mercoledì 15 luglio 2015
Capitoli 44 e 45 del giallo "W.D.C. sotto traccia" Oscar Bartoli, editore Betti
Capitolo 44
Smithson & Bradley Law Firm di Washington nel Reagan Building di Washington. Il boss con i suoi associates stava seguendo su tre schermi televisivi le ultime notizie e le edizioni speciali sull’attentato al Presidente. Si susseguivano le testimonianze. Inquadrature del drone sferico che veniva mostrato ai telecronisti da agenti dello FBI. Breaking news della CNN: Wolf Blitzer riferiva sul ritrovamento del corpo dell’arabo. “La notizia che l’attentato al Presidente sia stato orchestrato e gestito in prima persona da un arabo sta creando numerosi focolai di tensione in America. Quelle che vedete sono distruzioni di negozi e agenzie gestite da arabi americani. Sale la preoccupazione in tutto il Paese, nonostante la Casa Bianca abbia diffuso una nota in cui si riafferma che non è chiara l’appartenenza dell’arabo, Habib Fareh, a qualche movimento di estremismo arabo. Questo Fareh è conosciuto negli ambienti dell’intelligence internazionale come un bounty killer pronto ad assassinare chiunque in cambio di denaro. Ogni ipotesi che si riferisse ad Al Qaeda è al momento assolutamente non confermata”.
“Il Presidente sta bene, continuò il commentatore della CNN e tra poco è annunciata una sua conferenza stampa. Fonti della Casa Bianca riferiscono che riprenderà i contatti personali con le comunità più isolate della Federazione”.
Seguirono le interviste con alcuni dei partecipanti al townhall di Lake Havasu City. Una donna dichiarò tra le lacrime: “Non sapevamo cosa stava succedendo. Abbiamo visto alcuni agenti del servizio segreto buttarsi sul Presidente e atterrarlo. Ma non riuscivamo a capire perché. Poi c’è stata quella piccola sfera nera che era entrata nel salone e rimbalzava da una parte e dall’altra e sembrava quasi un gioco, uno scherzo di cattivo gusto. Ma quando ha sparato i razzi allora la confusione è diventata totale. Anche io mi sono buttata a terra, ma nel frattempo, dopo le due esplosioni, il soffitto del salone ha cominciato a cadere. La mia amica Ruth che stava vicina a me è stata colpita alla testa da un blocco e, mi sembra, anche una delle guardie del corpo che proteggevano il presidente. Tutto è durato un’eternità. Fino a che quel maledetto pallone che volava è stato abbattuto dagli agenti, oppure è caduto da solo… non so… Io me lo sentivo che la presenza del Presidente in questa città avrebbe richiamato qualche terrorista… Due morti e decine di feriti tra le circa cento persone che assistevano all’incontro con il presidente. Che sarebbe stato meglio se fosse rimasto a Washington… ”.
L’interfonico interruppe la visione dei programmi televisivi. La segretaria annunciò la visita di due agenti dello FBI che spalancarono la porta. “Mister Paul Kidman, presidente della Smithson & Bradley Law Firm?”.
“Sono io”, disse il Boss con aria autorevole fingendo una calma glaciale.
“Questo è un ordine d’arresto per lei e i suoi collaboratori per attentato al Presidente”.
“Ci deve essere un errore... ”.
“Lei è un noto avvocato e ce lo dimostrerà. Dovrà anche spiegare il rapporto di dipendenza del defunto avvocato Rachel O’Hara che rispondeva direttamente a lei anche se ufficialmente era un dirigente di una società di lobby. E poi ci parlerà di come e attraverso quali canali lei ha assunto un noto assassino professionale per compiere omicidi ed eliminare persone che intralciavano i suoi piani”. “Insomma”, aggiunse con un sorriso di scherno l’agente del FBI che evidentemente era in vena di prendersi qualche soddisfazione, “siamo ansiosi di ascoltare le sue riflessioni. Per il momento si giri e metta le mani dietro la schiena. Ha diritto a non fare dichiarazioni, prima di avere designato un collegio di difesa. Qualche nome da indicarci, please?”.
Mr. Paul Kidman e i suoi quattro stretti collaboratori uscirono ammanettati passando davanti alla vistosa segretaria che stentava a nascondere il suo disappunto perché in fondo a quel figlio di buona donna di Paul Kidman, lei in qualche modo era affezionata. Ammesso che si potesse provare un moto di passione per quell’uomo di ghiaccio. Poi, passione o presunto affetto a parte, le venivano a mancare, oltre allo stipendio anche quei bonus che si ritagliava, quando il Boss, per far fronte allo stress accumulato o per reprimere i moti di un’improbabile coscienza, la chiamava nel suo studio e lei si cimentava in una prestazione di sesso orale praticata in ginocchio mentre lui restava seduto alla scrivania. Ogni volta erano duecento dollari. E adesso?
