La segretaria bussò alla porta dell’ufficio. “Entra!” fece l’avvocato Rachel O’Hara. “Sulla linea tre ho l’onorevole Gutierrez da Città di Mexico”. “Passamelo… Carissimo Onorevole che piacere sentirla…”. “Bellissima esponente del Foro (ma che hai capito? Non equivocare... ) come stai?”, rispose il messicano. “Oppressa da montagne di lavoro. Soprattutto per te e i tuoi amici. Ma tutto procede”. “Senti, ti disturbo per segnalarti che riceverai la visita di Michael Bardi. È un giovane molto preparato e ti prego di considerarlo come un mio assistente diretto”. “Sarà un piacere per me, Onorevole”. “Non lo metto in dubbio. Un forte abbraccio”.
Rachel O’Hara, avvocato, una gran bella donna, sicura di esserlo. Ovviamente anche per lei valevano i commenti maligni ambosessi secondo cui aveva avuto successo nella professione dandola a chi le poteva essere utile.
Ma lei se ne infischiava delle maldicenze che metteva da sempre nel conto. A spargere gossip in genere erano omuncoli che avrebbero voluto godersela almeno una volta e che facevano gli schizzinosi moralisti. E poi tutta una torma di donne, condottiere di quel femminismo d’accatto all’insegna del tutto e subito e tagliamo i coglioni al maschio stupratore e sfruttatore. E tra queste maldicenti anche qualche Saffo che aveva cercato più volte di rimorchiarla. Il risultato di tanto movimentismo parolaio era che la donna in generale era ancora di più oberata da responsabilità e fatiche. E siccome tutte ormai erano costrette a cercarsi un lavoro per aiutare il marito o perché divorziate con i figli a carico, lo schiavismo femminile aveva assunto nuove connotazioni. Ma la sostanza era sempre la stessa. A meno che tu non sia dotata da madre natura di un fisico al di sopra della norma e di una testa che riesce a gestire nel modo giusto quel patrimonio di viso, culo, tette e gambe. La fortunata innesta allora la quinta e la sesta marcia e sorpassa tutto e tutti. Questo pensava Rachel O’Hara, avvocato, che aveva abbandonato i tribunali per le società di lobby dove, grazie al suo fisico, cordialità naturale e cervello sopraffino era riuscita a scalare i piani alti di una delle più affermate aziende di Washington. Accavallando le lunghe gambe inguainate nei pantaloni attillati di un tailleur di ordinanza che esaltava le sue curve pericolose Rachel sorrideva pensando: “E del resto si dice: ‘à la guerre comme à la guerre’. Ovvero non si possono mettere i fiori nelle canne dei fucili. E lei le sue armi naturali sapeva bene come adoperarle. Con tanti saluti a quelli che strillavano per il sexual harrassement fatto dalle donne nei confronti del maschio.
Knock, knock alla porta del suo ufficio di angolo con doppia finestra e quadri d’autore alle pareti. Michael Bardi apparve sfoderando il suo luminoso sorriso. Zazzera bionda, lievemente spettinata dopo il taglio da 300 dollari del barbiere alla moda. Quasi due metri di muscoli in un Armani ultimo modello. “Cristo!”, bofonchiò l’avvocatessa tramortita da tanto vedere. “Ma questo è un Paride”. Alzandosi e porgendo la mano, disse: “Lei è Michael Bardi da Hollywood?!” Eye contact prolungato tra i due con risata squillante di Rachel. Il ghiaccio era rotto e si poteva cominciare a parlare di lavoro dopo i primi minuti all’insegna del ‘ma quanto ci piaciamo!’.
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(Ogni riferimento a fatti realmente accaduti e/o a persone realmente
esistenti o esistite è da ritenersi puramente casuale.
Any resemblance to real events and/or to real persons, living or dead, is
purely coincidental)
sabato 29 novembre 2014
martedì 25 novembre 2014
W.D.C sotto traccia - Capitolo 10
“Il mondo è come una tartina di caviale”, disse Edmundo
Gutierrez mentre si cimentava con un cucchiaio di Beluga
iraniano che doveva essere depositato su un cracker di ridotte
dimensioni.
“Vede queste prelibate uova di storione? Sono sicuramente
troppe per la tartina, così come ormai siamo troppi su questo
pianeta”.
Caviale e cracker sparirono nella bocca del messicano che
riprese: “Le risorse si esauriranno prima o poi. Purtroppo,
‘prima’ che poi. L’aumento della popolazione in Cina, India,
Brasile significa miliardi di nuovi consumatori. Siamo ormai
sette miliardi. Nei secoli, compreso quello passato, le guerre e
soprattutto le guerre mondiali servivano a equilibrare la crescita
eccessiva. Se andiamo ancora più indietro ci pensavano
le pestilenze a ridurre la popolazione attiva”.
E bevve di un fiato il bicchiere di vodka che premurosamente
gli avevano messo accanto alla bacinella contenente il
caviale fresco e non pastorizzato.
“Michael, che ne pensa?”.
“Quello che lei dice è molto giusto. Penso però che si debba
concentrare una parte delle risorse disponibili per esplorare
nuove strade e fonti energetiche”.
“Ahi, ahi: dunque lei è un sostenitore della banda Green…
Abbiamo scelto l’uomo sbagliato per un progetto giusto”.
Gutierrez rideva ma in modo forzato. Michael bevve un
sorso del suo champagne.
“Al di là delle battute, il mio è un ragionamento condiviso
ormai dai vertici delle grandi compagnie petrolifere. Tanto
per fare un esempio. Onorevole, questo lo sa bene quanto
me, pensi a quanti capitali sono investiti da Exxon, Shell, BP
per l’individuazione di nuove fonti energetiche, per il perfezionamento
delle tecniche di estrazione del petrolio e del gas
naturale, per la conversione dell’acqua in idrogeno.
Venti anni fa chi avrebbe immaginato che nel gallone di
benzina che mettiamo nel serbatoio della nostra auto più del
10 % fosse costituito da benzina verde, etanolo, ricavata dalla
fermentazione delle graminacee? Chiedere come fanno tanti
verdi la sostituzione del petrolio è un assurdo. Ma pensare
a soluzioni complementari può essere un business di sicuro
successo”.
Edmundo Gutierrez studiava il giovane biondo che gli
stava davanti e che si esprimeva in un inglese perfetto. Non
tralasciando talvolta di inserire qualche frase in spagnolo, con
una pronuncia resa accettabile dalla madre lingua italiana.
“Senta, Mr. Bardi: lei domani ha il suo aereo per gli Stati
Uniti. Io adesso me ne vado a Città di Messico col mio
Falcon. In mattinata devo incontrare il Presidente. Allora,
prenda questa busta con l’assegno. Resto in attesa di una sua
risposta corredata, come noi speriamo, da un rapporto su
quello che succede nella società di lobby della quale ci serviamo
da tempo”.
Stretta di mano e ghigno cordiale il proprietario del Maya
Resort si alzò sostenuto dalla ‘nipotina’ che non aveva proferito
parola durante la cena e si era limitata a scansare le
occhiate che incidentalmente Michael le dava di sfuggita
quando si cimentava in qualche panoramica.
Michael si rimise a sedere. Un cenno allo chef de rang che
si precipitò al tavolo.
“Vorrei ascoltare ancora qualche canzone dei tre Mariachi,
se fosse possibile”.
“Hanno finito il turno. Ma tutto è possibile, Dottor Bardi”,
sorrise il capo cameriere.
E servì un altro flute di champagne millesimato, un nettare
che il viaggio dalla Francia non aveva scalfito nel suo gusto
e aroma.
Dopo dieci mnuti ecco tornare i musicisti che avevano
dovuto rivestirsi con tanto di largo sombrero.
“Cosa desidera ascoltare, signore?” chiese inchinandosi
quello dei tre che doveva essere il capo.
“Sabor a mi e poi El Reloj. Comunque scegliete voi, siete
talmente bravi… ”. Fu la risposta.
Una brezza veniva dall’oceano e faceva muovere i tendaggi
di canapa bianca che scendevano dal soffitto del grande patio.
Le romantiche canzoni messicane si dipanavano discretamente
sostenute dalla professionalità degli arrangiamenti
vocali del trio.
Dopo avere assaporato il secondo bicchiere di bollicine a
fermetazione naturale, Michael lasciò sul tavolo due biglietti
da cento dollari. E salutati i musicisti ai quali strinse la mano,
si avviò verso il vialetto che conduceva al cottage.
Chiave elettronica. Dentro l’aria condizionata funzionava
ancora al massimo.
Sembrava di stare al Polo. Michael regolò il termostato sui
20 gradi centigradi. Aveva bevuto troppo quella sera. Si levò
i vestiti da dosso, rimase nudo e si infilò sotto il lenzuolo. Il
braccio sinistro sotto il cuscino del partner che non c’era.
E precipitò in un sonno profondo, attraversato da sogni
come lampi improvvisi.
Flash: papà sempre sorridente tutte le volte che tornava a
casa. Era così bello stare con lui. Sapeva tante cose e te le spiegava
con immagini e parole che poi ti rimanevano dentro.
Quando doveva stare in collegio in Svizzera chi gli mancava
veramente era lui. Non erano state molte le occasioni prima
che morisse di passare insieme qualche ora. Ma si trattava di
ricordi indimenticabili. Come quella mattina del suo compleanno.
Compiva tredici anni e si sentiva ‘vecchio’, proprio
così. Era nella sua camera di Milano e il babbo prima di partire
per l’aeroporto per uno dei suoi tanti viaggi era entrato
furtivamente per baciarlo. Si era sorpreso perché Michael,
tutto preso dalla sua crisi esistenziale di adolescente, stava
piangendo perché il futuro gli appariva nero e nessuno gli
avrebbe potuto dare una risposta. Papà si era seduto sul letto,
lo aveva preso tra le sue braccia e gli chiedeva: “Cosa c’è che
non va, Pulcino mio?” Michael non sapeva dare una risposta.
“Non lo so, Papi. Sono triste e mi sento inutile”. “Inutile a
tredici anni, piccolo mio?! Avrai tante soddisfazioni nella tua
vita, Michael perché hai talenti e la voglia di affermarti. Ne
sono sicuro. Ascolta il tuo Papà che ti vuole tanto bene e che
ti dice la verità. Da me non sentirai mai delle cose non vere”.
Lo aveva lasciato rinfrancato e fiducioso che il cammino della
vita sarebbe stato facile con il suo babbo al fianco che lo
proteggeva.
Flash: quella volta che era venuto a casa un amico a trovare
la mamma, un suo compagno del liceo. Papà era in viaggio.
Michael aveva notato che la mamma era tutta eccitata e si
era cosparsa di un profumo francese che a Michael toglieva il
fiato. Aveva sedici anni ed era in vacanza per qualche giorno
a Milano prima di ritornare nel collegio in Svizzera. Lui si
era rinchiuso nella sua camera ad ascoltare in cuffia i Beegees.
Poi gli era venuta voglia di una Coca Cola ed era andato in
cucina. Ritornando in camera aveva intravisto attraverso la
porta semiaperta del salotto la mamma e l’amico che si baciavano,
avvinghiati in un grande abbraccio. La mano di lui
che razzolava tra le cosce materne. Si era sentito sgomento.
Perché a pelle da tempo percepiva che qualcosa non doveva
funzionare nel matrimonio dei suoi genitori. Un grande rispetto
reciproco quando erano in pubblico, contrappuntato
da qualche ‘Amore’ o ‘Tesoro’. Era comprensibile anche per
un ragazzo che si trattava solo di una messinscena, al di là
della quale vi era il vuoto pneumatico dei sentimenti. Ma vedere
quella scena e sua madre infoiata per i massaggi e i baci
del suo antico primo amore gli avevano preso lo stomaco. E
rientrato in camera si era recato nel bagno e aveva vomitato
nella toilette.
Flash: le foto del crash del padre in quella maledetta curva
del Passo dello Stelvio. Gli accertamenti fatti dalla polizia
stradale avevano individuato la dinamica dell’incidente.
Papà stava scendendo ad andatura sostenuta quando su un
tornante si era trovato la sua mezzeria invasa da un TIR. La
frenata, di cui restavano le tracce dei pneumatici sull’asfalto,
non era stata sufficiente a evitare lo scontro con il pesante
autoarticolato. La Duetto era rimbalzata contro il guard rail
che, anziché attutire e contenere il veicolo si era trasformato
in una rampa di lancio, catapultando l’Alfa Romeo al di là
della curva. Un salto di più di cento metri. Ai soccorritori si
era presentata una scena raccapricciante con frammenti del
corpo del guidatore sparsi per decine di metri, in mezzo ai
rottami della macchina.
Flash: E il funerale con il corteo di finti addolorati. A cominciare
dai colleghi della azienda, perché, grazie a Dio, si
apriva uno spazio per salire. La mamma ovviamente che recitava
da par suo la parte della moglie disperata, ma civile. Il
suo dolore era evidente, ma contenuto come solo le persone
di un certo livello sociale sanno fare. Pieno di premure l’amico
del liceo la sosteneva nel tragitto fino alla Basilica di
Sant’Ambrogio. Dio, come li odiava quei due.
Flash: la bionda Olivia incontrata alla Tuscan View Farm
in Virginia. E questa Olivia, la ‘nipotina’, stessi occhi ma capelli
corvini.
Flash: e gli sembrava di toccarla quella dea, bionda o mora,
ne sentiva il profumo un po’ selvaggio della pelle, sentiva le
sue labbra che gli sfioravano il viso, la fronte e si attardavano
sui suoi capezzoli.
“Dio, come sei bello e quanto mi piaci” stava dicendo la
creatura che si era infilata nel letto.
Michael aveva ormai smaltito la mezza sbornia. Si sollevò
su un fianco, stupito e felice di trovare Olivia, di averla vicina,
nuda, perfetta nelle sue rotondità. Un cocktail di Venere
Capitolina e Paolina Bonaparte del Canova.
“Ma sei pazza? Come sei entrata? Se lo viene a scoprire”.
“Ho detto che stavo male e non me la sentivo di andare a
Città di Messico. Non sei contento di vedermi? Ho pensato
molto a te dopo che ci siamo visti a casa mia in Virginia”.
“Olivia, Dio, incredibile ritrovarti qui”. Il volto di Michael
sprizzava gioia, quella stessa gioia che provava quando,
bambino, il papà gli portava il regalo che da tempo desiderava.
Una luce negli occhi di sorpresa e candore infantile.
“Non parlare; ti voglio dentro di me, subito”.
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(Ogni riferimento a fatti realmente accaduti e/o a persone realmente
esistenti o esistite è da ritenersi puramente casuale.
Any resemblance to real events and/or to real persons, living or dead, is
purely coincidental)
Gutierrez mentre si cimentava con un cucchiaio di Beluga
iraniano che doveva essere depositato su un cracker di ridotte
dimensioni.
“Vede queste prelibate uova di storione? Sono sicuramente
troppe per la tartina, così come ormai siamo troppi su questo
pianeta”.
Caviale e cracker sparirono nella bocca del messicano che
riprese: “Le risorse si esauriranno prima o poi. Purtroppo,
‘prima’ che poi. L’aumento della popolazione in Cina, India,
Brasile significa miliardi di nuovi consumatori. Siamo ormai
sette miliardi. Nei secoli, compreso quello passato, le guerre e
soprattutto le guerre mondiali servivano a equilibrare la crescita
eccessiva. Se andiamo ancora più indietro ci pensavano
le pestilenze a ridurre la popolazione attiva”.
E bevve di un fiato il bicchiere di vodka che premurosamente
gli avevano messo accanto alla bacinella contenente il
caviale fresco e non pastorizzato.
“Michael, che ne pensa?”.
“Quello che lei dice è molto giusto. Penso però che si debba
concentrare una parte delle risorse disponibili per esplorare
nuove strade e fonti energetiche”.
“Ahi, ahi: dunque lei è un sostenitore della banda Green…
Abbiamo scelto l’uomo sbagliato per un progetto giusto”.
Gutierrez rideva ma in modo forzato. Michael bevve un
sorso del suo champagne.
“Al di là delle battute, il mio è un ragionamento condiviso
ormai dai vertici delle grandi compagnie petrolifere. Tanto
per fare un esempio. Onorevole, questo lo sa bene quanto
me, pensi a quanti capitali sono investiti da Exxon, Shell, BP
per l’individuazione di nuove fonti energetiche, per il perfezionamento
delle tecniche di estrazione del petrolio e del gas
naturale, per la conversione dell’acqua in idrogeno.
Venti anni fa chi avrebbe immaginato che nel gallone di
benzina che mettiamo nel serbatoio della nostra auto più del
10 % fosse costituito da benzina verde, etanolo, ricavata dalla
fermentazione delle graminacee? Chiedere come fanno tanti
verdi la sostituzione del petrolio è un assurdo. Ma pensare
a soluzioni complementari può essere un business di sicuro
successo”.
Edmundo Gutierrez studiava il giovane biondo che gli
stava davanti e che si esprimeva in un inglese perfetto. Non
tralasciando talvolta di inserire qualche frase in spagnolo, con
una pronuncia resa accettabile dalla madre lingua italiana.
“Senta, Mr. Bardi: lei domani ha il suo aereo per gli Stati
Uniti. Io adesso me ne vado a Città di Messico col mio
Falcon. In mattinata devo incontrare il Presidente. Allora,
prenda questa busta con l’assegno. Resto in attesa di una sua
risposta corredata, come noi speriamo, da un rapporto su
quello che succede nella società di lobby della quale ci serviamo
da tempo”.
Stretta di mano e ghigno cordiale il proprietario del Maya
Resort si alzò sostenuto dalla ‘nipotina’ che non aveva proferito
parola durante la cena e si era limitata a scansare le
occhiate che incidentalmente Michael le dava di sfuggita
quando si cimentava in qualche panoramica.
Michael si rimise a sedere. Un cenno allo chef de rang che
si precipitò al tavolo.
“Vorrei ascoltare ancora qualche canzone dei tre Mariachi,
se fosse possibile”.
“Hanno finito il turno. Ma tutto è possibile, Dottor Bardi”,
sorrise il capo cameriere.
E servì un altro flute di champagne millesimato, un nettare
che il viaggio dalla Francia non aveva scalfito nel suo gusto
e aroma.
Dopo dieci mnuti ecco tornare i musicisti che avevano
dovuto rivestirsi con tanto di largo sombrero.
“Cosa desidera ascoltare, signore?” chiese inchinandosi
quello dei tre che doveva essere il capo.
“Sabor a mi e poi El Reloj. Comunque scegliete voi, siete
talmente bravi… ”. Fu la risposta.
Una brezza veniva dall’oceano e faceva muovere i tendaggi
di canapa bianca che scendevano dal soffitto del grande patio.
Le romantiche canzoni messicane si dipanavano discretamente
sostenute dalla professionalità degli arrangiamenti
vocali del trio.
Dopo avere assaporato il secondo bicchiere di bollicine a
fermetazione naturale, Michael lasciò sul tavolo due biglietti
da cento dollari. E salutati i musicisti ai quali strinse la mano,
si avviò verso il vialetto che conduceva al cottage.
Chiave elettronica. Dentro l’aria condizionata funzionava
ancora al massimo.
Sembrava di stare al Polo. Michael regolò il termostato sui
20 gradi centigradi. Aveva bevuto troppo quella sera. Si levò
i vestiti da dosso, rimase nudo e si infilò sotto il lenzuolo. Il
braccio sinistro sotto il cuscino del partner che non c’era.
E precipitò in un sonno profondo, attraversato da sogni
come lampi improvvisi.
Flash: papà sempre sorridente tutte le volte che tornava a
casa. Era così bello stare con lui. Sapeva tante cose e te le spiegava
con immagini e parole che poi ti rimanevano dentro.
