“Ci andiamo?”, domandò la donna. “Dove?”. “All’ambasciata italiana. Ho ricevuto un invito per una manifestazione sui cibi kosher. Come ebrea-irlandese anche se scarsamente osservante, il tema può interessarmi. Tu che ne dici?”. Michael si stirò sulla sedia. Da ore stavano lavorando a verificare tutte le azioni intraprese da Rachel O’Hara per conto del suo maxi cliente, l’onorevole Edmundo Gutierrez. “Pur di uscire da questa stanza, mi va bene anche il kosher”. “Dimmi, chiese Rachel, tu di che fede religiosa sei?”. “Formalmente cattolico. Ma non sono credente e tanto meno praticante”.
Rachel chiuse a chiave la porta del suo ufficio dopo avere messo in cassaforte la documentazione sulla quale avevano lavorato. Michael giacca sulla spalla e maniche della camicia rimboccate la seguiva. Ascensore in garage e poi dentro la Smart, una delle prime che giravano a Washington. Certo che vedere quella rossa naturale nella minicar per le strade della Capitale faceva un certo effetto. Uscirono sulla K Street, poi la Smart imboccò la Quindicesima St. a sinistra e si diresse verso Massachusetts Avenue, la strada delle ambasciate. “La conosci la storia dell’Ambasciata italiana?” domandò Rachel a Michael a un semaforo. “Non nei dettagli”, mentì Michael per galanteria. “Prima di questa la sede diplomatica era in Fuller Street, un’area fino a ieri poco raccomandabile. Pensa che la polizia chiedeva di potersi nascondere nel piccolo giardinetto di fronte all’ingresso della cancelleria per beccare gli spacciatori di droga. Poi è stata decisa la costruzione di questa imponente ambasciata che si trova in Whitehaven, una traversa di Massachussets Ave. In questa strada c’è anche l’abitazione dei Clinton”. Mentre attendeva che il traffic light passasse al verde per la curva a sinistra Rachel continuava nella sua illustrazione: “Ecco lo vedi questo parallelepipedo. Secondo il progetto dell’architetto Sartogo, che ha vinto anni fa un concorso internazionale, l’ambasciata doveva essere ispirata a una villa fortezza toscana del ‘500. Boh... non so che dirti. Comunque vedi che la costruzione è divisa da un corridoio che spartisce in due l’edificio. Nel mezzo una grande piazza coperta, piazza Italia, dove organizzano mostre, concerti. Questa ambasciata è divenuta uno dei luoghi di interesse turistico di Washington. In questo voi italiani siete unici, quanto ad apparire”. Trovato uno spazio per parcheggiare la vetturetta si diressero verso il gruppo di persone che attendevano l’apertura del cancello e i controlli di sicurezza. Al momento di passare attraverso il metal detector, Michael oltre al cellulare, portafoglio, chiavi, estrasse anche l’ascellare con la Beretta nella fondina e pose tutto su un vassoio. Il carabiniere di servizio lo guardò attentamente e gli disse in inglese: “Questa la tratteniamo noi e le sarà riconsegnata all’uscita”. Michael fece un cenno di assenso.
Entrati nella grande cupola, dove Michael apprezzò l’accostamento di quadri antichi su pareti e superfici dai colori molto marcati, si diressero a destra verso l’auditorium da 200 posti. Poltrone in pelle beige. Dopo un breve intervento di saluto dell’ambasciatore inziò il seminario. Al microfono si alternarono un rabbino, un esperto di marketing e un giovane presidente di una azienda che importava prodotti kosher. Lunga esposizione del rabbino che ricordò come il cibo kosher (conforme) degli ebrei sia regolato dalle leggi della Bibbia. Si lanciò in una dotta elucubrazione dei prodotti kosher che andavano dalla carne macellata e privata del sangue ai filtri delle macchine da caffè e alle caramelle. Sottolineò che il mercato della carne kosher era in grande espansione negli Stati Uniti. “Difficile anzi impossibile invitare un ebreo ortodosso a cena a casa, a meno che tu non garantisca un menu completamente kosher”, sussurrò Rachel in un orecchio a Michael, sbadigliando. “Per quanto mi riguarda non ci sono problemi: mi puoi invitare quando e dove ti pare”. Al termine del lungo seminario, che aveva stremato il pubblico, i due uscirono nella piazza Italia dove erano stati allestiti tavoli da buffet con cibi, ovviamente, kosher. “La cosa più interessante di questa riunione - disse Michael sottovoce - è che ebrei e musulmani almeno su un punto si trovano d’accordo: hai sentito che hanno detto che milioni di musulmani negli Stati Uniti acquistano cibi kosher perché non hanno a disposizione la carne ‘halal’ che è in pratica macellata alla stessa maniera di quella ebraica?”. “Michael, lascia perdere… - rispose l’avvocatessa ammiccante - Posso invitarti a mangiare un piatto di pasta a casa mia?