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Capitolo 45
Tornata della Loggia Garibaldi. Cerimonia dell’installazione del Maestro Venerabile, del primo e secondo sorvegliante e degli altri ufficiali della Loggia. Il Master of Installation lesse al Maestro Venerabile eletto i compiti e responsabilità che lo attendevano nell’espletamento della sua nuova funzione che sarebbe durata un anno.
Il maestro delle cerimonie, portatosi nel centro della Loggia, declamò alzando il suo bastone dorato e rivolgendosi all’ovest, sud, est che il nuovo Worshipful Master era stato conclamato nel suo nuovo incarico.
Poi si susseguirono le installazioni degli altri dignitari e ufficiali a completamento dell’organico dell’Officina.
Terminato il rituale, il maestro venerabile sedendo all’Oriente si alzò e pronunciò il suo discorso di apertura del proprio anno di attività massonica.
“Fratelli”, disse il nuovo WM, “veniamo da un brutto momento. La situazione internazionale è a un punto di non ritorno con il pericolo di una deflagrazione nucleare che potrebbe coinvolgere miliardi di persone”. Purtroppo anche la nostra antica Istituzione ha mostrato forti cedimenti. Infiltrazioni al nostro interno per incapacità di essere più attenti verso il mondo profano. Schegge impazzite, definite massoniche, ma che in realtà erano solo comitati di affari sporchi, hanno inquinato la nostra organizzazione alla quale sono state attribuite responsabilità che non abbiamo. Vigilare, andare tra la gente apertamente, consolidare la nostra immagine con azioni scoperte. Non abbiamo alcunché di segreto, ma siamo una componente attiva della società, nella quale i padri fondatori della Nazione hanno profuso il senso profondo della loro moralità. Dobbiamo recuperare i ‘fondamentali’ della nostra essenza. Dobbiamo scendere tra i ‘profani’, farci conoscere, dobbiamo essere un vero modello di comportamento, ognuno nella sua nicchia professionale, ognuno nella sua famiglia con il ruolo di padre, marito, nonno, ognuno come educatore. Dobbiamo contribuire a ricostruire quegli ideali che furono alla base del miracolo di fede ed energia collettiva che portò alla costituzione della nostra amata patria: gli Stati Uniti d’America”.
La riunione terminò con il rituale di chiusura. Il Worshipful Master dette un colpo di maglietto. Prese il bastone e zoppicando vistosamente scese dal podio all’Oriente in mezzo agli applausi dei molti fratelli presenti alla ‘tornata dell’Officina’ che gli si stringevano attorno abbracciandolo e si rallegravano con il nuovo Maestro Venerabile, appena installato… Michael Bardi.
mercoledì 8 luglio 2015
Capitolo 43 del giallo "W.D.C sotto traccia"
Un individuo in una muta nera, cappuccio con fessura per gli occhi, puntava la pistola contro Michael. Nell’ombra della sera una voce di timbro maschile, gutturale, gli diceva: “Non hai capito nulla. Le cose non sono come sembrano. Questo arabo morto ci farà un gran comodo. E anche se non ha portato a termine l’uccisione del Presidente sarà il pretesto per scatenare una guerra atomica contro il mondo arabo”.
Michael stava per svenire. La mente obnubilata. Le parole di quel tale che lo sovrastava, nero come l’immagine della Morte, rimbalzavano nella sua mente e avevano un’eco come se si fossero trovati all’interno di una grande basilica. “Le basiliche… ” il pensiero fluttuava nella mente intorpidita del ferito. “Le cattedrali medievali costruite dai ‘maestri muratori’… Perché parla, parla e non spara e la facciamo finita… sono stanco, tanto stanco… ”.
Ma l’uomo in nero continuava il comizio in ‘hora mortis’: “Finisce la civiltà del petrolio. Comincia quella delle fonti alternative. Bisognava tentare qualcosa di clamoroso, come l’uccisione del Presidente che si batte per il capovolgimento della società basata sul petrolio. Li abbiamo fregati tutti. E faremo soldi a palate”.
Risata sgradevole accentuata dal gracchiare della voce metallica come quella di un robot. “Ma per te è troppo tardi”. Concluse il boia vestito di nero. “Business is bussiness. Niente di personale. Adesso tocca a te”.