Quando doveva stare in collegio in Svizzera chi gli mancava
veramente era lui. Non erano state molte le occasioni prima
che morisse di passare insieme qualche ora. Ma si trattava di
ricordi indimenticabili. Come quella mattina del suo compleanno.
Compiva tredici anni e si sentiva ‘vecchio’, proprio
così. Era nella sua camera di Milano e il babbo prima di partire
per l’aeroporto per uno dei suoi tanti viaggi era entrato
furtivamente per baciarlo. Si era sorpreso perché Michael,
tutto preso dalla sua crisi esistenziale di adolescente, stava
piangendo perché il futuro gli appariva nero e nessuno gli
avrebbe potuto dare una risposta. Papà si era seduto sul letto,
lo aveva preso tra le sue braccia e gli chiedeva: “Cosa c’è che
non va, Pulcino mio?” Michael non sapeva dare una risposta.
“Non lo so, Papi. Sono triste e mi sento inutile”. “Inutile a
tredici anni, piccolo mio?! Avrai tante soddisfazioni nella tua
vita, Michael perché hai talenti e la voglia di affermarti. Ne
sono sicuro. Ascolta il tuo Papà che ti vuole tanto bene e che
ti dice la verità. Da me non sentirai mai delle cose non vere”.
Lo aveva lasciato rinfrancato e fiducioso che il cammino della
vita sarebbe stato facile con il suo babbo al fianco che lo
proteggeva.
Flash: quella volta che era venuto a casa un amico a trovare
la mamma, un suo compagno del liceo. Papà era in viaggio.
Michael aveva notato che la mamma era tutta eccitata e si
era cosparsa di un profumo francese che a Michael toglieva il
fiato. Aveva sedici anni ed era in vacanza per qualche giorno
a Milano prima di ritornare nel collegio in Svizzera. Lui si
era rinchiuso nella sua camera ad ascoltare in cuffia i Beegees.
Poi gli era venuta voglia di una Coca Cola ed era andato in
cucina. Ritornando in camera aveva intravisto attraverso la
porta semiaperta del salotto la mamma e l’amico che si baciavano,
avvinghiati in un grande abbraccio. La mano di lui
che razzolava tra le cosce materne. Si era sentito sgomento.
Perché a pelle da tempo percepiva che qualcosa non doveva
funzionare nel matrimonio dei suoi genitori. Un grande rispetto
reciproco quando erano in pubblico, contrappuntato
da qualche ‘Amore’ o ‘Tesoro’. Era comprensibile anche per
un ragazzo che si trattava solo di una messinscena, al di là
della quale vi era il vuoto pneumatico dei sentimenti. Ma vedere
quella scena e sua madre infoiata per i massaggi e i baci
del suo antico primo amore gli avevano preso lo stomaco. E
rientrato in camera si era recato nel bagno e aveva vomitato
nella toilette.
Flash: le foto del crash del padre in quella maledetta curva
del Passo dello Stelvio. Gli accertamenti fatti dalla polizia
stradale avevano individuato la dinamica dell’incidente.
Papà stava scendendo ad andatura sostenuta quando su un
tornante si era trovato la sua mezzeria invasa da un TIR. La
frenata, di cui restavano le tracce dei pneumatici sull’asfalto,
non era stata sufficiente a evitare lo scontro con il pesante
autoarticolato. La Duetto era rimbalzata contro il guard rail
che, anziché attutire e contenere il veicolo si era trasformato
in una rampa di lancio, catapultando l’Alfa Romeo al di là
della curva. Un salto di più di cento metri. Ai soccorritori si
era presentata una scena raccapricciante con frammenti del
corpo del guidatore sparsi per decine di metri, in mezzo ai
rottami della macchina.
Flash: E il funerale con il corteo di finti addolorati. A cominciare
dai colleghi della azienda, perché, grazie a Dio, si
apriva uno spazio per salire. La mamma ovviamente che recitava
da par suo la parte della moglie disperata, ma civile. Il
suo dolore era evidente, ma contenuto come solo le persone
di un certo livello sociale sanno fare. Pieno di premure l’amico
del liceo la sosteneva nel tragitto fino alla Basilica di
Sant’Ambrogio. Dio, come li odiava quei due.
Flash: la bionda Olivia incontrata alla Tuscan View Farm
in Virginia. E questa Olivia, la ‘nipotina’, stessi occhi ma capelli
corvini.
Flash: e gli sembrava di toccarla quella dea, bionda o mora,
ne sentiva il profumo un po’ selvaggio della pelle, sentiva le
sue labbra che gli sfioravano il viso, la fronte e si attardavano
sui suoi capezzoli.
“Dio, come sei bello e quanto mi piaci” stava dicendo la
creatura che si era infilata nel letto.
Michael aveva ormai smaltito la mezza sbornia. Si sollevò
su un fianco, stupito e felice di trovare Olivia, di averla vicina,
nuda, perfetta nelle sue rotondità. Un cocktail di Venere
Capitolina e Paolina Bonaparte del Canova.
“Ma sei pazza? Come sei entrata? Se lo viene a scoprire”.
“Ho detto che stavo male e non me la sentivo di andare a
Città di Messico. Non sei contento di vedermi? Ho pensato
molto a te dopo che ci siamo visti a casa mia in Virginia”.
“Olivia, Dio, incredibile ritrovarti qui”. Il volto di Michael
sprizzava gioia, quella stessa gioia che provava quando,
bambino, il papà gli portava il regalo che da tempo desiderava.
Una luce negli occhi di sorpresa e candore infantile.
“Non parlare; ti voglio dentro di me, subito”.
______________________________________________
(Ogni riferimento a fatti realmente accaduti e/o a persone realmente
esistenti o esistite è da ritenersi puramente casuale.
Any resemblance to real events and/or to real persons, living or dead, is
purely coincidental)
venerdì 21 novembre 2014
W.D.C sotto traccia - Capitolo 9
Da qualche anno le principali linee aeree americane avevano
soppresso i voli diretti Washington-Acapulco. Bisognava
fare scalo a Miami, Houston o Dallas e poi prendere un diretto
per la città messicana.
A Michael avevano spiegato che la corrente principale di
turismo si stava ormai riversando sulla costa atlantica del
Messico. E così Acapulco per tanti anni punto di ritrovo di
tutta l’Hollywood che contava a cominciare da Tarzan - John
Westmuller, John Wayne e Silvester Stallone e molti altri attori
famosi, aveva iniziato un’irreversibile caduta.
Qualcuno aggiungeva che la città, raggiunto ormai il milione
di abitanti, sommando i settecentomila della municipalità
ai sobborghi, era invivibile. Criminalità in aumento e un
paio di morti al giorno.
“Ma non c‘è da preoccuparsi, senor” – disse il tassista a Michael
Bardi nel tragitto dall’aeroporto internazionale General
Juan N. Alvarez al Maya Resort. “Si ammazzano tra di loro”.
La stampa locale, infatti, dava notizia dell’ennesimo ritrovamento
di cadaveri decapitati secondo l’usanza locale.
E poi quel ‘loro’ comprendeva le bande di trafficanti di
droga sempre più potenti, sempre più armate e sempre più
in lotta per la supremazia nel mercato americano. Che continuava
a tirare alla grande e dava la sicurezza di enormi guadagni.
Arrivarono all’ingresso principale del comprensorio e Michael,
pagata la corsa e scaricato il suo bagaglio, si diresse verso
gli uffici dell’accettazione. La ragazza al di là del bancone
appena comprese il suo nome prese il telefono e comunicò
che Mr. Bardi era arrivato.
Questione di un minuto e un cart elettrico si presentò guidato
da un giovane moro, molto bello, vestito di bleu, nonostante
il caldo afoso che imperversava da giorni sulla regione.
“El Nino, senor, insieme alla Nina ci fanno morire”. Aveva
detto il tassista ciarliero nella cui macchina l’aria condizionata
aveva cessato di funzionare chissà da quanti anni.
“Mr. Bardi, bene arrivato. La porto subito al suo cottage”.
Disse il bellone e Michael salì sul cart. Breve tragitto
sui vialetti, scansando frotte di bambini vivaci e anziani su
sedie a rotelle. Il giovane aprì la porta dell’unità, chiaramente
riservata agli ospiti di lusso (un equivalente di una super suite
in qualche albergo di Las Vegas) e Michael si trovò immerso
in un’atmosfera di grande e raffinato gusto. Un arredamento
non pacchiano, con i doverosi riferimenti alla civiltà Maya.
Unico tributo pagato alle esigenze del turista danaroso
proveniente dagli Stati Uniti, la vasca per idromassaggio Iacuzzi
in camera da letto. Da usare ovviamente con flutes di
champagne appoggiati sui bordi e candele accese un po’ da
per tutto. Secondo l’iconografia americana del sesso fatto in
una certa maniera, ovvero con stile.
“Mi permetterò disturbarla tra qualche ora. Le nove, se
per lei va bene. Avrà così tutto il tempo per rilassarsi e fare
un bagno in una delle piscine”. Aggiunse il giovane con uno
sguardo vellutato a Michael che si rese conto di avere fatto
centro con il gay di turno.
Michael tirò fuori dalla valigia un completo di lino comprato
a Roma, una camicia bianca che faceva parte di uno
stock su misura che ogni tanto ordinava a Firenze. Un paio di
cravatte di Marinella di Napoli trovarono il loro posto dietro
la porta dell’armadio. Mocassini di Gucci da indossare ovviamente
senza calzini. Doccia e poi disteso sul letto dopo avere
regolato il termostato dell’aria condizionata al massimo.
Gli venne fatto di ricordare i particolari dell’incontro
che aveva avuto pochi giorni prima a Roma, all’Olgiata con
quell’ex massone. La proposta di contratto ancora non gli era
arrivata; ma sarebbe mai arrivata dal momento che quell’appuntamento
ufficialmente non era mai avvenuto? La minaccia
contenuta nelle parole di Cardoni, quella invece era arrivata
a segno benissimo. Nonostante il modo amabile e soft
delle sue parole.
Da un paio di anni era impegnato nel gestire alcune importanti
consulenze. Ma chiaramente doveva essersi sparsa
la voce in certi ambienti che contavano. La cosa gli faceva
piacere sino ad un certo punto. Nel suo mestiere la regola
aurea era quella di stare sotto traccia. E anche questo invito
al Maya Resort rientrava nella categoria delle pubbliche relazioni
di business.
Gli era arrivato tramite una serie di e-mail la prima delle
quali risaliva a qualche minuto dopo l’incontro dell’Olgiata.
Di ritorno dall’Italia, era riuscito a ritagliarsi una ‘toccata e
fuga’ di qualche ora in Mexico.
Edmundo Gutierrez era il nome del proprietario del Resort
e non solo di questo. Bastava andare su Google per leggere
ampie citazioni su questo Gutierrez.
Esponente politico di spicco dello stato di Guerrero per il
PRI, Partido Revolucionario Institutional, (da oltre 70 anni
alla guida del Paese) era riuscito a divenirne per qualche anno
il governatore, costretto a fare la spola tra Acapulco e la piccola
capitale del tormentato stato, Chilpancingo.
Poi quando nel PRI si era verificata la frattura a livello
nazionale che nel 1987 aveva portato alla formazione di un
altro movimento politico di sinistra, il Partido Democratico
Revolutionario, Edmundo Gutierrez aveva pensato bene di
lasciare la politica attiva che era solo una perdita di tempo
e dedicarsi ai suoi affari. Che le malelingue dicevano fossero
commisti con i grandi traffici di droga.
Un’accusa che in Mexico viene affibbiata ad ogni persona
che si cimenta in politica, tanto pervasiva è la presenza della
criminalità organizzata che fa leva sulla tradizionale cultura
messicana imbevuta di corruzione ad ogni livello.
Così rimuginava Michael a occhi chiusi sperando di assopirsi.
E finalmente Morfeo l’ebbe vinta.
Sognava e gli sembrava di guidare sulle strade piene di verde
della Virginia. Una piscina in una farm e una sirena bionda
che usciva dall’acqua e gli sorrideva, mentre un rumore
insistente gli percuoteva le tempie. Il telefono stava squillando
con un suono stridulo e penetrante. Michael, ancora
intontito, alzò il ricevitore con un gesto automatico.
Il telefono. “Mr. Bardi sono le nove e il suo appuntamento
è tra venti minuti nella hall del Maya”, la voce del moretto
era un po’ eccitata.
“Va bene. Mi ero addormentato. Tra un quarto d’ora sono
pronto”.
“Sarò ad aspettarla fuori del suo cottage con il cart”.
Doccia fredda prolungata, una rapida passata con il rasoio
elettrico che gli manteneva alla giusta altezza il filo di barba,
vestito di lino, camicia (senza cravatta, con quel caldo… ) e
mocassini infilati all’ultimo momento. Aprì la porta.
Il giovanotto vestito di blue era sul cart e gli sorrideva con
intensità.
Il cart iniziò la sua corsa silenziosa lungo i vialetti verso la
costruzione principale del resort. Ispirata ai Maya con fontane,
piramidi, riproduzioni del calendario di quella civiltà e il
tripudio di colori che solo in Mexico si trova.
Il cart si fermò alla base di una breve scala che conduceva
sotto un patio che comprendeva uno dei vari ristoranti e il
bar dove un trio di chitarristi cantanti si stava esibendo suonando
in maniera perfetta una delle canzoni messicane più
apprezzate da Michael, “Sabor a mi”.
I tre cantavano per un attempato ma vigoroso gentiluomo,
camicia nera su pantaloni neri e calzari, che ascoltava sorridendo,
rapito, mentre sorseggiava un whisky on the rocks.
Alle sue spalle seduti tre individui anch’essi nero vestiti. Due
dalle dimensioni di giocatori di football americano. Il terzo
mingherlino, baffetti e pizzetto alla Mefisto che contribuivano
a rendere spettrale il suo viso. Chiaramente un locale.
All’arrivo di Michael, Edmundo Gutierrez si alzò dalla
poltrona con una certa fatica, forse soffriva di gotta. Sorrise
con lo splendore dei suoi trentadue denti appena impiantati,
colorito bruno che rivelava come qualcuno dei suoi progenitori
si fosse innamorato di una fanciulla india.
“Sto bevendo un whisky favoloso. Vuole tenermi compagnia?”,
esordì Gutierrez.
Michael annuì sorridendo. Le tre guardie del corpo avevano
spostato di un metro le loro sedie. L’assistente si era
dileguato.
Gutierrez fece un cenno con la mano al bartender che si
precipitò con bicchiere, bottiglia, cestello del ghiaccio.
Stretta di mano a Michael che si attendeva quella massonica.
Evidentemente Gutierrez non era un fratello. Meglio
così. Va a fidarti.
“Cardoni mi ha subito chiamato appena lei è uscito da
casa sua a Roma. E così mi sono messo in moto io. Le ho
mandato un po’ di messaggi e la ringrazio per avere aderito a
questa richiesta di incontro, anche se in un così breve spazio
di tempo, immaginando i suoi impegni professionali in giro
per il mondo”.
Michael Bardi sorridendo fece un gesto con le mani come
per dire: “Ma le pare? È un piacere reciproco” e tutti i minuetti
di rito che precedono la trattativa di temi e argomenti
molto duri.
Edmundo Gutierrez era un uomo di mondo, preparato
culturalmente e abituato da sempre a gestire i propri affari e
quelli che gli venivano affidati da poche altre persone molto
selezionate. Parlava in maniera diretta ma senza caricare il
discorso di enfasi. Il che per un messicano doc era una eccezione,
visto che non usava iperboli e aggettivazione.
“Cardoni le ha parlato del nostro club, delle nostre preoccupazioni.
Non le ha detto che abbiamo investito al momento
un sacco di dollari in una delle più note società di lobby
di Washington. Ovviamente sulla K Street. Ma non siamo
molto soddisfatti dei risultati raggiunti. Anche perché, parliamoci
fuori dei denti, lei sa bene come funzionano queste
aziende.
Raccolgono superpagati consulenti, ovvero quegli uomini
politici di alto livello che sono stati trombati in qualche elezione.
Ma che comunque per l’intensa attività politica svolta
si sono creati una fitta rete di contatti ai livelli più alti della
amministrazione. Senza parlare dei colleghi di partito e
anche di quelli al potere. Tanto il dollaro non ha e non avrà mai
colorazioni politiche”.
Edmundo Gutierrez si concesse una pausa indicando al
barista di riempirgli di nuovo il bicchiere del biondo liquido.
“Chissà quanti ne ha bevuti sino ad ora”, pensò Michael, ammirando
la tenuta all’alcool del suo anfitrione.
“Da tempo puntiamo ad averla come nostro collaboratore.
Abbiamo studiato il suo curriculum e seguito la sua attività
professionale. Non è nostra abitudine forzare la mano. Vorremmo,
come dire? Stabilire un periodo di rodaggio reciproco
per il quale le sarà corrisposto un lauto assegno. Il primo
impegno che le chiediamo, sperando in una sua accettazione,
è la verifica di quello che stanno facendo per noi sulla K street.
Abbiamo il sospetto che alcuni dei nuovi dirigenti della
società di lobby stiano facendo a nostre spese il doppio gioco.
Non si spiegherebbero altrimenti le informazioni riservate
che sono in mano ai sostenitori delle energie alternative e
complementari.
Guardi in questa busta ho messo un assegno che penso
possa coprire le spese per il primo rapporto sull’argomento
che vorrà inviarci. Prenda la busta, ci pensi sopra questa notte
prima di dormire. E domani ne riparleremo”.
Gutierrez alzò la mano e da un piccolo tavolo poco distante
si levò una dea che zampettando su tacchi altissimi, gli si
avvicinò baciandolo lievemente sulla guancia.
“Penso che sia arrivato il momento di andare a mangiare
qualcosa. Questa è la mia nipotina”.
Gli occhi verdi sotto un caschetto di capelli neri folgorarono
Michael e lo trapassarono.
“Questo è Michael e questa è Olivia”. Disse Gutierrez dirigendosi
verso il tavolo riservato nel ristorante.
_______________________________________________
(Ogni riferimento a fatti realmente accaduti e/o a persone realmente
esistenti o esistite è da ritenersi puramente casuale.
Any resemblance to real events and/or to real persons, living or dead, is
purely coincidental)
soppresso i voli diretti Washington-Acapulco. Bisognava
fare scalo a Miami, Houston o Dallas e poi prendere un diretto
per la città messicana.
A Michael avevano spiegato che la corrente principale di
turismo si stava ormai riversando sulla costa atlantica del
Messico. E così Acapulco per tanti anni punto di ritrovo di
tutta l’Hollywood che contava a cominciare da Tarzan - John
Westmuller, John Wayne e Silvester Stallone e molti altri attori
famosi, aveva iniziato un’irreversibile caduta.
Qualcuno aggiungeva che la città, raggiunto ormai il milione
di abitanti, sommando i settecentomila della municipalità
ai sobborghi, era invivibile. Criminalità in aumento e un
paio di morti al giorno.
“Ma non c‘è da preoccuparsi, senor” – disse il tassista a Michael
Bardi nel tragitto dall’aeroporto internazionale General
Juan N. Alvarez al Maya Resort. “Si ammazzano tra di loro”.
La stampa locale, infatti, dava notizia dell’ennesimo ritrovamento
di cadaveri decapitati secondo l’usanza locale.
E poi quel ‘loro’ comprendeva le bande di trafficanti di
droga sempre più potenti, sempre più armate e sempre più
in lotta per la supremazia nel mercato americano. Che continuava
a tirare alla grande e dava la sicurezza di enormi guadagni.
Arrivarono all’ingresso principale del comprensorio e Michael,
pagata la corsa e scaricato il suo bagaglio, si diresse verso
gli uffici dell’accettazione. La ragazza al di là del bancone
appena comprese il suo nome prese il telefono e comunicò
che Mr. Bardi era arrivato.