L’appartamento di Rachel O’Hara era situato in un condominio di lusso sulla Wisconsin Avenue a cinque minuti di auto dall’ambasciata. Lasciata la Smart in garage Michael e Rachel si diressero all’ascensore a disposizione dei soli residenti. Decimo piano, chiave magnetica, piccolo studio con cucina, ampio bagno e spazio letto distinto dal salotto. “Ti va di aiutarmi? Visto che sei italiano, caro Bardi, una pasta sono sicura che la sai fare”. Michael si cimentò con un pacco di spaghetti da cui estrasse 250 grammi, la pila dell’acqua opportunamente salata che cominciava a bollire, un pezzo di Parmigiano Reggiano con relativa grattugia e un panetto di burro. Scolò la pasta, rigorosamente ‘al dente’, la condì con burro, pepe e formaggio in abbondanza, servita sui piatti apparecchiati sul piccolo tavolo. Rachel era uscita dalla doccia avvolta in un pareo dai mille colori. La pasta, annaffiata da una bottiglia di Morellino di Scansano sparì tra risate e commenti sulla abilità dei maschi italiani che vengono in America a catturare le donne grazie anche alla loro capacità di destreggiarsi tra i fornelli. Senza immaginare che alle ragazze americane questo talento fa proprio comodo perché a nessuna piace cucinare. La ritengono un’attività degradante secondo il femminismo imparato dalle madri. Rachel si alzò, armeggiò al rack dell’alta fedeltà. Tirò fuori da uno scaffale un vecchio LP. “Vedi Michael: sono tornata alla passione del vinile. Questo sicuramente te lo ricordi di Sarah Vaughan”. E porse la mano a Michael che si alzò, invitandolo ad allacciarsi al suo corpo appena coperto dalla tela caraibica, mentre si diffondevano le note e le parole di ‘The nearness of you’. Michael affondò il viso nel collo di Rachel. Aspirò il suo profumo naturale intenso appena coperto da qualche goccia di Arpege. E la sentì prima mormorare, come se stesse parlando tra sé e poi appoggiare il suo sesso alla sua verga impettita nei pantaloni. Rachel non smentiva la fama che le rosse naturali hanno in giro per il mondo. E al contrario, di moltitudini di donne anorgasmiche, lei godeva ripetutamente, lamentandosi, mentre strusciava a tempo di musica il monte di Venere contro Michael. Lasciò cadere il pareo e scoprì la bellezza del suo corpo di donna realizzata nella maturità. Un seno dai capezzoli impennati e frementi, lievemente appoggiato, fianchi rotondi che disegnavano una clessidra, lunghe gambe tornite. Rachel si slacciò da Michael, si abbassò in ginocchio sbottonandogli i pantaloni e tutto il resto e affondò il volto nel suo sesso turgido e aggressivo. “Come è bello”, diceva ripetutamente a mezza voce quasi salmodiando. Rachel raccolse tra le mani il pene impettito, con delicatezza, quasi fosse una reliquia. Lo passò sulle guance, sugli occhi chiusi, sotto il collo. Iniziò poi un delicato arabesco con la lingua cercando di prolungare il tormento del suo partner che si ergeva in tutta la sua notevole dimensione. Michael esplose e innondò la faccia di Rachel ripetutamente mentre lei godeva digitando il clitoride impazzito.
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“Mi raccomando: fa’ la brava e non fare arrabbiare la nonna. Vengo sicuramente questo fine settimana. Ma mi devi promettere che avrai preso tutti ‘A’”. Rachel parlava sommessamente, ma il suono della sua voce svegliò Michael. “Beh, se hai sentito, stavo parlando con mia figlia Sarah. La solita storia di un matrimonio tra due giovani studenti incoscienti che finisce poco dopo, lasciando l’amaro in bocca. Alzati e vai in bagno. Ci attende una lunga giornata di lavoro”.
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