York dove volevano servire un
menu di stretta tradizione italiana. I primi clienti erano stati
una coppia. Lei la tipica virago obesa che schiacciava con la
sua arroganza il marito mingherlino. Si fanno convincere a
ordinare un risotto mantecato al tartufo. Quando il fratello chef
porta personalmente, dopo i regolamentari venti minuti
di cottura, due piatti con il prezioso contenuto, la megera
esclama: “Ma che è questo misero riso? E poi non ci sono
nemmeno le meat balls, (le palline di carne al ragu che identificano
per gli americani un italiano)”.
“Eccomi”, disse Rachel che nel frattempo era arrivata inguainata
nel suo tailleur professionale che aveva suscitato le
consuete occhiate di desiderio in tutti i maschi che avevano
fatto cadere lo sguardo sulla sua figura con distrazione, mentre
passava tra i tavoli.
Allo chef de rang che si era avvicinato premuroso salutandola
con un cordiale “Avvocato O’Hara, buon pomeriggio…”
dopo un’occhiata al menu, ordinò il branzino e un
bicchiere di Sauvignon.
Michael Bardi la osservava con intensa ammirazione.
“Che ti succede, Rachel?”, chiese sottovoce. “Qualcosa
non funziona, se non sono indiscreto? Tutto bene sul lavoro?
Sono giorni che non ci vediamo per lavorare alle nostre
revisioni… ”.
Rachel dette una scossa alla rossa chioma. Assaporò il vino
bianco che le avevano servito e rispose fissando il bicchiere
senza rivolgere lo sguardo all’amico che sedeva alla sua sinistra.
“Per piacere non mi fare il piagnisteo dell’amante italiano,
iperprotettivo. È che ho un sacco di lavoro da fare e ho cambiato
cliente di riferimento. Non lavoro più per il gruppo
rappresentato da Gutierrez. Credevo che te l’avesse detto”.
Michael cominciò ad affrontare l’osso buco, servito ovviamente
con una buona dose di linguine, tipico esempio di
compromesso tra la cultura culinaria italiana e quella americana.
“No, è molto tempo che non sento l’onorevole Gutierrez.
Sei soddisfatta del nuovo lavoro?” chiese, sentendo che ormai
l’incontro stava scivolando sul formale e non certo per colpa
sua.
Rachel, a sua volta impegnata con una porzione di branzino,
cotto al forno e servito su un letto di spinaci, rispose a
stento, masticando:
“Sì. Pagano molto e chiedono il sangue. Però è un’attività
interessante che mi porterà di frequente all’estero”.
“Questo significa che ci vedremo sempre di meno?”.
Rachel posò le posate ai bordi del piatto e girò la testa
verso Michael fissandolo con uno sguardo gelido:
“Senti Michael, parliamoci chiaro. Tutto comincia e tutto
finisce. Hai presente il famoso detto francese tout casse, tout
passe, tout lasse... et tout se remplace?”.
“Mi stai dando il benservito, senza nemmeno gli otto giorni?”
chiese sorridendo Michael, atteggiando il viso a una tristezza
da amante licenziato. Da tempo aveva capito che lui
per Rachel era un bambolotto da usare e buttare. Ed era stato
al gioco perchè quella donna stava conducendo una danza
che bisognava decifrare. Come agente Michael non aveva
una vita privata e tanto meno poteva imbarcarsi in sentimentalismi.
“Ma che benservito. Non hai capito un cazzo. Mi piaci
un sacco e con te fare l’amore è una sinfonia. La colpa è solo
mia che mi sento svuotata, sotto pressione perché devo dimostrare
che sono brava oltre che una bella figa come tutti
mi considerano. Penso che la cosa migliore e più ragionevole
sia quella di prenderci una pausa di riflessione, tanto più che
devo andare a Dubai dopodomani per una settimana e poi
in Germania. Però, ti prego: non mettiamola sul melodrammatico
perché siamo due adulti, ognuno con le sue esperienze
più o meno piacevoli. Tra l’altro mi sento in colpa in un
modo maledetto perché da tre settimane non sono riuscita a
ritagliarmi qualche ora per andare a trovare mia figlia”.
Rachel aveva parlato ad alta voce e i vicini di tavolo facevano
finta di non avere sentito anche se si scambiavano
ammiccamenti divertiti.
Michael ordinò due espressi, precisando che non voleva
dentro la maledetta scorza di limone, altra pessima abitudine
della cultura italo-americana che aveva come risultato quello
di rovinare un buon caffè.
Pagò il conto, si alzò e aiutò Rachel a scostare la sedia.
Insieme uscirono dal locale, lei seguita dagli sguardi incantati
dei maschi, camerieri messicani compresi. Lui dalle occhiate
vellutate delle tante donne presenti che gli prendevano la
misura delle spalle e dello stretto bacino. E anche di qualcosaltro.
Nel parcheggio di fronte al Caffè Milano Rachel O’Hara
salì sulla sua Smart che l’addetto alla consegna delle auto si
era precipitato a farle trovare pronta e col motore acceso.
Michael Bardi tirò fuori dal portafoglio la chiave con la
quale sbloccò l’antifurto della bicicletta, una Bianchi da corsa
in titanio che pesava due chili. Si tiro’ su il calzone destro e
inizio’ a pedalare dirgendosi verso Wisconsin Avenue.
Rachel O’Hara gli stava sfuggendo. Che tipo di lavoro si
era messa a fare adesso?