Questione di un minuto e un cart elettrico si presentò guidato
da un giovane moro, molto bello, vestito di bleu, nonostante
il caldo afoso che imperversava da giorni sulla regione.
“El Nino, senor, insieme alla Nina ci fanno morire”. Aveva
detto il tassista ciarliero nella cui macchina l’aria condizionata
aveva cessato di funzionare chissà da quanti anni.
“Mr. Bardi, bene arrivato. La porto subito al suo cottage”.
Disse il bellone e Michael salì sul cart. Breve tragitto
sui vialetti, scansando frotte di bambini vivaci e anziani su
sedie a rotelle. Il giovane aprì la porta dell’unità, chiaramente
riservata agli ospiti di lusso (un equivalente di una super suite
in qualche albergo di Las Vegas) e Michael si trovò immerso
in un’atmosfera di grande e raffinato gusto. Un arredamento
non pacchiano, con i doverosi riferimenti alla civiltà Maya.
Unico tributo pagato alle esigenze del turista danaroso
proveniente dagli Stati Uniti, la vasca per idromassaggio Iacuzzi
in camera da letto. Da usare ovviamente con flutes di
champagne appoggiati sui bordi e candele accese un po’ da
per tutto. Secondo l’iconografia americana del sesso fatto in
una certa maniera, ovvero con stile.
“Mi permetterò disturbarla tra qualche ora. Le nove, se
per lei va bene. Avrà così tutto il tempo per rilassarsi e fare
un bagno in una delle piscine”. Aggiunse il giovane con uno
sguardo vellutato a Michael che si rese conto di avere fatto
centro con il gay di turno.
Michael tirò fuori dalla valigia un completo di lino comprato
a Roma, una camicia bianca che faceva parte di uno
stock su misura che ogni tanto ordinava a Firenze. Un paio di
cravatte di Marinella di Napoli trovarono il loro posto dietro
la porta dell’armadio. Mocassini di Gucci da indossare ovviamente
senza calzini. Doccia e poi disteso sul letto dopo avere
regolato il termostato dell’aria condizionata al massimo.
Gli venne fatto di ricordare i particolari dell’incontro
che aveva avuto pochi giorni prima a Roma, all’Olgiata con
quell’ex massone. La proposta di contratto ancora non gli era
arrivata; ma sarebbe mai arrivata dal momento che quell’appuntamento
ufficialmente non era mai avvenuto? La minaccia
contenuta nelle parole di Cardoni, quella invece era arrivata
a segno benissimo. Nonostante il modo amabile e soft
delle sue parole.
Da un paio di anni era impegnato nel gestire alcune importanti
consulenze. Ma chiaramente doveva essersi sparsa
la voce in certi ambienti che contavano. La cosa gli faceva
piacere sino ad un certo punto. Nel suo mestiere la regola
aurea era quella di stare sotto traccia. E anche questo invito
al Maya Resort rientrava nella categoria delle pubbliche relazioni
di business.
Gli era arrivato tramite una serie di e-mail la prima delle
quali risaliva a qualche minuto dopo l’incontro dell’Olgiata.
Di ritorno dall’Italia, era riuscito a ritagliarsi una ‘toccata e
fuga’ di qualche ora in Mexico.
Edmundo Gutierrez era il nome del proprietario del Resort
e non solo di questo. Bastava andare su Google per leggere
ampie citazioni su questo Gutierrez.
Esponente politico di spicco dello stato di Guerrero per il
PRI, Partido Revolucionario Institutional, (da oltre 70 anni
alla guida del Paese) era riuscito a divenirne per qualche anno
il governatore, costretto a fare la spola tra Acapulco e la piccola
capitale del tormentato stato, Chilpancingo.
Poi quando nel PRI si era verificata la frattura a livello
nazionale che nel 1987 aveva portato alla formazione di un
altro movimento politico di sinistra, il Partido Democratico
Revolutionario, Edmundo Gutierrez aveva pensato bene di
lasciare la politica attiva che era solo una perdita di tempo
e dedicarsi ai suoi affari. Che le malelingue dicevano fossero
commisti con i grandi traffici di droga.
Un’accusa che in Mexico viene affibbiata ad ogni persona
che si cimenta in politica, tanto pervasiva è la presenza della
criminalità organizzata che fa leva sulla tradizionale cultura
messicana imbevuta di corruzione ad ogni livello.
Così rimuginava Michael a occhi chiusi sperando di assopirsi.
E finalmente Morfeo l’ebbe vinta.
Sognava e gli sembrava di guidare sulle strade piene di verde
della Virginia. Una piscina in una farm e una sirena bionda
che usciva dall’acqua e gli sorrideva, mentre un rumore
insistente gli percuoteva le tempie. Il telefono stava squillando
con un suono stridulo e penetrante. Michael, ancora
intontito, alzò il ricevitore con un gesto automatico.
Il telefono. “Mr. Bardi sono le nove e il suo appuntamento
è tra venti minuti nella hall del Maya”, la voce del moretto
era un po’ eccitata.
“Va bene. Mi ero addormentato. Tra un quarto d’ora sono
pronto”.
“Sarò ad aspettarla fuori del suo cottage con il cart”.
Doccia fredda prolungata, una rapida passata con il rasoio
elettrico che gli manteneva alla giusta altezza il filo di barba,
vestito di lino, camicia (senza cravatta, con quel caldo… ) e
mocassini infilati all’ultimo momento. Aprì la porta.
Il giovanotto vestito di blue era sul cart e gli sorrideva con
intensità.
Il cart iniziò la sua corsa silenziosa lungo i vialetti verso la
costruzione principale del resort. Ispirata ai Maya con fontane,
piramidi, riproduzioni del calendario di quella civiltà e il
tripudio di colori che solo in Mexico si trova.
Il cart si fermò alla base di una breve scala che conduceva
sotto un patio che comprendeva uno dei vari ristoranti e il
bar dove un trio di chitarristi cantanti si stava esibendo suonando
in maniera perfetta una delle canzoni messicane più
apprezzate da Michael, “Sabor a mi”.
I tre cantavano per un attempato ma vigoroso gentiluomo,
camicia nera su pantaloni neri e calzari, che ascoltava sorridendo,
rapito, mentre sorseggiava un whisky on the rocks.
Alle sue spalle seduti tre individui anch’essi nero vestiti. Due
dalle dimensioni di giocatori di football americano. Il terzo
mingherlino, baffetti e pizzetto alla Mefisto che contribuivano
a rendere spettrale il suo viso. Chiaramente un locale.
All’arrivo di Michael, Edmundo Gutierrez si alzò dalla
poltrona con una certa fatica, forse soffriva di gotta. Sorrise
con lo splendore dei suoi trentadue denti appena impiantati,
colorito bruno che rivelava come qualcuno dei suoi progenitori
si fosse innamorato di una fanciulla india.
“Sto bevendo un whisky favoloso. Vuole tenermi compagnia?”,
esordì Gutierrez.
Michael annuì sorridendo. Le tre guardie del corpo avevano
spostato di un metro le loro sedie. L’assistente si era
dileguato.
Gutierrez fece un cenno con la mano al bartender che si
precipitò con bicchiere, bottiglia, cestello del ghiaccio.
Stretta di mano a Michael che si attendeva quella massonica.
Evidentemente Gutierrez non era un fratello. Meglio
così. Va a fidarti.
“Cardoni mi ha subito chiamato appena lei è uscito da
casa sua a Roma. E così mi sono messo in moto io. Le ho
mandato un po’ di messaggi e la ringrazio per avere aderito a
questa richiesta di incontro, anche se in un così breve spazio
di tempo, immaginando i suoi impegni professionali in giro
per il mondo”.
Michael Bardi sorridendo fece un gesto con le mani come
per dire: “Ma le pare? È un piacere reciproco” e tutti i minuetti
di rito che precedono la trattativa di temi e argomenti
molto duri.
Edmundo Gutierrez era un uomo di mondo, preparato
culturalmente e abituato da sempre a gestire i propri affari e
quelli che gli venivano affidati da poche altre persone molto
selezionate. Parlava in maniera diretta ma senza caricare il
discorso di enfasi. Il che per un messicano doc era una eccezione,
visto che non usava iperboli e aggettivazione.
“Cardoni le ha parlato del nostro club, delle nostre preoccupazioni.
Non le ha detto che abbiamo investito al momento
un sacco di dollari in una delle più note società di lobby
di Washington. Ovviamente sulla K Street. Ma non siamo
molto soddisfatti dei risultati raggiunti. Anche perché, parliamoci
fuori dei denti, lei sa bene come funzionano queste
aziende.
Raccolgono superpagati consulenti, ovvero quegli uomini
politici di alto livello che sono stati trombati in qualche elezione.
Ma che comunque per l’intensa attività politica svolta
si sono creati una fitta rete di contatti ai livelli più alti della
amministrazione. Senza parlare dei colleghi di partito e
anche di quelli al potere. Tanto il dollaro non ha e non avrà mai
colorazioni politiche”.
Edmundo Gutierrez si concesse una pausa indicando al
barista di riempirgli di nuovo il bicchiere del biondo liquido.
“Chissà quanti ne ha bevuti sino ad ora”, pensò Michael, ammirando
la tenuta all’alcool del suo anfitrione.
“Da tempo puntiamo ad averla come nostro collaboratore.
Abbiamo studiato il suo curriculum e seguito la sua attività
professionale. Non è nostra abitudine forzare la mano. Vorremmo,
come dire? Stabilire un periodo di rodaggio reciproco
per il quale le sarà corrisposto un lauto assegno. Il primo
impegno che le chiediamo, sperando in una sua accettazione,
è la verifica di quello che stanno facendo per noi sulla K street.
Abbiamo il sospetto che alcuni dei nuovi dirigenti della
società di lobby stiano facendo a nostre spese il doppio gioco.
Non si spiegherebbero altrimenti le informazioni riservate
che sono in mano ai sostenitori delle energie alternative e
complementari.
Guardi in questa busta ho messo un assegno che penso
possa coprire le spese per il primo rapporto sull’argomento
che vorrà inviarci. Prenda la busta, ci pensi sopra questa notte
prima di dormire. E domani ne riparleremo”.
Gutierrez alzò la mano e da un piccolo tavolo poco distante
si levò una dea che zampettando su tacchi altissimi, gli si
avvicinò baciandolo lievemente sulla guancia.
“Penso che sia arrivato il momento di andare a mangiare
qualcosa. Questa è la mia nipotina”.
Gli occhi verdi sotto un caschetto di capelli neri folgorarono
Michael e lo trapassarono.
“Questo è Michael e questa è Olivia”. Disse Gutierrez dirigendosi
verso il tavolo riservato nel ristorante.
_______________________________________________
(Ogni riferimento a fatti realmente accaduti e/o a persone realmente
esistenti o esistite è da ritenersi puramente casuale.
Any resemblance to real events and/or to real persons, living or dead, is
purely coincidental)
lunedì 17 novembre 2014
W.D.C sotto traccia - Capitolo 8
1150, Quindicesima Strada a pochi blocchi dalla Casa
Bianca. La sede del Washington Post con la solita Lynotipe
messa nella hall. Il Washington Post, il più vecchio quotidiano
americano, fondato nel 1871 aveva 740 giornalisti. Il
Palmares di questo giornale annoverava 47 premi Pulitzer
conquistati dai suoi reporter ogni anno.
Anche se ogni tanto gli capitava di incappare in qualche
infortunio. Come il caso della giornalista Janet Cooke che
nel 1980 aveva vinto il Pulitzer per una serie di articoli che
narravano le disavventure di un ragazzino eroinomane, “Jimmy’s
world”. Tutto inventato e la donna aveva dovuto restituire
il premio.
Il Post era entrato nella leggenda quando nel 1970 una
inchiesta dei suoi giornalisti investigativi, Bob Woodward e
Carl Berstein, aveva minato la credibilità del Presidente Nixon
affrettandone le dimissioni.
Erano le 8:30 di sera. Ormai tutte le pagine erano state
chiuse salvo lo spazio per una ribattitura nel caso fosse successo
qualcosa di grosso.
Studio dell’Editor in Chief. Di fronte due giovani redattori,
Norman O’Brien a Cintia Bradley.
“Direttore, disse Norman, abbiamo fatto verifiche incrociate
a non finire. Ci stiamo lavorando da mesi come sai.
Siamo andati a Boston a parlare con la Pallettieri e abbiamo
registrato i nostri incontri. Poi sai bene che fine ha fatto la
maitresse, anche se non è chiaro se si trattava di balordi o di
qualcuno che agiva su commissione”.
Il direttore sempre impeccabile nel suo doppio petto che
lo aveva reso famoso, eccezione all’immagine del giornalista
scamiciato e sudato, ascoltava, viso impassibile, capello accuratamente
tagliato e sfumato da Melo, famoso barbiere del
Watergate.
Norman continuava, un po’ affannato: “Tra i clienti della
Pallettieri vi sono alcuni principi arabi sauditi al massimo
della gerarchia della famiglia reale. Al Qaeda con le sue nuove
basi e campi di addestramento in Yemen e Somalia sta preparando
attentati proprio in Arabia Saudita per minarne la
consistenza di potere.
L’accusa mossa da decenni da parte dei fondamentalisti
arabi è che questo stato è colluso da sempre con l’odiato infedele
americano e i suoi alleati. È inutile che sottolinei a te, direttore,
quale botta di immagine sarebbe per l’Arabia Saudita
se si venisse a sapere che membri della famiglia al piu’ alto
livello frequentano nelle loro visite di stato in America escort
superpagate, consumando litri di alcoolici e droghe. Eh?”.
Nessuna reazione da parte del mega direttore. Il doppio
petto si alzava e abbassava con ritmo lento proprio di chi
mantiene in forma il proprio fisico con prolungate sedute
in palestra e jogging premattutino alle sei, prima di recarsi al
giornale verso le dieci per la riunione di redazione.
Norman guardò alla sua destra Cintia Bradley che, mentre
seguiva l’esposizione del collega, si mordeva un’unghia. Cintia
ricambiò con uno sguardo rassegnato.
Norman ormai non aveva scelta se non quella di andare
avanti. Sentiva che i suoi argomenti non penetravano la spessa
scorza professionale del capo.
“La pubblicazione di queste storie sarebbe un contributo
all’azione dei verdi che vogliono promuovere le energie
rinnovabili alternative a quelle fossili. Soprattutto al petrolio.
O meglio a quelle enormi quantità che siamo costretti
a importare dai diversi scacchieri del globo. Ma soprattutto
dall’Arabia Saudita”.
Il doppio petto dirigenziale ebbe un moto di vitalità. Si
schiarì la voce e disse:
“Vedo che avete fatto un gran lavoro e ho letto con attenzione
quanto mi avete sottoposto. Lasciatemi consultare il
nostro dipartimento legale per averne un parere vincolante
sui rischi ai quali potremmo andare incontro. Vi farò sapere.
Buon lavoro”.
Un sorriso tiepido, mezzo abbozzato e stretta di mano
quasi morta. E i due uscirono dalla stanza seguiti dagli sguardi
di decine di colleghi che nei loro cubicoli facevano finta
di lavorare.
Il direttore compose un numero interno: “Sam, quei due
vedi di mandarmeli subito alla cronaca”. Disse il direttore
mostrando per la prima volta una qualche emozione. “Per favore
non mi stare a rompere anche tu. Fai quello che ti dico.
Ho le mie buone ragioni”.
E Sam il caporedattore centrale scrisse sulla sua agenda che
il giorno dopo avrebbe dovuto chiamare Norman e Cintia.
Per comunicare loro che, il direttore aveva deciso di fargli
fare esperienza in un settore, quello della cronaca cittadina,
che aveva bisogno di essere rivitalizzato con storie nuove e
interessanti che facessero aumentare le vendite. E loro erano
proprio i reporter più adatti. Ovviamente un piccolo ritocco
allo stipendio con un bonus avrebbe potuto essere molto
convincente.
Sulla L Street a cento metri dall’ingresso del Washington
Post c’era il Post Pub. Frequentato, manco a dirlo, soprattutto
dai reporters del giornale. Vi si mangiavano degli splendidi
cheese burger con french fries. Il tutto innaffiato dalle migliori
birre.
Norman era seduto al bancone del bar, si teneva la testa tra
le mani e guardava la propria immagine riflessa nello speccho
di fronte. Mary, la bartender in là con gli anni e materna,
nel versargli il terzo bicchiere di voda Stolichnaya gli chiese:
“Che succede, Norman? Hai bucato un paio di gomme?
Norman sorrise e rispose: “Le solite cose che ti capitano
quando fai un lavoro come il mio. Il peggiore a livello planetario”.
Una mano gli si posò sulla nuca e cominciò ad accarezzargli
la testa.
“Dai Norman, disse Cintia che era sopraggiunta nel frattempo.
“Andiamo a festeggiare da un’altra parte l’inculata
che ci hanno dato stasera. Tu sei già bollito a dovere e non
puoi guidare. Ci penso io. Altrimenti se ti beccano i poliziotti
mentre sei al volante… piove davvero sul bagnato”.
Cintia pagò le consumazioni a Maria che disse: “Fai proprio
bene, sai? Non l’ho mai visto così depresso”.
Poi Norman e Cintia uscirono dal locale. Lui in equilibrio
precario.
Vicino al Post Pub c’era uno dei tanti garages, convenzionato
col giornale. I due salirono sulla Ford Focus di Cintia
che avviò il motore e si diresse verso Georgetown. Il servizio
meteorologico aveva annunciato un forte storm su Washington.
Le cateratte del cielo si aprirono e riversarono acqua a
catinelle sulla Capitale della Federazione. I tergicristallo non
riuscivano a pulire il vetro e Cintia si trovo’ di fronte una
colonna di macchine che procedevano a velocita’ quasi zero.
“Proprio il tempo giusto per la conclusione di una giornata
come questa... !”, disse Cintia parlando ad alta voce.
Nessuna reazione da parte di Norman che si era assopito,
testa abbassata sul petto, trattenuto dalla cintura di sicurezza.
Arrivati alla Trentunesima strada Cintia trovò uno spazio
dove parcheggiare quasi di fronte a casa sua. Uscirono dalla
vettura giusto in tempo per prendersi un’altra sgrullata di
pioggia.
Un piccolo cortile sul quale si aprivano le porte di cinque
single house.
“Versati un whisky, tanto uno più o meno. Vado un momento
in bagno. Tieni: prendi questo telo e asgiugati che sei
completamente fradicio”.
Norman si diresse al tavolo dove erano alcune bottiglie di
liquore e si servì una solida dose di biondo whisky di malto.
Niente ghiaccio perché non voleva uccidere l’aroma di un
nettare invecchiato dodici anni in fusti di rovere.
Sentì scorrrere l’acqua nella doccia e capì che la serata doveva
concludersi in un certo modo. Non era la prima volta
con Cintia, una ragazza che non creava mai dei problemi.
Efficiente sul lavoro come pochi colleghi e deliziosa quando
le prendeva il ruzzo di fare un po’ di sesso.
E, bisognava riconoscere che Cintia aveva un bagaglio tecnico
culturale di primo livello nel fare all’amore. Si capiva
che per lei era un modo non solo per soddisfare un legittimo
desiderio, ma anche la voglia di far felice il suo partner del
momento.
Dopo alcuni minuti Cintia uscì dal bagno avvolta in un
accapatoio rosa, che sottolineava il rosso dei suoi capelli e
che subito volò per terra. Anche Norman si era spogliato.
Almeno in parte. Cintia gli si inginocchiò davanti sfilandogli
i pantaloni e tutto il resto.
Si stesero per terra. Poi Cintia cominciò a cavalcarlo. Con
grande eccitazione perché l’alcool ingurgitato da Norman
non aveva influito sulla sua performace.
Cintia, schiena eretta, modulava con flessibilità il bacino,
muovendosi lentamente per assaporare il corpo di chi la stava
penetrando in profondità.
Dietro la nuca sentì un freddo contatto. Questione di un
secondo prima che il colpo della Beretta calibro nove con
silenziatore le mandasse in frantumi la testa.
Per poi dirigersi verso il viso di Norman e scaricare nel suo
occhio sinistro un altro colpo.
Habib Fareh ripulì con un lembo del lenzuolo la pistola
che ripose nella fondina sotto il braccio e si avviò verso la
porta. Uscito in strada si avvicinò alla sua auto che aveva
parcheggiato poco distante.
Prima di mettere in moto estrasse dalla tasca il cellulare e
digitò un numero. Quando dall’altra parte alzarono il ricevitore
disse: “Fatto”. Accese il motore e, stando bene attento
a non superare le venticinque miglia, si diresse verso il Maryland.
Ad ogni stop bloccava la vettura perché sapeva che il
governo del Distretto di Columbia aveva aumentato le pattuglie
di poliziotti nascosti dietro gli incroci. Pronti a beccare
chi non fermava completamente le ruote prima del segnale.
Con questo sistema gli introiti nella casse del comune di Washington
DC erano aumentati negli ultimi mesi.
_______________________________________________
(Ogni riferimento a fatti realmente accaduti e/o a persone realmente
esistenti o esistite è da ritenersi puramente casuale.
Any resemblance to real events and/or to real persons, living or dead, is
purely coincidental)
Bianca. La sede del Washington Post con la solita Lynotipe
messa nella hall. Il Washington Post, il più vecchio quotidiano
americano, fondato nel 1871 aveva 740 giornalisti. Il
Palmares di questo giornale annoverava 47 premi Pulitzer
conquistati dai suoi reporter ogni anno.
Anche se ogni tanto gli capitava di incappare in qualche
infortunio. Come il caso della giornalista Janet Cooke che
nel 1980 aveva vinto il Pulitzer per una serie di articoli che
narravano le disavventure di un ragazzino eroinomane, “Jimmy’s
world”. Tutto inventato e la donna aveva dovuto restituire
il premio.
Il Post era entrato nella leggenda quando nel 1970 una
inchiesta dei suoi giornalisti investigativi, Bob Woodward e
Carl Berstein, aveva minato la credibilità del Presidente Nixon
affrettandone le dimissioni.
Erano le 8:30 di sera. Ormai tutte le pagine erano state
chiuse salvo lo spazio per una ribattitura nel caso fosse successo
qualcosa di grosso.
Studio dell’Editor in Chief. Di fronte due giovani redattori,
Norman O’Brien a Cintia Bradley.
“Direttore, disse Norman, abbiamo fatto verifiche incrociate
a non finire. Ci stiamo lavorando da mesi come sai.
Siamo andati a Boston a parlare con la Pallettieri e abbiamo
registrato i nostri incontri. Poi sai bene che fine ha fatto la
maitresse, anche se non è chiaro se si trattava di balordi o di
qualcuno che agiva su commissione”.
Il direttore sempre impeccabile nel suo doppio petto che
lo aveva reso famoso, eccezione all’immagine del giornalista
scamiciato e sudato, ascoltava, viso impassibile, capello accuratamente
tagliato e sfumato da Melo, famoso barbiere del
Watergate.
Norman continuava, un po’ affannato: “Tra i clienti della
Pallettieri vi sono alcuni principi arabi sauditi al massimo
della gerarchia della famiglia reale. Al Qaeda con le sue nuove
basi e campi di addestramento in Yemen e Somalia sta preparando
attentati proprio in Arabia Saudita per minarne la
consistenza di potere.
L’accusa mossa da decenni da parte dei fondamentalisti
arabi è che questo stato è colluso da sempre con l’odiato infedele
americano e i suoi alleati. È inutile che sottolinei a te, direttore,
quale botta di immagine sarebbe per l’Arabia Saudita
se si venisse a sapere che membri della famiglia al piu’ alto
livello frequentano nelle loro visite di stato in America escort
superpagate, consumando litri di alcoolici e droghe. Eh?”.
Nessuna reazione da parte del mega direttore. Il doppio
petto si alzava e abbassava con ritmo lento proprio di chi
mantiene in forma il proprio fisico con prolungate sedute
in palestra e jogging premattutino alle sei, prima di recarsi al
giornale verso le dieci per la riunione di redazione.
Norman guardò alla sua destra Cintia Bradley che, mentre
seguiva l’esposizione del collega, si mordeva un’unghia. Cintia
ricambiò con uno sguardo rassegnato.
Norman ormai non aveva scelta se non quella di andare
avanti. Sentiva che i suoi argomenti non penetravano la spessa
scorza professionale del capo.
“La pubblicazione di queste storie sarebbe un contributo
all’azione dei verdi che vogliono promuovere le energie
rinnovabili alternative a quelle fossili. Soprattutto al petrolio.
O meglio a quelle enormi quantità che siamo costretti
a importare dai diversi scacchieri del globo. Ma soprattutto
dall’Arabia Saudita”.
Il doppio petto dirigenziale ebbe un moto di vitalità. Si
schiarì la voce e disse:
“Vedo che avete fatto un gran lavoro e ho letto con attenzione
quanto mi avete sottoposto. Lasciatemi consultare il
nostro dipartimento legale per averne un parere vincolante
sui rischi ai quali potremmo andare incontro. Vi farò sapere.
Buon lavoro”.
Un sorriso tiepido, mezzo abbozzato e stretta di mano
quasi morta. E i due uscirono dalla stanza seguiti dagli sguardi
di decine di colleghi che nei loro cubicoli facevano finta
di lavorare.
Il direttore compose un numero interno: “Sam, quei due
vedi di mandarmeli subito alla cronaca”. Disse il direttore
mostrando per la prima volta una qualche emozione. “Per favore
non mi stare a rompere anche tu. Fai quello che ti dico.
Ho le mie buone ragioni”.
E Sam il caporedattore centrale scrisse sulla sua agenda che
il giorno dopo avrebbe dovuto chiamare Norman e Cintia.
Per comunicare loro che, il direttore aveva deciso di fargli
fare esperienza in un settore, quello della cronaca cittadina,
che aveva bisogno di essere rivitalizzato con storie nuove e
interessanti che facessero aumentare le vendite. E loro erano
proprio i reporter più adatti. Ovviamente un piccolo ritocco
allo stipendio con un bonus avrebbe potuto essere molto
convincente.
Sulla L Street a cento metri dall’ingresso del Washington
Post c’era il Post Pub. Frequentato, manco a dirlo, soprattutto
dai reporters del giornale. Vi si mangiavano degli splendidi
cheese burger con french fries. Il tutto innaffiato dalle migliori
birre.
Norman era seduto al bancone del bar, si teneva la testa tra
le mani e guardava la propria immagine riflessa nello speccho
di fronte. Mary, la bartender in là con gli anni e materna,
nel versargli il terzo bicchiere di voda Stolichnaya gli chiese:
“Che succede, Norman? Hai bucato un paio di gomme?
Norman sorrise e rispose: “Le solite cose che ti capitano
quando fai un lavoro come il mio. Il peggiore a livello planetario”.
Una mano gli si posò sulla nuca e cominciò ad accarezzargli
la testa.
“Dai Norman, disse Cintia che era sopraggiunta nel frattempo.
“Andiamo a festeggiare da un’altra parte l’inculata
che ci hanno dato stasera. Tu sei già bollito a dovere e non
puoi guidare. Ci penso io. Altrimenti se ti beccano i poliziotti
mentre sei al volante… piove davvero sul bagnato”.
Cintia pagò le consumazioni a Maria che disse: “Fai proprio
bene, sai? Non l’ho mai visto così depresso”.
Poi Norman e Cintia uscirono dal locale. Lui in equilibrio
precario.
Vicino al Post Pub c’era uno dei tanti garages, convenzionato
col giornale. I due salirono sulla Ford Focus di Cintia
che avviò il motore e si diresse verso Georgetown. Il servizio
meteorologico aveva annunciato un forte storm su Washington.
Le cateratte del cielo si aprirono e riversarono acqua a
catinelle sulla Capitale della Federazione. I tergicristallo non
riuscivano a pulire il vetro e Cintia si trovo’ di fronte una
colonna di macchine che procedevano a velocita’ quasi zero.
“Proprio il tempo giusto per la conclusione di una giornata
come questa... !”, disse Cintia parlando ad alta voce.
Nessuna reazione da parte di Norman che si era assopito,
testa abbassata sul petto, trattenuto dalla cintura di sicurezza.
Arrivati alla Trentunesima strada Cintia trovò uno spazio
dove parcheggiare quasi di fronte a casa sua. Uscirono dalla
vettura giusto in tempo per prendersi un’altra sgrullata di
pioggia.
Un piccolo cortile sul quale si aprivano le porte di cinque
single house.
“Versati un whisky, tanto uno più o meno. Vado un momento
in bagno. Tieni: prendi questo telo e asgiugati che sei
completamente fradicio”.
Norman si diresse al tavolo dove erano alcune bottiglie di
liquore e si servì una solida dose di biondo whisky di malto.
Niente ghiaccio perché non voleva uccidere l’aroma di un
nettare invecchiato dodici anni in fusti di rovere.
Sentì scorrrere l’acqua nella doccia e capì che la serata doveva
concludersi in un certo modo. Non era la prima volta
con Cintia, una ragazza che non creava mai dei problemi.
Efficiente sul lavoro come pochi colleghi e deliziosa quando
le prendeva il ruzzo di fare un po’ di sesso.
E, bisognava riconoscere che Cintia aveva un bagaglio tecnico
culturale di primo livello nel fare all’amore. Si capiva
che per lei era un modo non solo per soddisfare un legittimo
desiderio, ma anche la voglia di far felice il suo partner del
momento.
Dopo alcuni minuti Cintia uscì dal bagno avvolta in un
accapatoio rosa, che sottolineava il rosso dei suoi capelli e
che subito volò per terra. Anche Norman si era spogliato.
Almeno in parte. Cintia gli si inginocchiò davanti sfilandogli
i pantaloni e tutto il resto.
Si stesero per terra. Poi Cintia cominciò a cavalcarlo. Con
grande eccitazione perché l’alcool ingurgitato da Norman
non aveva influito sulla sua performace.
Cintia, schiena eretta, modulava con flessibilità il bacino,
muovendosi lentamente per assaporare il corpo di chi la stava
penetrando in profondità.
Dietro la nuca sentì un freddo contatto. Questione di un
secondo prima che il colpo della Beretta calibro nove con
silenziatore le mandasse in frantumi la testa.
Per poi dirigersi verso il viso di Norman e scaricare nel suo
occhio sinistro un altro colpo.
Habib Fareh ripulì con un lembo del lenzuolo la pistola
che ripose nella fondina sotto il braccio e si avviò verso la
porta. Uscito in strada si avvicinò alla sua auto che aveva
parcheggiato poco distante.
Prima di mettere in moto estrasse dalla tasca il cellulare e
digitò un numero. Quando dall’altra parte alzarono il ricevitore
disse: “Fatto”. Accese il motore e, stando bene attento
a non superare le venticinque miglia, si diresse verso il Maryland.
Ad ogni stop bloccava la vettura perché sapeva che il
governo del Distretto di Columbia aveva aumentato le pattuglie
di poliziotti nascosti dietro gli incroci. Pronti a beccare
chi non fermava completamente le ruote prima del segnale.
Con questo sistema gli introiti nella casse del comune di Washington
DC erano aumentati negli ultimi mesi.
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(Ogni riferimento a fatti realmente accaduti e/o a persone realmente
esistenti o esistite è da ritenersi puramente casuale.
Any resemblance to real events and/or to real persons, living or dead, is
purely coincidental)
giovedì 13 novembre 2014
W.D.C sotto traccia - Capitolo 7
Sulla porta ad attenderlo un anziano signore con ampia
barba grigia e lunghi capelli, di nero vestito, nonostante il
caldo incipiente. Camicia bianca, cravatta nera, polsini con
gemelli d’oro con l’immagine della squadra e del compasso.
“Fratello Michael, bene arrivato. Posso chiamarvi così visto
che anche voi appartenete alla grande Istituzione?”.
Bardi, atteggiò il viso a un sorriso di circostanza e sedette
nella poltrona che gli veniva indicata. Dalla finestra una brezza
rinfrescante muoveva le tende.
“Prego, gran maestro Cardoni”, rispose Michael.
“Vedete, continuò l’anziano interlocutore usando il ‘voi’
massonico italiano anzichè il tu o il lei, “Non è stato facile
rintracciarvi. Ma ci siamo riusciti”.
“Una domanda personale”, chiese, “di cui mi dovete scusare:
lavorate ancora per la Smithson & Bradley Law Firm di
Washington?”.
“Non più. Abbiamo trovato una soluzione consensuale”.
“Che vi avrà portato sicuramente dei vantaggi economici,
immagino”.
“So curare abbastanza bene i miei interessi. Del resto vi
erano delle divergenze sulle metodiche da adottare”.
Cardoni increspò la gran barba in una risata repressa: “Alludete
alla eliminazione o cancellazione di certe testimonianze
pericolose?”.
Michael fece finta di non avere sentito.
“Opportuno il vostro silenzio”, proseguì Cardoni. “Per
non farvi perdere troppo tempo desidero disegnare con voi
uno scenario. Anni fa ho deciso di dar vita a un’organizzazione
‘The Rock’. Tutte cose che conoscete bene. Ma voglio
darvi una testimonianza personale del mio agire.
Vedete, giovane fratello Michael. Voi appartenete ad
esempio a una loggia che risponde all’Obbedienza della Gran
Loggia di Washington DC. Tanto di cappello per le logge
bilingue di Washington. Guardando da vicino la composizione
dei membri della Massoneria americana devo dire che
la presenza di persone semplici mi fa gioire perchè significa
che il Craft svolge una grande funzione nella società.
Ma poi sorge la domanda: può un’Istituzione come la
Massoneria vivere sulla presenza di gente semplice, tassisti
piuttosto che operai e artigiani? Se noi siamo chiamati a recitare
e svolgere il nostro ruolo di testa di ponte nella società,
se noi massoni ci diciamo spesso che dobbiamo abbassare i
ponti levatoi e ritornare a giocare un ruolo attivo di presenza
e di simbolico punto di riferimento per i disorientati profani
dai quali siamo circondati, bene: se questo è vero, come è
vero, dobbiamo esercitare la nostra influenza con uomini che
siano il meglio della selezione civile.
E guardate: parlo non solo per voi americani. Il discorso
vale per tutti a cominciare dalle varie obbedienze che ci sono
in Italia”.
Michael non si sentiva a suo agio. L’attempato massone
aveva iniziato una liturgia che non riusciva a capire dove volesse
andare a parare. Un personaggio molto criticato per le
sue azioni passate da molti giudicate all’insegna dell’ accrescimento
del proprio potere personale. Non certo una dimostrazione
di tolleranza, il principio ispiratore della Massoneria
universale.
“Ecco perchè ho lasciato ogni Gran Loggia e ho deciso di
dedicarmi alla Rock di cui possono far parte anche le donne.
Ed è quanto è avvenuto venti anni fa nel Rotary International
dove l’appartenenza è determinata non dal sesso ma dai
successi personali e professionali della Persona in quanto tale.
Le nostre riunioni sono al massimo livello e accolgono i veri
potenti. Quelli che decidono le sorti del mondo”.
Michael osservava l’ostentata eccitazione che aveva colto il
suo ospite mentre parlava.
“Sono sicuro che volete chiedermi di che parliamo nei
nostri incontri”. Cardoni era un fiume in piena. “I temi su
cui ci misuriamo sono quelli classici: rapporti di forza tra
le nazioni, le politiche delle multinazionali, e, soprattutto
l’energia. Che succederà a livello globale per far fronte alla
crescente domanda di energia incentivata dall’ingresso nell’arena
mondiale dei cosiddetti paesi emergenti che ormai sono
emersi del tutto?”.
“Ha dimenticato l’acqua... ”, aggiunse Michael rendendosi
conto che in qualche modo doveva interloquire. “E poi,
senza offesa: si tratta di temi sui quali si arrovellano le menti
di scienziati, politici, economisti, sociologi di tutto il mondo...”.
Sorriso di impercettibile compatimento seminascosto dalla
barba risorgimentale.
“Giovane fratello americano. Quello che voi dite è giusto.
Tutti parlano di questi temi. L’unica differenza con altri clubs
famosi, tipo il Bilderberg o lo Aspen Institute, è che noi parliamo,
esaminiamo, ma soprattutto decidiamo e operiamo”.
Quel ‘decidiamo e operiamo’ fu pronunciato quasi sibilando
guardando direttamente negli occhi Michael Bardi. Il
vecchio ex gran maestro stava recitando un copione che era
ancora alle prime battute. Adesso sarebbe entrato a gamba
tesa a esporre in dettaglio quello che aveva in corpo. La ragione
stessa per cui aveva convocato il giovane ex marine.
“Decidiamo e operiamo”, ripetè. “A proposito del problema
dei problemi, ovvero l’energia che ne sapete?”.
“Quello che si legge su tutti i giornali e riviste specializzate:
bisogna puntare sulle energie alternative”.
“A parte che non sono alternative ma complementari, non
si riuscirà ancora per un paio di decenni almeno a scalfire
l’importanza dei combustibili fossili”.
“Si vanno esaurendo”, disse Bardi.
“Lo sostenevano anche quei menagramo del Club di
Roma negli anni ‘50. La scoperta di nuovi giacimenti e le
tecnologie che consentono trivellazioni ad alta profondità
hanno, almeno per il momento, allungato molto la vita del
fossile. Sentite: non voglio sembrare più pedante di quanto
sono per natura, ma chiedo la vostra pazienza nell’ascoltare
alcuni paragrafi di un articolo scritto dal professore Michael
T. Klare”.
Si alzò e presi dei fogli che aveva preparato su un tavolino
vicino alla poltrona, iniziò a leggere.
“Da qui al 2040 petrolio e carbone andranno in crisi. Chi saprà
sostituirli dominerà il mondo. Una guerra lunga trent’anni
per il controllo dell’energia? Nessuno se l’augurerebbe, neanche
in condizioni disperate. Ma purtroppo siamo arrivati a questo
punto e non c’è modo di tornare indietro. Secondo molti storici,
l’attuale assetto geopolitico degli Stati nazionali ha origine dal
trattato di Vestfalia che nel 1648 pose fine all’europea «Guerra
dei Trent’anni». Nei prossimi tre decenni, il Pianeta dovrà porre
le basi per un nuovo ordine, determinato dalla gestione energetica.
Non potremo così che imbarcarci in una nuova «Guerra
dei Trent’anni», meno sanguinosa ma altrettanto decisiva per
un semplice motivo: l’attuale sistema energetico non potrà soddisfare
il fabbisogno mondiale, e dovrà essere sostituito o integrato
da nuove energie utili a evitare un disastro ambientale
di proporzioni inimmaginabili. Saranno i vincitori di questa
guerra a decidere il modo in cui vivremo e lavoreremo, mentre i
perdenti saranno per sempre esclusi”. Che ne pensate, giovane
Michael?”.
Micheal Bardi si strinse nelle spalle.
“Prima di esprimere un giudizio mi farebbe piacere che
poteste continuare nella lettura dei passi che giudicate molto
significativi... ”.
“Vi accontento subito. ‘Durante questi anni a venire, mentre
si arriverà a sfruttare su scala industriale alcune delle nuove
energie oggi in via di sperimentazione, è probabile che l’uso di
risorse fortemente inquinanti, quali il petrolio e il carbone, cali
drasticamente. Le conseguenze economiche saranno di notevoli
proporzioni per i giganti del petrolio come BP (British Petroleum),
Chevron, ExxonMobil e Royal Dutch Shell, che saranno
costretti ad adottare nuovi modelli di mercato e ad affrontare
la sfida dei gruppi emergenti nel campo delle rinnovabili. E al
futuro di questi giganti è legato il destino delle nazioni, la cui
sicurezza dipende dal controllo dell’energia’. Mi sembrano considerazioni
di tutto rispetto... ”.
“E lo sono sicuramente”, rispose Michael, “Anche se non
so quanto influenzate da elementi esterni. Ho letto quell’articolo
e ricordo quanto affermato dal professor Michael T.Klare.
Secondo lui, cito a memoria, per comprendere la natura
del conflitto, si consideri che, secondo la Bp, nel 2010
il nostro Pianeta ha consumato 13,2 miliardi di tonnellate di
energia, di cui il 33,6% petrolifera, il 29,6% carbonifera, il
23,8% ricavata dal gas naturale, il 6,5% idroelettrica, il 5,2%
nucleare e solo l’1,3% proveniente da fonti rinnovabili. Ogni
tentativo di mantenere, di qui a 30 anni, queste proporzioni,
aumentando per di più la produzione energetica del 40%
per soddisfare il fabbisogno mondiale, è impossibile per due
cause: la scarsità di petrolio e il cambiamento climatico”.
Cardoni continuò a consultare i suoi fogli e citò ancora
altri paragrafi dell’articolo.
“Ma se petrolio e carbone sono destinati a perdere posizioni,
che cosa li sostituirà? Una soluzione di «transizione» potrebbe essere
il gas naturale, meno inquinante e che, grazie alle moderne
tecnologie di estrazione, si è rivelato più abbondante del previsto...
Quanto al nucleare, il disastro giapponese della centrale di
Fukushima ha spinto molti Paesi, quali l’Italia e la Svizzera, a
fare marcia indietro. Nonostante altri, come la Cina, proseguano
nel programma atomico civile, e gli entusiasti del nucleare
(incluso il Presidente statunitense) promuovano
lo sviluppo dei cosiddetti piccoli «impianti modulari» meno
inquinanti e più sicuri, è improbabile che sia questo il futuro
dell’energia. Si può invece affermare che nei prossimi 30 anni
il mondo ricorrerà al solare e all’eolico in misura significativamente
maggiore. Secondo l’Agenzia Internazionale dell’Energia,
queste due fonti passeranno da una fetta di circa l’1% del consumo
globale nel 2008 al 4% nel 2035. Per raggiungere tale obiet-
tivo, però, sarà necessaria una «rivoluzione tecnologica» nella
progettazione di turbine, pannelli solari e sistemi di stoccaggio...
L’efficienza energetica, infine, ovvero la capacità di ottenere il
massimo risultato con il minimo consumo, farà sicuramente la
differenza. A vincere la nuova Guerra dei Trent’anni saranno
cioè quei Paesi in grado di sviluppare innovazioni nei trasporti,
nell’edilizia e nelle tecniche di produzione orientate al risparmio
energetico. A me piace scommettere sui sistemi «decentralizzati»,
più facili da installare e da gestire, alla stregua dei computer
portatili che usiamo oggi paragonati ai macchinoni degli anni
60 e 70. In questo senso le energie rinnovabili, più facilmente
spendibili a livello urbano e di quartiere, fanno meglio sperare
rispetto ai pesanti impianti nucleari e carboniferi. I Paesi che
riusciranno ad abbracciare questa visione arriveranno vincenti
nel 2041 e - visto lo stato in cui il nostro Pianeta verserà - appena
in tempo’. Ecco: credo di avervi citato i paragrafi piu’
importanti di questo articolo. Che ne pensate?”.
Una donna dell’eta’ di circa sessanta anni si era introdotta
nella stanza portando su un vassoio un servizio da tea che
aveva appoggiato su un basso tavolino posto tra i due. Ed era
sparita senza una parola.
“Posso servire io?” chiese Michael, ammaestrato dalla precedente
esperienza con la bionda Olivia che lo aveva dopato
per un paio di ore.
“Con piacere”. Sorrise furbescamente il gran massone.
“Comunque potete stare tranquillo. Berrò prima di voi... ”.
E, sorbendo il tè dalla sua tazza, chiese di nuovo a Bardi:
“Che ne pensate?”.
“Se il rapporto citato della BP è corretto, i combustibili
fossili sono l’80 per cento delle fonti energetiche. Quanto
alle rinnovabili esse rappresentano poco piu’ dell’uno per
cento e nella migliore ipotesi di un incremento nei prossimi
anni non si potrà arrivare che vicino al cinque per cento.
E del resto che si poteva aspettare da uno studio fatto da
uno dei maggiori protagonisti del settore petrolifero e della
raffinazione? Ritengo invece che la percentuale delle alternative
possa diventare molto più consistente. Tutto dipende
da quante risorse si vorranno dedicare al perfezionamento di
queste tecnologie e quale potrà essere lo spazio che il mondo
politico, a cominciare dall’America, sarà disposto a creare intorno
alle proprie decisioni, sempre che riesca a limitare l’influenza
delle aziende petrolifere che, quanto a lobby, sanno
come spendere il loro denaro. Del resto nonostante il perdurare
della crisi economica che affligge non solo l’America, ma
la maggior parte dei paesi industrializzati e in via di sviluppo,
è su questo terreno che si misureranno i ‘visionari’ come il
presidente degli USA e i conservatori”.
Michael aveva terminato il suo intervento, tenuto con un
tono soffice ma deciso.
Cardoni ascoltava lisciandosi di tanto in tanto la gran barba.
A questo punto arrivò a Michael la domanda frontale:
“Ma voi, fratello Bardi, da che parte volete stare?”.
“Secondo voi, da che parte dovrei stare, con tutto il dovuto
rispetto?”.
“Dalla parte di chi ragiona in termini di realismo. Lo sviluppo
e potenziamento delle alternative (che, lo ripeto, devono
essere considerate complementari al fossile finchè vi
sara’ la possibilità di estrarlo a sufficienza per far fronte alla
crescente domanda di energia) è un sogno che nasce da un
desiderio. Il presidente degli Stati Uniti vi si è buttato con un
impeto che gli fa onore. Ma sarebbe meglio se si dedicasse a
tutelare la propria immagine perchè le notizie che abbiamo
non sono certo incoraggianti per l’uomo più potente del Pianeta”.
Altra occhiata insistita a Michael del tipo : “A buon intenditor...”.
Il viso dell’ex Navy SEAL era di pietra e non tradiva alcun
sentimento o reazione.
Cardoni andava avanti: “Eccoci arrivati al punto: volete
lavorare per noi e con noi? Le soddisfazioni economiche saranno
di tutto rilievo credetemi. Vi chiediamo solo di capire
che la nostra causa non ha niente di antistorico. Noi
ci rendiamo conto che ogni azione che sia volta a turbare
questo equilibrio sia pure instabile dell’approvvigionamento
delle fonti energetiche potrà portare nel breve giro di qualche
anno a una deflagrazione mondiale con conseguenze terribili
per tutta l’umanità. Del resto voi sapete bene che il club
dei possessori dell’arma nucleare si è allargato a Iran, Israele,
Venezuela. Senza tenere conto del solito Pakistan e India. Armageddon
può essere vicino”.
Toccava a Michael che si sentiva chiuso in un angolo. Ringraziamenti
sentiti e di prammatica. Promessa che avrebbe
riflettuto a fondo sulla offerta che gli faceva onore. Restava
in attesa di ricevere una proposta scritta e, come detto, irrinunciabile,
dato che al momento stava gestendo alcune consulenze
di livello internazionale che lo stavano assorbendo
molto. E si alzò.
Cardoni sorridendo dentro la barba lo accompagnò alla
porta e prima di salutarlo aggiunse:
“Giovane fratello Bardi, al momento questo nostro incontro
non è mai avvenuto. Ricordate che noi del Rock decidiamo
e operiamo in ogni continente. Se permettete il suggerimento
di un anziano fratello, controllate la vostra istintività
e date spazio al ragionamento”.
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(Ogni riferimento a fatti realmente accaduti e/o a persone realmente
esistenti o esistite è da ritenersi puramente casuale.
Any resemblance to real events and/or to real persons, living or dead, is
purely coincidental)
barba grigia e lunghi capelli, di nero vestito, nonostante il
caldo incipiente. Camicia bianca, cravatta nera, polsini con
gemelli d’oro con l’immagine della squadra e del compasso.
“Fratello Michael, bene arrivato. Posso chiamarvi così visto
che anche voi appartenete alla grande Istituzione?”.
Bardi, atteggiò il viso a un sorriso di circostanza e sedette
nella poltrona che gli veniva indicata. Dalla finestra una brezza
rinfrescante muoveva le tende.
“Prego, gran maestro Cardoni”, rispose Michael.
“Vedete, continuò l’anziano interlocutore usando il ‘voi’
massonico italiano anzichè il tu o il lei, “Non è stato facile
rintracciarvi. Ma ci siamo riusciti”.
“Una domanda personale”, chiese, “di cui mi dovete scusare:
lavorate ancora per la Smithson & Bradley Law Firm di
Washington?”.
“Non più. Abbiamo trovato una soluzione consensuale”.
“Che vi avrà portato sicuramente dei vantaggi economici,
immagino”.
“So curare abbastanza bene i miei interessi. Del resto vi
erano delle divergenze sulle metodiche da adottare”.
Cardoni increspò la gran barba in una risata repressa: “Alludete
alla eliminazione o cancellazione di certe testimonianze
pericolose?”.
Michael fece finta di non avere sentito.
“Opportuno il vostro silenzio”, proseguì Cardoni. “Per
non farvi perdere troppo tempo desidero disegnare con voi
uno scenario. Anni fa ho deciso di dar vita a un’organizzazione
‘The Rock’. Tutte cose che conoscete bene. Ma voglio
darvi una testimonianza personale del mio agire.
Vedete, giovane fratello Michael. Voi appartenete ad
esempio a una loggia che risponde all’Obbedienza della Gran
Loggia di Washington DC. Tanto di cappello per le logge
bilingue di Washington. Guardando da vicino la composizione
dei membri della Massoneria americana devo dire che
la presenza di persone semplici mi fa gioire perchè significa
che il Craft svolge una grande funzione nella società.
Ma poi sorge la domanda: può un’Istituzione come la
Massoneria vivere sulla presenza di gente semplice, tassisti
piuttosto che operai e artigiani? Se noi siamo chiamati a recitare
e svolgere il nostro ruolo di testa di ponte nella società,
se noi massoni ci diciamo spesso che dobbiamo abbassare i
ponti levatoi e ritornare a giocare un ruolo attivo di presenza
e di simbolico punto di riferimento per i disorientati profani
dai quali siamo circondati, bene: se questo è vero, come è
vero, dobbiamo esercitare la nostra influenza con uomini che
siano il meglio della selezione civile.
E guardate: parlo non solo per voi americani. Il discorso
vale per tutti a cominciare dalle varie obbedienze che ci sono
in Italia”.
Michael non si sentiva a suo agio. L’attempato massone
aveva iniziato una liturgia che non riusciva a capire dove volesse
andare a parare. Un personaggio molto criticato per le
sue azioni passate da molti giudicate all’insegna dell’ accrescimento
del proprio potere personale. Non certo una dimostrazione
di tolleranza, il principio ispiratore della Massoneria
universale.
“Ecco perchè ho lasciato ogni Gran Loggia e ho deciso di
dedicarmi alla Rock di cui possono far parte anche le donne.
Ed è quanto è avvenuto venti anni fa nel Rotary International
dove l’appartenenza è determinata non dal sesso ma dai
successi personali e professionali della Persona in quanto tale.
Le nostre riunioni sono al massimo livello e accolgono i veri
potenti. Quelli che decidono le sorti del mondo”.
Michael osservava l’ostentata eccitazione che aveva colto il
suo ospite mentre parlava.
“Sono sicuro che volete chiedermi di che parliamo nei
nostri incontri”. Cardoni era un fiume in piena. “I temi su
cui ci misuriamo sono quelli classici: rapporti di forza tra
le nazioni, le politiche delle multinazionali, e, soprattutto
l’energia. Che succederà a livello globale per far fronte alla
crescente domanda di energia incentivata dall’ingresso nell’arena
mondiale dei cosiddetti paesi emergenti che ormai sono
emersi del tutto?”.
“Ha dimenticato l’acqua... ”, aggiunse Michael rendendosi
conto che in qualche modo doveva interloquire. “E poi,
senza offesa: si tratta di temi sui quali si arrovellano le menti
di scienziati, politici, economisti, sociologi di tutto il mondo...”.
Sorriso di impercettibile compatimento seminascosto dalla
barba risorgimentale.
“Giovane fratello americano. Quello che voi dite è giusto.
Tutti parlano di questi temi. L’unica differenza con altri clubs
famosi, tipo il Bilderberg o lo Aspen Institute, è che noi parliamo,
esaminiamo, ma soprattutto decidiamo e operiamo”.
Quel ‘decidiamo e operiamo’ fu pronunciato quasi sibilando
guardando direttamente negli occhi Michael Bardi. Il
vecchio ex gran maestro stava recitando un copione che era
ancora alle prime battute. Adesso sarebbe entrato a gamba
tesa a esporre in dettaglio quello che aveva in corpo. La ragione
stessa per cui aveva convocato il giovane ex marine.
“Decidiamo e operiamo”, ripetè. “A proposito del problema
dei problemi, ovvero l’energia che ne sapete?”.
“Quello che si legge su tutti i giornali e riviste specializzate:
bisogna puntare sulle energie alternative”.
“A parte che non sono alternative ma complementari, non
si riuscirà ancora per un paio di decenni almeno a scalfire
l’importanza dei combustibili fossili”.
“Si vanno esaurendo”, disse Bardi.
“Lo sostenevano anche quei menagramo del Club di
Roma negli anni ‘50. La scoperta di nuovi giacimenti e le
tecnologie che consentono trivellazioni ad alta profondità
hanno, almeno per il momento, allungato molto la vita del
fossile. Sentite: non voglio sembrare più pedante di quanto
sono per natura, ma chiedo la vostra pazienza nell’ascoltare
alcuni paragrafi di un articolo scritto dal professore Michael
T. Klare”.
Si alzò e presi dei fogli che aveva preparato su un tavolino
vicino alla poltrona, iniziò a leggere.
“Da qui al 2040 petrolio e carbone andranno in crisi. Chi saprà
sostituirli dominerà il mondo. Una guerra lunga trent’anni
per il controllo dell’energia? Nessuno se l’augurerebbe, neanche
in condizioni disperate. Ma purtroppo siamo arrivati a questo
punto e non c’è modo di tornare indietro. Secondo molti storici,
l’attuale assetto geopolitico degli Stati nazionali ha origine dal
trattato di Vestfalia che nel 1648 pose fine all’europea «Guerra
dei Trent’anni». Nei prossimi tre decenni, il Pianeta dovrà porre
le basi per un nuovo ordine, determinato dalla gestione energetica.
Non potremo così che imbarcarci in una nuova «Guerra
dei Trent’anni», meno sanguinosa ma altrettanto decisiva per
un semplice motivo: l’attuale sistema energetico non potrà soddisfare
il fabbisogno mondiale, e dovrà essere sostituito o integrato
da nuove energie utili a evitare un disastro ambientale
di proporzioni inimmaginabili. Saranno i vincitori di questa
guerra a decidere il modo in cui vivremo e lavoreremo, mentre i
perdenti saranno per sempre esclusi”. Che ne pensate, giovane
Michael?”.
Micheal Bardi si strinse nelle spalle.
“Prima di esprimere un giudizio mi farebbe piacere che
poteste continuare nella lettura dei passi che giudicate molto
significativi... ”.
“Vi accontento subito. ‘Durante questi anni a venire, mentre
si arriverà a sfruttare su scala industriale alcune delle nuove
energie oggi in via di sperimentazione, è probabile che l’uso di
risorse fortemente inquinanti, quali il petrolio e il carbone, cali
drasticamente. Le conseguenze economiche saranno di notevoli
proporzioni per i giganti del petrolio come BP (British Petroleum),
Chevron, ExxonMobil e Royal Dutch Shell, che saranno
costretti ad adottare nuovi modelli di mercato e ad affrontare
la sfida dei gruppi emergenti nel campo delle rinnovabili. E al
futuro di questi giganti è legato il destino delle nazioni, la cui
sicurezza dipende dal controllo dell’energia’. Mi sembrano considerazioni
di tutto rispetto... ”.
“E lo sono sicuramente”, rispose Michael, “Anche se non
so quanto influenzate da elementi esterni. Ho letto quell’articolo
e ricordo quanto affermato dal professor Michael T.Klare.
Secondo lui, cito a memoria, per comprendere la natura
del conflitto, si consideri che, secondo la Bp, nel 2010
il nostro Pianeta ha consumato 13,2 miliardi di tonnellate di
energia, di cui il 33,6% petrolifera, il 29,6% carbonifera, il
23,8% ricavata dal gas naturale, il 6,5% idroelettrica, il 5,2%
nucleare e solo l’1,3% proveniente da fonti rinnovabili. Ogni
tentativo di mantenere, di qui a 30 anni, queste proporzioni,
aumentando per di più la produzione energetica del 40%
per soddisfare il fabbisogno mondiale, è impossibile per due
cause: la scarsità di petrolio e il cambiamento climatico”.
Cardoni continuò a consultare i suoi fogli e citò ancora
altri paragrafi dell’articolo.
“Ma se petrolio e carbone sono destinati a perdere posizioni,
che cosa li sostituirà? Una soluzione di «transizione» potrebbe essere
il gas naturale, meno inquinante e che, grazie alle moderne
tecnologie di estrazione, si è rivelato più abbondante del previsto...
Quanto al nucleare, il disastro giapponese della centrale di
Fukushima ha spinto molti Paesi, quali l’Italia e la Svizzera, a
fare marcia indietro. Nonostante altri, come la Cina, proseguano
nel programma atomico civile, e gli entusiasti del nucleare
(incluso il Presidente statunitense) promuovano
lo sviluppo dei cosiddetti piccoli «impianti modulari» meno
inquinanti e più sicuri, è improbabile che sia questo il futuro
dell’energia. Si può invece affermare che nei prossimi 30 anni
il mondo ricorrerà al solare e all’eolico in misura significativamente
maggiore. Secondo l’Agenzia Internazionale dell’Energia,
queste due fonti passeranno da una fetta di circa l’1% del consumo
globale nel 2008 al 4% nel 2035. Per raggiungere tale obiet-
tivo, però, sarà necessaria una «rivoluzione tecnologica» nella
progettazione di turbine, pannelli solari e sistemi di stoccaggio...
L’efficienza energetica, infine, ovvero la capacità di ottenere il
massimo risultato con il minimo consumo, farà sicuramente la
differenza. A vincere la nuova Guerra dei Trent’anni saranno
cioè quei Paesi in grado di sviluppare innovazioni nei trasporti,
nell’edilizia e nelle tecniche di produzione orientate al risparmio
energetico. A me piace scommettere sui sistemi «decentralizzati»,
più facili da installare e da gestire, alla stregua dei computer
portatili che usiamo oggi paragonati ai macchinoni degli anni
60 e 70. In questo senso le energie rinnovabili, più facilmente
spendibili a livello urbano e di quartiere, fanno meglio sperare
rispetto ai pesanti impianti nucleari e carboniferi. I Paesi che
riusciranno ad abbracciare questa visione arriveranno vincenti
nel 2041 e - visto lo stato in cui il nostro Pianeta verserà - appena
in tempo’. Ecco: credo di avervi citato i paragrafi piu’
importanti di questo articolo. Che ne pensate?”.
Una donna dell’eta’ di circa sessanta anni si era introdotta
nella stanza portando su un vassoio un servizio da tea che
aveva appoggiato su un basso tavolino posto tra i due. Ed era
sparita senza una parola.
“Posso servire io?” chiese Michael, ammaestrato dalla precedente
esperienza con la bionda Olivia che lo aveva dopato
per un paio di ore.
“Con piacere”. Sorrise furbescamente il gran massone.
“Comunque potete stare tranquillo. Berrò prima di voi... ”.
E, sorbendo il tè dalla sua tazza, chiese di nuovo a Bardi:
“Che ne pensate?”.
“Se il rapporto citato della BP è corretto, i combustibili
fossili sono l’80 per cento delle fonti energetiche. Quanto
alle rinnovabili esse rappresentano poco piu’ dell’uno per
cento e nella migliore ipotesi di un incremento nei prossimi
anni non si potrà arrivare che vicino al cinque per cento.
E del resto che si poteva aspettare da uno studio fatto da
uno dei maggiori protagonisti del settore petrolifero e della
raffinazione? Ritengo invece che la percentuale delle alternative
possa diventare molto più consistente. Tutto dipende
da quante risorse si vorranno dedicare al perfezionamento di
queste tecnologie e quale potrà essere lo spazio che il mondo
politico, a cominciare dall’America, sarà disposto a creare intorno
alle proprie decisioni, sempre che riesca a limitare l’influenza
delle aziende petrolifere che, quanto a lobby, sanno
come spendere il loro denaro. Del resto nonostante il perdurare
della crisi economica che affligge non solo l’America, ma
la maggior parte dei paesi industrializzati e in via di sviluppo,
è su questo terreno che si misureranno i ‘visionari’ come il
presidente degli USA e i conservatori”.
Michael aveva terminato il suo intervento, tenuto con un
tono soffice ma deciso.
Cardoni ascoltava lisciandosi di tanto in tanto la gran barba.
A questo punto arrivò a Michael la domanda frontale:
“Ma voi, fratello Bardi, da che parte volete stare?”.
“Secondo voi, da che parte dovrei stare, con tutto il dovuto
rispetto?”.
“Dalla parte di chi ragiona in termini di realismo. Lo sviluppo
e potenziamento delle alternative (che, lo ripeto, devono
essere considerate complementari al fossile finchè vi
sara’ la possibilità di estrarlo a sufficienza per far fronte alla
crescente domanda di energia) è un sogno che nasce da un
desiderio. Il presidente degli Stati Uniti vi si è buttato con un
impeto che gli fa onore. Ma sarebbe meglio se si dedicasse a
tutelare la propria immagine perchè le notizie che abbiamo
non sono certo incoraggianti per l’uomo più potente del Pianeta”.
Altra occhiata insistita a Michael del tipo : “A buon intenditor...”.
Il viso dell’ex Navy SEAL era di pietra e non tradiva alcun
sentimento o reazione.
Cardoni andava avanti: “Eccoci arrivati al punto: volete
lavorare per noi e con noi? Le soddisfazioni economiche saranno
di tutto rilievo credetemi. Vi chiediamo solo di capire
che la nostra causa non ha niente di antistorico. Noi
ci rendiamo conto che ogni azione che sia volta a turbare
questo equilibrio sia pure instabile dell’approvvigionamento
delle fonti energetiche potrà portare nel breve giro di qualche
anno a una deflagrazione mondiale con conseguenze terribili
per tutta l’umanità. Del resto voi sapete bene che il club
dei possessori dell’arma nucleare si è allargato a Iran, Israele,
Venezuela. Senza tenere conto del solito Pakistan e India. Armageddon
può essere vicino”.
Toccava a Michael che si sentiva chiuso in un angolo. Ringraziamenti
sentiti e di prammatica. Promessa che avrebbe
riflettuto a fondo sulla offerta che gli faceva onore. Restava
in attesa di ricevere una proposta scritta e, come detto, irrinunciabile,
dato che al momento stava gestendo alcune consulenze
di livello internazionale che lo stavano assorbendo
molto. E si alzò.
Cardoni sorridendo dentro la barba lo accompagnò alla
porta e prima di salutarlo aggiunse:
“Giovane fratello Bardi, al momento questo nostro incontro
non è mai avvenuto. Ricordate che noi del Rock decidiamo
e operiamo in ogni continente. Se permettete il suggerimento
di un anziano fratello, controllate la vostra istintività
e date spazio al ragionamento”.
______________________________________________
(Ogni riferimento a fatti realmente accaduti e/o a persone realmente
esistenti o esistite è da ritenersi puramente casuale.
Any resemblance to real events and/or to real persons, living or dead, is
purely coincidental)
lunedì 10 novembre 2014
W.D.C sotto traccia - Capitolo 6
Prima del controllo passaporti Michael Bardi tirò fuori
dalla borsa il passaporto italiano evitando la lunga fila dei
non residenti nella European Union. Sguardo annoiato della
poliziotta al suo documento che venne restituito con un gesto
di grande fatica.
Michael non doveva ritirare alcun bagaglio perchè aveva
tutto con sè. Ascensore sino al secondo piano e poi i corridoi
dove il pavimento di gomma si stava disintegrando. Ogni
tanto qualche macchia d’acqua dovuta a infiltrazioni.
L’aeroporto di Fiumicino faceva proprio schifo se paragonato
ad altri scali. Bastava pensare al nuovo di New Delhi per
non parlare di quello di Singapore.
Finalmente imboccò il tunnel che portava al noleggio
macchine. Attesa in fila alla Hertz e poi verso il parcheggio
del quarto piano. Gli era toccata una nuova Fiesta della Ford,
auto che stava vendendo molto in Europa.
Michael salì nella vettura, aggiustò gli specchietti, il sedile
alla sua altezza che non era certo quella di un normale italiano
e si immise nella rampa elicoidale che portava fuori del
parcheggio.
Prima di raggiungere l’autostrada per Roma una pattuglia
della finanza gli intimò di fermarsi. Abbassò il vetro. “Patente
e libretto!”, ingiunse il finanziere.
Michael estrasse la sua patente internazionale e cercò nel
cassetto porta oggetti i documenti della macchina in affitto.
I finanzieri chiesero di vedere cosa portava nel bagaglio. Michael
scese, aprì il carry-on. All’interno il distintivo dei Navy
Seal. “Ma questi sono i SEALS. Lei fa parte del Corpo?” chiese
interessato uno dei militari. “Ne facevo parte sino a poco
tempo fa”, rispose Michael. Il finanziere visibilmente toccato
chiamò il collega perchè venisse a vedere. Poi si irrigidirono
sull’attenti e salutarono.
Michael riprese a guidare verso Roma. Si era immesso nel
Grande Raccordo Anulare. Il limite di velocità era 90 chilometri
all’ora. Ma nessuno lo rispettava. Michael decise di
guidare all’italiana seguendo il vecchio proverbio che sostiene:
“When in Rome, do as Romans do”.
Prese l’uscita per la Cassia Veientana-Viterbo, la cosiddetta
Cassia Bis. Quando si presentò il cartello ‘Formello – Olgiata’
Michael uscì dalla Cassia Bis. Dopo tre km sulla destra
ecco il cancello dell’entrata nord dell’Olgiata.
“Da chi va?” chiese uno dei vigilantes della security:
“Ristorante Ribot”, fu la risposta. La guardia porse a Michael
Bardi una cartina indicando il percorso. “Segua comunque
la strada ‘B’. Non puo’ sbagliare”. Gli suggerì la guardia.
Il comprensorio dell’Olgiata si estendeva per oltre 600
ettari a nord est di Roma. Era inserito nel territorio che apparteneva
alla città etrusca di Veio. A poca distanza il castello
della famiglia Orsini. L’Olgiata era passata alle cronache negli
anni ‘60 per l’allevamento di cavalli da corsa Dormello Olgiata.
Il loro maggiore successo era stato il destriero Ribot vincitore
di numerosi gran premi internazionali e poi messo in
selezione nelle stalle successivamente trasformate in appartamenti
di prestigio.
Michael seguiva le indicazioni dategli all’ingresso nord e
si fermava ogni volta di fronte ai dossi messi per ridurre la
velocità e la pericolosità dei veicoli.
Si limitava a superare i dossi a velocità zero mentre dietro
di lui un potente crossover Mercedes sfanalava e suonava
a ripetizione perchè lui andava troppo piano. Finalmente
il mezzo imponente guidato da una bionda lo superò con
ostentazione del dito medio dal finestrino a titolo di benvenuto
all’Olgiata.
Michael arrivò al ristorante Ribot ricavato in una delle
stalle dell’allevamento dell’ex super campione. Ma erano le
11 del mattino e il ristorante era chiuso.
Squillò il cellulare 4G di Bardi. E una voce nasale, come
se parlasse in falsetto gli disse di passare attraverso il cancello
verde posto accanto al bar Ribot. Michael si trovò in un
ampio giardino con un abbeveratoio in pietra nel centro, circondato
dagli appartamenti che pochi fortunati erano riusciti
a acquistare quando la proprietà Dormello-Olgiata aveva
messo in vendita le stalle.
Una finestra sulla costruzione a destra di fronte a lui si aprì
e un personaggio agitando la mano lo invitò a salire la scala
che conduceva all’appartamento situato al primo piano.
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(Ogni riferimento a fatti realmente accaduti e/o a persone realmente
esistenti o esistite è da ritenersi puramente casuale.
Any resemblance to real events and/or to real persons, living or dead, is
purely coincidental)
dalla borsa il passaporto italiano evitando la lunga fila dei
non residenti nella European Union. Sguardo annoiato della
poliziotta al suo documento che venne restituito con un gesto
di grande fatica.
Michael non doveva ritirare alcun bagaglio perchè aveva
tutto con sè. Ascensore sino al secondo piano e poi i corridoi
dove il pavimento di gomma si stava disintegrando. Ogni
tanto qualche macchia d’acqua dovuta a infiltrazioni.
L’aeroporto di Fiumicino faceva proprio schifo se paragonato
ad altri scali. Bastava pensare al nuovo di New Delhi per
non parlare di quello di Singapore.
Finalmente imboccò il tunnel che portava al noleggio
macchine. Attesa in fila alla Hertz e poi verso il parcheggio
del quarto piano. Gli era toccata una nuova Fiesta della Ford,
auto che stava vendendo molto in Europa.
Michael salì nella vettura, aggiustò gli specchietti, il sedile
alla sua altezza che non era certo quella di un normale italiano
e si immise nella rampa elicoidale che portava fuori del
parcheggio.
Prima di raggiungere l’autostrada per Roma una pattuglia
della finanza gli intimò di fermarsi. Abbassò il vetro. “Patente
e libretto!”, ingiunse il finanziere.
Michael estrasse la sua patente internazionale e cercò nel
cassetto porta oggetti i documenti della macchina in affitto.
I finanzieri chiesero di vedere cosa portava nel bagaglio. Michael
scese, aprì il carry-on. All’interno il distintivo dei Navy
Seal. “Ma questi sono i SEALS. Lei fa parte del Corpo?” chiese
interessato uno dei militari. “Ne facevo parte sino a poco
tempo fa”, rispose Michael. Il finanziere visibilmente toccato
chiamò il collega perchè venisse a vedere. Poi si irrigidirono
sull’attenti e salutarono.
Michael riprese a guidare verso Roma. Si era immesso nel
Grande Raccordo Anulare. Il limite di velocità era 90 chilometri
all’ora. Ma nessuno lo rispettava. Michael decise di
guidare all’italiana seguendo il vecchio proverbio che sostiene:
“When in Rome, do as Romans do”.
Prese l’uscita per la Cassia Veientana-Viterbo, la cosiddetta
Cassia Bis. Quando si presentò il cartello ‘Formello – Olgiata’
Michael uscì dalla Cassia Bis. Dopo tre km sulla destra
ecco il cancello dell’entrata nord dell’Olgiata.
“Da chi va?” chiese uno dei vigilantes della security:
“Ristorante Ribot”, fu la risposta. La guardia porse a Michael
Bardi una cartina indicando il percorso. “Segua comunque
la strada ‘B’. Non puo’ sbagliare”. Gli suggerì la guardia.
Il comprensorio dell’Olgiata si estendeva per oltre 600
ettari a nord est di Roma. Era inserito nel territorio che apparteneva
alla città etrusca di Veio. A poca distanza il castello
della famiglia Orsini. L’Olgiata era passata alle cronache negli
anni ‘60 per l’allevamento di cavalli da corsa Dormello Olgiata.
Il loro maggiore successo era stato il destriero Ribot vincitore
di numerosi gran premi internazionali e poi messo in
selezione nelle stalle successivamente trasformate in appartamenti
di prestigio.
Michael seguiva le indicazioni dategli all’ingresso nord e
si fermava ogni volta di fronte ai dossi messi per ridurre la
velocità e la pericolosità dei veicoli.
Si limitava a superare i dossi a velocità zero mentre dietro
di lui un potente crossover Mercedes sfanalava e suonava
a ripetizione perchè lui andava troppo piano. Finalmente
il mezzo imponente guidato da una bionda lo superò con
ostentazione del dito medio dal finestrino a titolo di benvenuto
all’Olgiata.
Michael arrivò al ristorante Ribot ricavato in una delle
stalle dell’allevamento dell’ex super campione. Ma erano le
11 del mattino e il ristorante era chiuso.
Squillò il cellulare 4G di Bardi. E una voce nasale, come
se parlasse in falsetto gli disse di passare attraverso il cancello
verde posto accanto al bar Ribot. Michael si trovò in un
ampio giardino con un abbeveratoio in pietra nel centro, circondato
dagli appartamenti che pochi fortunati erano riusciti
a acquistare quando la proprietà Dormello-Olgiata aveva
messo in vendita le stalle.
Una finestra sulla costruzione a destra di fronte a lui si aprì
e un personaggio agitando la mano lo invitò a salire la scala
che conduceva all’appartamento situato al primo piano.
_______________________________________
(Ogni riferimento a fatti realmente accaduti e/o a persone realmente
esistenti o esistite è da ritenersi puramente casuale.
Any resemblance to real events and/or to real persons, living or dead, is
purely coincidental)
sabato 8 novembre 2014
W.D.C sotto traccia - Capitolo 5
Michael Bardi raccolse scarpe, giacca e cintura dal vassoio
celeste che usciva dal metal detector. Attese che uscisse anche
il secondo vassoio con il computer, portafoglio e cellulare. Si
era già sottoposto al tanto criticato body scanning. Ma con
tutti i fondamentalisti pronti a far saltare un aereo infilandosi
nei pertugi corporali armi ed esplosivi quello era l’unico
modo per scoprirli.
Aveva dovuto attendere che una donna prima di lui passasse
con un gatto enorme che aveva dovuto tirare fuori dalla
valigetta traforata. Il gatto non ne voleva sapere di stare in
braccio alla padrona che alla fine, quando era riuscita a superare
il valico magnetico, grondava sangue per i graffi che il
felino le aveva inferto. Che belli gli animali domestici, pensò.
Del resto se uno non ha niente di meglio su cui riversare il
proprio affetto e la solitudine.
Michael Bardi, si diresse verso la zona pedonale che conduceva
al treno che portava ai terminal. Finalmente al Dulles
Airport avevano completato il pluriennale progetto di ampliamento
e di sostituzione degli shuttles, quegli strani veicoli
che si alzavano e abbassavano e conducevano i passeggeri alle
partenze delle aerolinee.
Il convoglio si fermò e Bardi salì inseme ad altre decine di
persone che trascinavano carry-on e borse a tracolla. Al gate
della United volo 966 per Roma si mise in fila per passare sul
red carpet perchè i passeggeri di prima e business stavano per
essere imbarcati.
Una volta a bordo, trovato il suo posto vicino al corridoio,
s’immerse nella lettura di alcune carte che aveva estratto dalla
borsa del computer. La cuffia antirumore della Bose riusciva
a eliminare il 90 per cento del ruggito dei motori in partenza
sulla pista.
Sintonizzò l’auricolare su un programma di musica classica
tra quelli offerti dalla compagnia aerea. Tra circa otto
ore e spiccioli sarebbero atterrati a Roma, FCO, aeroporto
Leonardo da Vinci di Fiumicino.
Il Boeing 777 aveva ormai raggiunto quota e stava dirigendosi
verso nord est per iniziare la traversata transatlantica.
Michael Bardi abbassò la spalliera della sua poltrona non senza
aver prima dato un’occhiata dietro per vedere se in qualche
modo poteva recare disturbo alla persona che stava dietro di
lui.
E il suo sguardo incontrò quello di un’avvenente brunetta
che ricambiò l’occhiata di ammirazione che lui aveva lanciato
alle lunghe gambe che fuoriuscivano da una mini-mini
gonna.
Michael sospirò sorridendo tra sè e si mise a pensare ai fatti
suoi. Non aveva voglia di continuare a leggere. La mente e
il ricordo vagavano alla ricerca degli episodi significativi della
sua giovane vita.
La tragica morte del padre in un incidente d’auto mentre
percorreva il Passo dello Stelvio. Forse ad andatura eccessiva.
Ma papà amava andare forte e aveva frequentato anche qualche
corso di guida veloce.
Lui, Michael, aveva appreso la notizia della scomparsa del
padre quando era in collegio a Saint Morritz e stava per dare
la maturità. A informarlo era stata la mamma che gli aveva
telefonato piangendo. Ma sull’intensità di quel dolore aveva
sempre espresso qualche dubbio.
Il rapporto tra i genitori si era logorato da tempo, complice
l’attività industriale che portava suo padre in giro per il
mondo a installare impianti in paesi emergenti. E complice il
fatto che sua madre, un’americana di Los Angeles trapiantata
in Italia, era una bella donna, ormai disperatamente occupata
a mantenere la sua grazia muliebre che suscitava ondate di
desiderio nei maschi del tennis club che frequentava assiduamente
a Milano.
Poi, dopo meno di un anno dalla morte del padre si era
sposata di nuovo con un vecchio amore di gioventù che comunque
godeva di un patrimonio di tutto rispetto ereditato
dai genitori e che si ingegnava a dissipare con una costanza
degna di nota.
Mamma... no: chiamarla mamma era forse troppo. Madre,
sì, madre biologica. Utero nel quale si era formato per
nove mesi. E poi la sua infanzia era stata punteggiata solo
dall’affetto delle tate che si erano avvicendate nel farlo crescere,
asciugare le lacrime delle sue bizze, cercare di riempire
il vuoto causato dalla assenza istituzionalizzata di mammina,
sempre impegnata in eventi, mostre, concerti, parties, settimane
bianche, gare di tennis, sedute di burraco e via citando.
Dopo il liceo e la maturità con il massimo dei voti, il passaggio
all’università. London School of Economics e anche
lì risultati brillanti, amorazzi con quelle ragazze che Michael
selezionava tra le molte in adorazione perenne. E risultati negli sport, s
oprattutto in quelli individuali come il tennis e le
arti marziali dove eccelleva. Cintura nera di Judo e terzo Dan
di Karate full contact.
Quasi due metri di altezza, zazzera di capelli biondi ondulati.
Lo studio della musica fatto in Svizzera gli aveva consentito
di innamorarsi della chitarra classica. E si negava con
decisione quando i soliti festaioli gli chiedevano di portare lo
strumento per animare qualche festicciola. “Non ho il repertorio
adatto”, rispondeva con finta umiltà.
E infatti dopo l’ennesimo diniego gli amici e le amiche
avevano riversato la loro attenzione musicale su un collega
che cantava con una voce discreta eseguendo qualche accordo
sulla chitarra.
Dopo Londra gli avevano offerto una posizione interessante
a Montreal in una azienda specializzata nel settore difesa.
Nel frattempo, tanto per far passare il tempo, si era immerso
nello studio dell’arabo, lingua che andava ad aggiungersi a
quelle che aveva praticato perfettamente in Svizzera: italiano,
inglese, francese, tedesco e anche un pò di spagnolo visto che
c’era. Si riteneva fortunato perché il suo talento musicale lo
agevolava molto nell’apprendimento degli idiomi.
Oltre al passaporto italiano e a quello svizzero gli avevano
procurato anche quello canadese. Quasi glielo avevano imposto
i suoi capi che sapevano bene come si utilizzavano certe
scorciatoie ministeriali.
Una sera mentre con la ragazza di turno bevevano in un
pub era stato avvicinato al bancone del bar da un tale in abito
scuro che gli aveva chiesto di passargli la coppa di legno con
le noccioline. E nel frattempo gli aveva dato un biglietto.
Poi se n’era andato dopo avere bevuto un sorso di birra.
Michael aveva chiesto scusa alla ragazza perchè doveva recarsi
al bagno. Quella birra aveva effetti idraulici molto potenti.
“Mi raccomando: trattamelo bene”. Aveva detto la spudorata.
Vicino ad altri che pisciavano litri e scoreggiavano alla
grande correndo il pericolo di farsela addosso, Michael mentre
mingeva si mise a leggere il biglietto. Vi era scritto solo
un indirizzo a lettere maiuscole, la data e l’ora dell’incontro.
L’aereo era entrato ora in una zona di forte turbolenza
annunciata dal comandante con invito a tenere allacciata la
cintura. Il servizio di ristorazione era stato sospeso e anche
gli assistenti di bordo si erano messi a sedere, cercando di
nascondere con volti quasi impassibili la preoccupazione per
l’agitarsi dell’aereo.
E Michael si chiese perchè il comandante non avesse scelto
di modificare la rotta quando gli strumenti gli avevano
segnalato la forte turbolenza.
Dopo venti minuti ‘il gran ballo’ si attenuò fino a cessare e
il servizio riprese in mezzo al sollievo dei passeggeri.
Lo steward assegnato alla sua sezione era un evidente omosessuale,
tutto mossette. Si avvicinò a Michael chiedendo
cosa sceglieva nel menu. Michael aveva poca fame e si orientò
per la cernia al forno.
Era la volta della ragazza dalla superminigonna nella poltrona
dietro Michael. Scelse il filetto. “Come vuole la carne?’
chiese lo steward. “Deep inside!” fu la risposta squillante della
gentildonna fatta perchè Michael sentisse.
“Meglio fare la parte dello stupido, prima che lei decida di
cambiare posto venendo accanto a me”, pensò Bardi.
Lo steward venne a ritirare il vassoio e non tralasciò occasione
per incidentalmente strofinarsi al giovane biondo.
“Decisamente questo è il mio giorno”, commentò Michael.
La stessa frase detta a Montreal quando si era recato al
305 di Rue de la Commune. Aveva suonato il campanello
corrispondente al nome di una società. Il portone si era aperto
cigolando e Michael Bardi si era trovato all’interno di un
cortile di un condominio ricavato da un vecchio magazzino
di raccolta e spedizione dei cereali.
“Salve, Mr. Bardi. Venga pure dentro”. Il giovane gigante
biondo, capelli rasati da GI, spalle possenti in un abito nero,
scarpe nere di vernice tipo soldati che fanno il cambio della
guardia al Milite Ignoto nel cimitero di Arlington, gli aveva
sorriso a sessantaquattro denti.
Michael era entrato in un appartamento adibito a ufficio.
Dietro una scrivania Ikea un altro gigante sui quaranta
e oltre. Volto scavato dalle rughe e abbronzatura permanente
tipica di uno che passa la sua vita in zone desertiche. O ai
Caraibi, va a sapere.
“Grazie, Mr. Bardi di avere accettato il nostro invito un
pò singolare. Sono il colonnello Bradford dei US Navy Seals.
La stiamo seguendo da qualche anno e dobbiamo ammettere
che sino a ora lei si è molto distinto sia negli studi che nell’attività
professionale e sportiva”.
E così Michael si era trovato inserito nel prestigioso corpo
fondato nel 1962 e da sempre adibito al compimento di incarichi
speciali come eseguire azioni di ricognizione, di anti
terrorismo e di guerriglia non convenzionale per terra e per
mare. I SEAL di fatto potevano fare quello che gli pareva
in qualsiasi parte del globo pur di raggiungere gli obiettivi
prefissati in segreto nell’interesse degli Stati Uniti d’America.
Dopo un intenso training a Coronado, California e poi a
Little Creek in Virginia, Michael si era trovato subito impegnato
in operazioni all’estero. La scoperta del covo di Osama
Bin Laden e la sua uccisione era stata una missione alla quale
aveva partecipato? Segreto.
Otto del mattino successivo; il volo United 966 si preparava
ad atterrare a Fiumicino. Fuori tutta la ‘biancheria’ come
in gergo chiamano gli ipersostentatori e i flaps. Tempo piovoso
e pozze d’aqua sulla pista quando i carrelli toccarono.
Michael Bardi viaggiava solo con un carry-on e la borsa del
computer. Se aveva bisogno di ricambi li avrebbe comprati
nel paese dove stava arrivando. Ormai si trovava di tutto da
tutte le parti.
I passeggeri della business si avviarono verso la porta. Prima
di varcarla Michael sentì una mano che gli toccava il sedere
per poi salire sul suo fianco infilando nella tasca della
sua giacca un biglietto con numero di telefono. La brunetta
non demordeva.
celeste che usciva dal metal detector. Attese che uscisse anche
il secondo vassoio con il computer, portafoglio e cellulare. Si
era già sottoposto al tanto criticato body scanning. Ma con
tutti i fondamentalisti pronti a far saltare un aereo infilandosi
nei pertugi corporali armi ed esplosivi quello era l’unico
modo per scoprirli.
Aveva dovuto attendere che una donna prima di lui passasse
con un gatto enorme che aveva dovuto tirare fuori dalla
valigetta traforata. Il gatto non ne voleva sapere di stare in
braccio alla padrona che alla fine, quando era riuscita a superare
il valico magnetico, grondava sangue per i graffi che il
felino le aveva inferto. Che belli gli animali domestici, pensò.
Del resto se uno non ha niente di meglio su cui riversare il
proprio affetto e la solitudine.
Michael Bardi, si diresse verso la zona pedonale che conduceva
al treno che portava ai terminal. Finalmente al Dulles
Airport avevano completato il pluriennale progetto di ampliamento
e di sostituzione degli shuttles, quegli strani veicoli
che si alzavano e abbassavano e conducevano i passeggeri alle
partenze delle aerolinee.
Il convoglio si fermò e Bardi salì inseme ad altre decine di
persone che trascinavano carry-on e borse a tracolla. Al gate
della United volo 966 per Roma si mise in fila per passare sul
red carpet perchè i passeggeri di prima e business stavano per
essere imbarcati.
Una volta a bordo, trovato il suo posto vicino al corridoio,
s’immerse nella lettura di alcune carte che aveva estratto dalla
borsa del computer. La cuffia antirumore della Bose riusciva
a eliminare il 90 per cento del ruggito dei motori in partenza
sulla pista.
Sintonizzò l’auricolare su un programma di musica classica
tra quelli offerti dalla compagnia aerea. Tra circa otto
ore e spiccioli sarebbero atterrati a Roma, FCO, aeroporto
Leonardo da Vinci di Fiumicino.
Il Boeing 777 aveva ormai raggiunto quota e stava dirigendosi
verso nord est per iniziare la traversata transatlantica.
Michael Bardi abbassò la spalliera della sua poltrona non senza
aver prima dato un’occhiata dietro per vedere se in qualche
modo poteva recare disturbo alla persona che stava dietro di
lui.
E il suo sguardo incontrò quello di un’avvenente brunetta
che ricambiò l’occhiata di ammirazione che lui aveva lanciato
alle lunghe gambe che fuoriuscivano da una mini-mini
gonna.
Michael sospirò sorridendo tra sè e si mise a pensare ai fatti
suoi. Non aveva voglia di continuare a leggere. La mente e
il ricordo vagavano alla ricerca degli episodi significativi della
sua giovane vita.
La tragica morte del padre in un incidente d’auto mentre
percorreva il Passo dello Stelvio. Forse ad andatura eccessiva.
Ma papà amava andare forte e aveva frequentato anche qualche
corso di guida veloce.
Lui, Michael, aveva appreso la notizia della scomparsa del
padre quando era in collegio a Saint Morritz e stava per dare
la maturità. A informarlo era stata la mamma che gli aveva
telefonato piangendo. Ma sull’intensità di quel dolore aveva
sempre espresso qualche dubbio.
Il rapporto tra i genitori si era logorato da tempo, complice
l’attività industriale che portava suo padre in giro per il
mondo a installare impianti in paesi emergenti. E complice il
fatto che sua madre, un’americana di Los Angeles trapiantata
in Italia, era una bella donna, ormai disperatamente occupata
a mantenere la sua grazia muliebre che suscitava ondate di
desiderio nei maschi del tennis club che frequentava assiduamente
a Milano.
Poi, dopo meno di un anno dalla morte del padre si era
sposata di nuovo con un vecchio amore di gioventù che comunque
godeva di un patrimonio di tutto rispetto ereditato
dai genitori e che si ingegnava a dissipare con una costanza
degna di nota.
Mamma... no: chiamarla mamma era forse troppo. Madre,
sì, madre biologica. Utero nel quale si era formato per
nove mesi. E poi la sua infanzia era stata punteggiata solo
dall’affetto delle tate che si erano avvicendate nel farlo crescere,
asciugare le lacrime delle sue bizze, cercare di riempire
il vuoto causato dalla assenza istituzionalizzata di mammina,
sempre impegnata in eventi, mostre, concerti, parties, settimane
bianche, gare di tennis, sedute di burraco e via citando.
Dopo il liceo e la maturità con il massimo dei voti, il passaggio
all’università. London School of Economics e anche
lì risultati brillanti, amorazzi con quelle ragazze che Michael
selezionava tra le molte in adorazione perenne. E risultati negli sport, s
oprattutto in quelli individuali come il tennis e le
arti marziali dove eccelleva. Cintura nera di Judo e terzo Dan
di Karate full contact.
Quasi due metri di altezza, zazzera di capelli biondi ondulati.
Lo studio della musica fatto in Svizzera gli aveva consentito
di innamorarsi della chitarra classica. E si negava con
decisione quando i soliti festaioli gli chiedevano di portare lo
strumento per animare qualche festicciola. “Non ho il repertorio
adatto”, rispondeva con finta umiltà.
E infatti dopo l’ennesimo diniego gli amici e le amiche
avevano riversato la loro attenzione musicale su un collega
che cantava con una voce discreta eseguendo qualche accordo
sulla chitarra.
Dopo Londra gli avevano offerto una posizione interessante
a Montreal in una azienda specializzata nel settore difesa.
Nel frattempo, tanto per far passare il tempo, si era immerso
nello studio dell’arabo, lingua che andava ad aggiungersi a
quelle che aveva praticato perfettamente in Svizzera: italiano,
inglese, francese, tedesco e anche un pò di spagnolo visto che
c’era. Si riteneva fortunato perché il suo talento musicale lo
agevolava molto nell’apprendimento degli idiomi.
Oltre al passaporto italiano e a quello svizzero gli avevano
procurato anche quello canadese. Quasi glielo avevano imposto
i suoi capi che sapevano bene come si utilizzavano certe
scorciatoie ministeriali.
Una sera mentre con la ragazza di turno bevevano in un
pub era stato avvicinato al bancone del bar da un tale in abito
scuro che gli aveva chiesto di passargli la coppa di legno con
le noccioline. E nel frattempo gli aveva dato un biglietto.
Poi se n’era andato dopo avere bevuto un sorso di birra.
Michael aveva chiesto scusa alla ragazza perchè doveva recarsi
al bagno. Quella birra aveva effetti idraulici molto potenti.
“Mi raccomando: trattamelo bene”. Aveva detto la spudorata.
Vicino ad altri che pisciavano litri e scoreggiavano alla
grande correndo il pericolo di farsela addosso, Michael mentre
mingeva si mise a leggere il biglietto. Vi era scritto solo
un indirizzo a lettere maiuscole, la data e l’ora dell’incontro.
L’aereo era entrato ora in una zona di forte turbolenza
annunciata dal comandante con invito a tenere allacciata la
cintura. Il servizio di ristorazione era stato sospeso e anche
gli assistenti di bordo si erano messi a sedere, cercando di
nascondere con volti quasi impassibili la preoccupazione per
l’agitarsi dell’aereo.
E Michael si chiese perchè il comandante non avesse scelto
di modificare la rotta quando gli strumenti gli avevano
segnalato la forte turbolenza.
Dopo venti minuti ‘il gran ballo’ si attenuò fino a cessare e
il servizio riprese in mezzo al sollievo dei passeggeri.
Lo steward assegnato alla sua sezione era un evidente omosessuale,
tutto mossette. Si avvicinò a Michael chiedendo
cosa sceglieva nel menu. Michael aveva poca fame e si orientò
per la cernia al forno.
Era la volta della ragazza dalla superminigonna nella poltrona
dietro Michael. Scelse il filetto. “Come vuole la carne?’
chiese lo steward. “Deep inside!” fu la risposta squillante della
gentildonna fatta perchè Michael sentisse.
“Meglio fare la parte dello stupido, prima che lei decida di
cambiare posto venendo accanto a me”, pensò Bardi.
Lo steward venne a ritirare il vassoio e non tralasciò occasione
per incidentalmente strofinarsi al giovane biondo.
“Decisamente questo è il mio giorno”, commentò Michael.
La stessa frase detta a Montreal quando si era recato al
305 di Rue de la Commune. Aveva suonato il campanello
corrispondente al nome di una società. Il portone si era aperto
cigolando e Michael Bardi si era trovato all’interno di un
cortile di un condominio ricavato da un vecchio magazzino
di raccolta e spedizione dei cereali.
“Salve, Mr. Bardi. Venga pure dentro”. Il giovane gigante
biondo, capelli rasati da GI, spalle possenti in un abito nero,
scarpe nere di vernice tipo soldati che fanno il cambio della
guardia al Milite Ignoto nel cimitero di Arlington, gli aveva
sorriso a sessantaquattro denti.
Michael era entrato in un appartamento adibito a ufficio.
Dietro una scrivania Ikea un altro gigante sui quaranta
e oltre. Volto scavato dalle rughe e abbronzatura permanente
tipica di uno che passa la sua vita in zone desertiche. O ai
Caraibi, va a sapere.
“Grazie, Mr. Bardi di avere accettato il nostro invito un
pò singolare. Sono il colonnello Bradford dei US Navy Seals.
La stiamo seguendo da qualche anno e dobbiamo ammettere
che sino a ora lei si è molto distinto sia negli studi che nell’attività
professionale e sportiva”.
E così Michael si era trovato inserito nel prestigioso corpo
fondato nel 1962 e da sempre adibito al compimento di incarichi
speciali come eseguire azioni di ricognizione, di anti
terrorismo e di guerriglia non convenzionale per terra e per
mare. I SEAL di fatto potevano fare quello che gli pareva
in qualsiasi parte del globo pur di raggiungere gli obiettivi
prefissati in segreto nell’interesse degli Stati Uniti d’America.
Dopo un intenso training a Coronado, California e poi a
Little Creek in Virginia, Michael si era trovato subito impegnato
in operazioni all’estero. La scoperta del covo di Osama
Bin Laden e la sua uccisione era stata una missione alla quale
aveva partecipato? Segreto.
Otto del mattino successivo; il volo United 966 si preparava
ad atterrare a Fiumicino. Fuori tutta la ‘biancheria’ come
in gergo chiamano gli ipersostentatori e i flaps. Tempo piovoso
e pozze d’aqua sulla pista quando i carrelli toccarono.
Michael Bardi viaggiava solo con un carry-on e la borsa del
computer. Se aveva bisogno di ricambi li avrebbe comprati
nel paese dove stava arrivando. Ormai si trovava di tutto da
tutte le parti.
I passeggeri della business si avviarono verso la porta. Prima
di varcarla Michael sentì una mano che gli toccava il sedere
per poi salire sul suo fianco infilando nella tasca della
sua giacca un biglietto con numero di telefono. La brunetta
non demordeva.
martedì 4 novembre 2014
W.D.C sotto traccia - Capitolo 4
Andrew era un fratello sordomuto. Ma non completamente.
Leggeva bene le labbra quando ti guardava e rispondeva
con un parlare gutturale. Andrew era stato curato sin da
ragazzo nella clinica per bambini disabili nell’udito e nella
parola annessa allo Scottish Rite Center.
Tutte le spese sia per i medici che per i degenti nonché
i familiari che li assistono sono a carico del Rito Scozzese.
In America ogni giorno i massoni tirano fuori dalle tasche
milioni di dollari con i quali finanziano e gestiscono 23
cliniche distribuite nelle principali città della nazione-continente.
In questi ospedali si accolgono bambini e ragazzi fino ai
diciotto anni affetti da gravi problemi ortopedici e spinali,
oltre che grandi ustionati.
Andrew era il janitor, il tuttofare, dello Scottish Rite Center.
A lui spettavano le pulizie dei vari ambienti e della sala
da ballo dopo che vi si erano tenuti degli eventi a conclusione
di cerimonie che erano state allestite nell’auditorium o nei
templi.
Andrew lavorava duro, ma aveva anche qualche piccola
soddisfazione personale. Alla fine dei banchetti si portava a
casa borse di cibo che non era stato toccato e bottiglie di vino
nel quale poteva annegare le rinuncie della vita di scapolo
forzato, perché le donne che gli piacevano lo scansavano per
il fatto che aveva dei problemi fisici. E poi qualche bottiglia
se la rivendeva pure.
Quella sera il fratello Andrew era parecchio arrabbiato: il
Grand Commander e il General Secretary del Centro gli avevano
imposto di cercare un tale, arabo di nome Habib Fareh,
che sembrava si fosse introdotto con false attestazioni nell’edificio,
approfittando dell’ingenuità dei giovani assistenti
messi al controllo dei visitatori che lo avevano fatto passare.
“Ma chi ci mettono in questi posti di responsabilità?”,
mugugnava tra sé Andrew.
“Io devo fare solo lavori di merda, con paga di merda e
trattamento di merda. Mi prendono a calci in culo, solo perché
sono quello che sono e devo vivere della loro carità”.
Così gorgogliava il sordomuto mentre con una scopa spazzava
il pavimento della ball room, raccogliendo bottigliette e
cartacce. “Anche tra i massoni ci sono tanti ‘pigs’, maiali. Ma
non potrebbero insegnargli come ci si comporta oltre a fargli
imparare a memoria i rituali?”.
La scomparsa del presunto libanese aveva gettato un grande
scompiglio nell’organizzazione del Brotherhood Week
End. Anche se i dirigenti del Centro avevano imposto di non
creare allarmismo tra i tanti partecipanti alla cerimonia.
Bisognava cercare senza dare nell’occhio. E avevano cercato,
cercato, per ore in tutti gli ambienti. Ma dell’arabo nessuna
traccia. La ricerca non era stata facile.
Uffici di segreteria e dei dirigenti, sale riunioni, il piccolo
tempio con annesso spogliatoio e l’ex barberia (dotata anco-
ra di bellissime poltrone rivestite in pelle dei primi anni del
‘900). Il grande tempio al secondo piano con la sala biliardi,
la sala dei passi perduti. I bagni e i salottini per le ladies in
visita ai mariti.
La grande cucina dotata di frigoriferi industriali e di ogni
attrezzatura per preparare pranzi per centinaia di persone.
Avevano cercato nell’auditorium, anche tra le file delle poltrone
e soprattutto dietro il palcoscenico dove erano le attrezzature
teatrali e dove nascondersi sarebbe stato abbastanza
facile. Con le potenti lampade a batteria avevano ispezionato
in alto tutti i movimenti di scena, le nicchie dei cordami, le
quinte raggruppate da una parte. Nulla: del libanese neanche
una traccia.
E avevano concluso che, quando si era visto oggetto di
troppa attenzione, l’arabo era sgattaiolato uscendo indisturbato
dalla porta dell’ingresso secondario da cui era entrato
all’inizio della manifestazione. Inutile domandare a quelli
che stazionavano fuori della porta a fumarsi l’ennesima sigaretta.
Nessuno lo conosceva e lo aveva visto. Salvo quelli all’inizio
che ne ricordavano vagamente il sorriso quando li aveva
salutati entrando e si erano chiesti chi fosse e i due assistenti
al ricevimento oltre ai rappresentanti della loggia armena e di
quella iraniana. Anche loro avevano partecipato alle ricerche,
senza successo.
Andrew continuava a spazzare, ripiegava le tovaglie posate
sui lunghi tavoli rettangolari e riempiva bidoni di immondizia
con quello che toglieva dai piatti di plastica.
Si sentiva stanco, molto stanco. Era arrivato al Centro
alle sei del mattino ed era ormai mezzanotte. Il giorno dopo
avrebbe dovuto ripresentarsi per completare le pulizie. E ora
si trattava di portare fuori i sacchi dei rifiuti e poi guidare
con la sua Corolla, vecchia di dieci anni, sino a Damascus
in Maryland. Quarantacinque minuti di strada, certamente
libera a quell’ora.
Ma con quella stanchezza, che fatica. E poi dover tornare
alzandosi presto l’indomani. Quattro ore di sonno se gli andava
bene.
“Sai che ti dico?”, disse fra sè il fratello Andrew, “Mi fermo
qui come ho già fatto altre volte”.
Ripose la scopa nell’armadio metallico e si avviò verso la
barberia, passando per il piccolo tempio. Anche quello bisognava
pulire. Che palle. Domani, domani.
Andrew si tolse la tuta e rimase in boxer e maglietta. Aprì
il rubinetto di uno dei lavandini e fece scorrere l’acqua per
alcuni minuti. Gli era venuta una grande sete dovuta sicuramente
a tutti gli avanzi che aveva mangiato mentre faceva la
pulizia del salone. Questa volta il menu aveva molti piatti di
carne cucinati alla peruviana con una sacco di spezie.
Si riempì un bicchierone di carta e lo vuotò con un sospiro
di soddisfazione. Ancora un pò d’acqua per raffreddare il
bruciore di stomaco che stava montando. Saggia decisione
quella di restare lì dentro ed evitare il penoso ritorno a casa
per poche ore. E poi il direttore generale non avrebbe avuto
niente da eccepire. “E che gli chiedo di pagarmi lo straordinario
notturno anche per le ore che sto appisolato su una
delle poltrone del barbiere?”.
Il poggia testa era veramente confortevole. “Però questi
massoni degli anni venti si trattavano proprio bene. Pensa
tu: il servizio di barbiere gratuito. OK: era riservato a quei
fratelli che dovevano interpretare sul palcoscenico qualcuno
dei rituali in costume dei passaggi di grado del Rito Scozzese,
ma era sempre un taglio gratis”.
Pensando alla sua vita spesa nel centro, alle cure avute per
anni nella clinica lì vicina, Andrew provò una sorta di sentimento
di riconoscenza. In fondo questa era proprio casa sua.
Inclinò al massimo la spalliera della poltrona e si adagiò con
un sospiro.
Il cavo metallico del ‘laccio’ gli squarcio’ la gola. Aria e
sangue schizzavano fuori dalla trachea e dalle arterie con un
suono strano. Ma non era il tipico modo di parlare di Andrew.
Quando il corpo del fratello janitor finì di dibattersi nell’agonia,
l’arabo ripulì su un asciugamano lo strumento tascabile
di morte che aveva acquistato a caro prezzo da un antiquario
di Valencia. Un ‘laccio’ del ‘600 e chissà quante gole
aveva squarciato.
Habib Fareh, o comunque fosse il suo nome, uscì dalla
barberia, attraversò il piccolo tempio, poi la grande cucina.
Si incamminò nel corridoio e salì una rampa di scale. Svolta a
sinistra e si presentò davanti alla porta della segreteria che era
chiusa. Ma non gli fu difficile aprirla con il suo passpartout.
Acceso il computer cominciò le sue ricerche sicuro che
nessuno lo avrebbe disturbato almeno per un pò. Del resto il
sordomuto, rimanendo a dormire nel Centro non aveva messo
in funzione l’impianto di allarme collegato con la centrale
e la vicina stazione di polizia.
Sul suo cellulare digitò un numero. Quando sentì che
dall’altra parte avevano alzato il ricevitore disse: “Fatto”. E
riattaccò. Da una tasca tirò fuori un portasigarette d’argento.
Lo aprì, estrasse una sigaretta di cannabis e con un accendino
a gas l’accese. Un paio di profonde boccate, prima di mettersi
a consultare i files della segreteria del Centro. Mentre
la droga si diffondeva nel suo organismo e gli dava un senso
di tranquilla completezza, l’arabo sorrise alla sua immagine
rispecchiata nel monitor del computer. Tutto stava andando
nel migliore dei modi grazie al suo talento professionale.
Come assassino internazionale nessuno poteva competere
con lui.
Leggeva bene le labbra quando ti guardava e rispondeva
con un parlare gutturale. Andrew era stato curato sin da
ragazzo nella clinica per bambini disabili nell’udito e nella
parola annessa allo Scottish Rite Center.
Tutte le spese sia per i medici che per i degenti nonché
i familiari che li assistono sono a carico del Rito Scozzese.
In America ogni giorno i massoni tirano fuori dalle tasche
milioni di dollari con i quali finanziano e gestiscono 23
cliniche distribuite nelle principali città della nazione-continente.
In questi ospedali si accolgono bambini e ragazzi fino ai
diciotto anni affetti da gravi problemi ortopedici e spinali,
oltre che grandi ustionati.
Andrew era il janitor, il tuttofare, dello Scottish Rite Center.
A lui spettavano le pulizie dei vari ambienti e della sala
da ballo dopo che vi si erano tenuti degli eventi a conclusione
di cerimonie che erano state allestite nell’auditorium o nei
templi.
Andrew lavorava duro, ma aveva anche qualche piccola
soddisfazione personale. Alla fine dei banchetti si portava a
casa borse di cibo che non era stato toccato e bottiglie di vino
nel quale poteva annegare le rinuncie della vita di scapolo
forzato, perché le donne che gli piacevano lo scansavano per
il fatto che aveva dei problemi fisici. E poi qualche bottiglia
se la rivendeva pure.
Quella sera il fratello Andrew era parecchio arrabbiato: il
Grand Commander e il General Secretary del Centro gli avevano
imposto di cercare un tale, arabo di nome Habib Fareh,
che sembrava si fosse introdotto con false attestazioni nell’edificio,
approfittando dell’ingenuità dei giovani assistenti
messi al controllo dei visitatori che lo avevano fatto passare.
“Ma chi ci mettono in questi posti di responsabilità?”,
mugugnava tra sé Andrew.
“Io devo fare solo lavori di merda, con paga di merda e
trattamento di merda. Mi prendono a calci in culo, solo perché
sono quello che sono e devo vivere della loro carità”.
Così gorgogliava il sordomuto mentre con una scopa spazzava
il pavimento della ball room, raccogliendo bottigliette e
cartacce. “Anche tra i massoni ci sono tanti ‘pigs’, maiali. Ma
non potrebbero insegnargli come ci si comporta oltre a fargli
imparare a memoria i rituali?”.
La scomparsa del presunto libanese aveva gettato un grande
scompiglio nell’organizzazione del Brotherhood Week
End. Anche se i dirigenti del Centro avevano imposto di non
creare allarmismo tra i tanti partecipanti alla cerimonia.
Bisognava cercare senza dare nell’occhio. E avevano cercato,
cercato, per ore in tutti gli ambienti. Ma dell’arabo nessuna
traccia. La ricerca non era stata facile.
Uffici di segreteria e dei dirigenti, sale riunioni, il piccolo
tempio con annesso spogliatoio e l’ex barberia (dotata anco-
ra di bellissime poltrone rivestite in pelle dei primi anni del
‘900). Il grande tempio al secondo piano con la sala biliardi,
la sala dei passi perduti. I bagni e i salottini per le ladies in
visita ai mariti.
La grande cucina dotata di frigoriferi industriali e di ogni
attrezzatura per preparare pranzi per centinaia di persone.
Avevano cercato nell’auditorium, anche tra le file delle poltrone
e soprattutto dietro il palcoscenico dove erano le attrezzature
teatrali e dove nascondersi sarebbe stato abbastanza
facile. Con le potenti lampade a batteria avevano ispezionato
in alto tutti i movimenti di scena, le nicchie dei cordami, le
quinte raggruppate da una parte. Nulla: del libanese neanche
una traccia.
E avevano concluso che, quando si era visto oggetto di
troppa attenzione, l’arabo era sgattaiolato uscendo indisturbato
dalla porta dell’ingresso secondario da cui era entrato
all’inizio della manifestazione. Inutile domandare a quelli
che stazionavano fuori della porta a fumarsi l’ennesima sigaretta.
Nessuno lo conosceva e lo aveva visto. Salvo quelli all’inizio
che ne ricordavano vagamente il sorriso quando li aveva
salutati entrando e si erano chiesti chi fosse e i due assistenti
al ricevimento oltre ai rappresentanti della loggia armena e di
quella iraniana. Anche loro avevano partecipato alle ricerche,
senza successo.
Andrew continuava a spazzare, ripiegava le tovaglie posate
sui lunghi tavoli rettangolari e riempiva bidoni di immondizia
con quello che toglieva dai piatti di plastica.
Si sentiva stanco, molto stanco. Era arrivato al Centro
alle sei del mattino ed era ormai mezzanotte. Il giorno dopo
avrebbe dovuto ripresentarsi per completare le pulizie. E ora
si trattava di portare fuori i sacchi dei rifiuti e poi guidare
con la sua Corolla, vecchia di dieci anni, sino a Damascus
in Maryland. Quarantacinque minuti di strada, certamente
libera a quell’ora.
Ma con quella stanchezza, che fatica. E poi dover tornare
alzandosi presto l’indomani. Quattro ore di sonno se gli andava
bene.
“Sai che ti dico?”, disse fra sè il fratello Andrew, “Mi fermo
qui come ho già fatto altre volte”.
Ripose la scopa nell’armadio metallico e si avviò verso la
barberia, passando per il piccolo tempio. Anche quello bisognava
pulire. Che palle. Domani, domani.
Andrew si tolse la tuta e rimase in boxer e maglietta. Aprì
il rubinetto di uno dei lavandini e fece scorrere l’acqua per
alcuni minuti. Gli era venuta una grande sete dovuta sicuramente
a tutti gli avanzi che aveva mangiato mentre faceva la
pulizia del salone. Questa volta il menu aveva molti piatti di
carne cucinati alla peruviana con una sacco di spezie.
Si riempì un bicchierone di carta e lo vuotò con un sospiro
di soddisfazione. Ancora un pò d’acqua per raffreddare il
bruciore di stomaco che stava montando. Saggia decisione
quella di restare lì dentro ed evitare il penoso ritorno a casa
per poche ore. E poi il direttore generale non avrebbe avuto
niente da eccepire. “E che gli chiedo di pagarmi lo straordinario
notturno anche per le ore che sto appisolato su una
delle poltrone del barbiere?”.
Il poggia testa era veramente confortevole. “Però questi
massoni degli anni venti si trattavano proprio bene. Pensa
tu: il servizio di barbiere gratuito. OK: era riservato a quei
fratelli che dovevano interpretare sul palcoscenico qualcuno
dei rituali in costume dei passaggi di grado del Rito Scozzese,
ma era sempre un taglio gratis”.
Pensando alla sua vita spesa nel centro, alle cure avute per
anni nella clinica lì vicina, Andrew provò una sorta di sentimento
di riconoscenza. In fondo questa era proprio casa sua.
Inclinò al massimo la spalliera della poltrona e si adagiò con
un sospiro.
Il cavo metallico del ‘laccio’ gli squarcio’ la gola. Aria e
sangue schizzavano fuori dalla trachea e dalle arterie con un
suono strano. Ma non era il tipico modo di parlare di Andrew.
Quando il corpo del fratello janitor finì di dibattersi nell’agonia,
l’arabo ripulì su un asciugamano lo strumento tascabile
di morte che aveva acquistato a caro prezzo da un antiquario
di Valencia. Un ‘laccio’ del ‘600 e chissà quante gole
aveva squarciato.
Habib Fareh, o comunque fosse il suo nome, uscì dalla
barberia, attraversò il piccolo tempio, poi la grande cucina.
Si incamminò nel corridoio e salì una rampa di scale. Svolta a
sinistra e si presentò davanti alla porta della segreteria che era
chiusa. Ma non gli fu difficile aprirla con il suo passpartout.
Acceso il computer cominciò le sue ricerche sicuro che
nessuno lo avrebbe disturbato almeno per un pò. Del resto il
sordomuto, rimanendo a dormire nel Centro non aveva messo
in funzione l’impianto di allarme collegato con la centrale
e la vicina stazione di polizia.
Sul suo cellulare digitò un numero. Quando sentì che
dall’altra parte avevano alzato il ricevitore disse: “Fatto”. E
riattaccò. Da una tasca tirò fuori un portasigarette d’argento.
Lo aprì, estrasse una sigaretta di cannabis e con un accendino
a gas l’accese. Un paio di profonde boccate, prima di mettersi
a consultare i files della segreteria del Centro. Mentre
la droga si diffondeva nel suo organismo e gli dava un senso
di tranquilla completezza, l’arabo sorrise alla sua immagine
rispecchiata nel monitor del computer. Tutto stava andando
nel migliore dei modi grazie al suo talento professionale.
Come assassino internazionale nessuno poteva competere
con lui.
sabato 1 novembre 2014
W.D.C sotto traccia - Capitolo 3
“Indirizzo?” chiese il tassista di origine somala. “Mi faccia
vedere: 2800 Sedicesima strada. Ma credo si debba entrare
da Mozart St”.
I tassisti di Washington sono una disgrazia. Non conoscono
le strade e la maggior parte di loro non ha il navigatore
perché non vogliono spendere.
Sedicesima strada. Il taxi passò davanti alla House of Temple,
sede dello Scottish Rite. Un imponente building di marmo
con ai lati della gradinata due Sfingi.
La vettura svoltò a sinistra su Fuller street e poi a destra
su Mozart st. Ed entrò in un grande parcheggio che apparteneva
allo Scottish Rite Center, tempio del Rito Scozzese
massonico del sud che gestiva anche la clinica per bambini
disabili nell’udito e nella parola le cui spese erano coperte dai
massoni di Washington.
Il passeggero pagò la corsa e uscì dal taxi avviandosi verso
una porta di metallo vicino alla quale erano alcuni ‘fratelli’ in
tuxedo, che stavano fumando.
Sorrise, salutando come se li conoscesse da sempre; aprì la
porta ed entrò dentro il centro. C’erano già molti fratelli che
parlavano tra loro e, attendendo che iniziasse la cerimonia, si
aggiustavano l’apron, il grembiule.
“Per la registrazione dove devo andare?” domandò il visitatore.
“Nel salone, segui le indicazioni”. Breve corridoio, svolta a
sinistra e si ritrovò nell’ingresso principale, comunque chiuso
per ragioni di sicurezza. Un lungo tavolo dietro al quale lavoravano
due giovani assistenti del Grand Secretary.
“Il tuo nome?”.
“Habib Fareh”.
“Non risulta. A quale Loggia appartieni?”.
“Grand Lodge of Lebanon. Ho qui la dichiarazione del
nostro Gran Segretario e il certificato di ‘good standing’. Dovreste
avere la lettera ufficiale di presentazione. È stata mandata
una diecina di giorni fa”.
I due assistenti erano perplessi. Si scambiarono occhiate
preoccupate. Poi uno prese un badge bianco sul quale scrisse
‘Habib Fareh, Grand Lodge of Lebanon’ e lo consegnò al
visitatore che stava osservando il busto del Generale Albert
Pike grande restauratore del Rito Scozzese in America.
Habib Fareh si applicò sulla giacca il cartellino adesivo,
ritornò nel corridoio e poi entrò nell’auditorium da 500 posti,
palcoscenico come quello di un teatro di Broadway con
quinte e scene.
Trovò un posto libero, schiacciato tra due enormi massoni
con decine di chili di grasso che debordavano sulla sua sedia.
Cerimonia del Brotherhood WeekEnd, un evento massonico
che aveva assunto nel tempo una forte rilevanza internazionale.
Infatti seduti nel settore destro dell’anfiteatro Habib
Fareh vide i rappresentanti di delegazioni estere di Grandi
Logge.
Il Brotherhood WE era stato creato una decina di anni
prima, una logica derivazione delle Logge Bilingue che caratterizzavano
la Gran Loggia di Washington D.C.
Queste logge erano un ponte diplomatico-massonico tra la
Capitale degli Stati Uniti e il rispettivo paese di riferimento.
Il Brotherhood Week End era una manifestazione che si
svolgeva mettendo fratelli di diversa nazionalità nelle postazioni
della Loggia. Ognuno recitava il rituale nella propria
lingua nazionale. Poteva sembrare una torre di Babele. Ma
per i massoni di Washington si trattava della conferma del
concetto di Fratellanza Universale che accomuna gli aderenti
a questa antica Istituzione.
Habib Fareh notò che l’età media dei Grand Officers della
Grand Lodge of Washington DC era sui trenta anni. Tutti
rigorosamente in abito da cerimonia con code.
Ogni Fratello che copriva una postazione, a cominciare
dal Gran Maestro che portava in capo il cilindro, aveva un
radio microfono con auricolare gestito dalla cabina di regia
che comandava le luci e gli effetti sonori. L’organo situato in
una nicchia sulla sinistra dell’anfiteatro era suonato da un
esperto musicista massone. Nessun ‘profano’ era ammesso
alla cerimonia.
La cerimonia si snodò con semplicità e senza intoppi,
segno che gli attori si erano sottoposti a numerose prove.
Ognuno recitava a memoria la propria parte.
Al termine i fratelli scesero nella sala da ballo dove era
stato allestito un buffet-lunch e decine di lunghi tavoli che
ospitavano i partecipanti.
Habib Fareh si era fatto indicare il rappresentante della
Loggia Armena e di quella Iraniana in esilio. Fece in modo di
trovarsi vicino a loro quando prese posto a un tavolo d’angolo.
Attaccò discorso, presentandosi nella sua qualità di rap-
presentante della Gran Loggia del Libano.
I suoi interlocutori lo osservarono e cambiarono marcia
alla loro attenzione: da conviviale a molto interessata. E cominciarono
le domande: “Gran Loggia del Libano? Tempo
fa abbiamo avuto un grosso problema quando la nostra Gran
Loggia di Washington ha sottoscritto la creazione di una
Loggia in Libano. Ne è venuta fuori una polemica astiosa
con un altra Gran Loggia”.
“Ma tu veramente… da dove vieni e chi rappresenti?”.
Habib Fareh sorrise: “È chiaro che voi non siete a conoscenza
della realtà della presenza massonica in Libano, con
tutto il dovuto rispetto - disse con tono calmo e mostrando
sicurezza - Scusatemi un momento perché devo andare alla
toilette”.
Si allontanò. I suoi interlucutori si guardarono poco convinti
e decisero di andare a parlarne con l’ex gran maestro che
aveva gestito la difficile situazione in Libano.
“Cercate di bloccarlo”. Disse allarmato, “Perché bisogna
vederci chiaro e capire chi è questo tale che si spaccia come
fratello libanese”.
I due giovani cominciarono a cercare Habib Fareh ma non
riuscirono a rintracciarlo. Sparito nel nulla.
_____________________________________________
______________________________________
(Ogni riferimento a fatti realmente accaduti e/o a persone realmente
esistenti o esistite è da ritenersi puramente casuale.
Any resemblance to real events and/or to real persons, living or dead, is
purely coincidental)
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