Michael chiuse gli occhi e rivide suo padre che gli sorrideva. Poi un accavallarsi di volti noti, paesaggi, azioni di guerra… Olivia... Non gli importava più di nulla. “Ma sì, basta, spara e vai a farti fottere... ” disse con il poco fiato che aveva.
Due colpi risuonarono chiari, secchi, senza silenziatore. L’individuo in muta nera crollò a terra con un singhiozzo, mentre dall’ombra spuntava Tom Genisio, il vice di Michael, che da quando era scoppiato il caos stava cercando il suo capo.
Si precipitò su Michael che gli indicò la gamba destra. Si tolse la cravatta con la quale fece un nodo sopra il ginocchio per ridurre l’emorragia. Prese Michael sottobraccio facendolo alzare.
Nel frattempo gli altri componenti della squadra di Michael avevano sentito i colpi ed erano accorsi.
Ma prima di farsi caricare sulla lettiga Michael disse a Tom Genisio con un filo di voce: “Aspetta un momento… illumina qui con la torcia… ”.
Si abbassò sul corpo in tuta nera che giaceva agonizzante sul bordo della piscina e ne scoprì il cappuccio.
Sotto il quale apparve la rossa capigliatura di Rachel. Intorno alla gola aveva una laringe elettronica.
Un filo di sangue usciva dalla bocca e si miscelava con il colore del rossetto. Non poteva parlare, rantolava. Gli occhi verdi esprimevano terrore, dolore, angoscia, disperazione.
Michael stava per svenire. La mente obnubilata. Le parole di quel tale che lo sovrastava, nero come l’immagine della Morte, rimbalzavano nella sua mente e avevano un’eco come se si fossero trovati all’interno di una grande basilica. “Le basiliche… ” il pensiero fluttuava nella mente intorpidita del ferito. “Le cattedrali medievali costruite dai ‘maestri muratori’… Perché parla, parla e non spara e la facciamo finita… sono stanco, tanto stanco… ”.
Ma l’uomo in nero continuava il comizio in ‘hora mortis’: “Finisce la civiltà del petrolio. Comincia quella delle fonti alternative. Bisognava tentare qualcosa di clamoroso, come l’uccisione del Presidente che si batte per il capovolgimento della società basata sul petrolio. Li abbiamo fregati tutti. E faremo soldi a palate”.
Risata sgradevole accentuata dal gracchiare della voce metallica come quella di un robot. “Ma per te è troppo tardi”. Concluse il boia vestito di nero. “Business is bussiness. Niente di personale. Adesso tocca a te”.
Michael chiuse gli occhi e rivide suo padre che gli sorrideva. Poi un accavallarsi di volti noti, paesaggi, azioni di guerra… Olivia... Non gli importava più di nulla. “Ma sì, basta, spara e vai a farti fottere... ” disse con il poco fiato che aveva.
Due colpi risuonarono chiari, secchi, senza silenziatore. L’individuo in muta nera crollò a terra con un singhiozzo, mentre dall’ombra spuntava Tom Genisio, il vice di Michael, che da quando era scoppiato il caos stava cercando il suo capo.
Si precipitò su Michael che gli indicò la gamba destra. Si tolse la cravatta con la quale fece un nodo sopra il ginocchio per ridurre l’emorragia. Prese Michael sottobraccio facendolo alzare.
Nel frattempo gli altri componenti della squadra di Michael avevano sentito i colpi ed erano accorsi.
Ma prima di farsi caricare sulla lettiga Michael disse a Tom Genisio con un filo di voce: “Aspetta un momento… illumina qui con la torcia… ”.
Si abbassò sul corpo in tuta nera che giaceva agonizzante sul bordo della piscina e ne scoprì il cappuccio.
Sotto il quale apparve la rossa capigliatura di Rachel. Intorno alla gola aveva una laringe elettronica.
Un filo di sangue usciva dalla bocca e si miscelava con il colore del rossetto. Non poteva parlare, rantolava. Gli occhi verdi esprimevano terrore, dolore, angoscia, disperazione.
venerdì 3 luglio 2015
Capitolo 42 del giallo "W.D.C sotto traccia"
Michael afferrò le gambe dell’arabo che tentava di usare il
radiocomando. L’arabo cadde a terra.
Si girò e sparò contro Michael colpendolo alla gamba destra.
Michael sentì che stava perdendo sangue, forse il colpo
aveva leso un’arteria. Non aveva molto tempo davanti a sé.
La pistola dell’arabo si inceppò e Michael gli saltò al collo
cercando di strangolarlo. La sua mente lavorava incessantemente,
nonostante il dolore atroce della gamba ferita.
L’arabo si divincolò, rotolandosi sul pavimento. Si rialzò
estraendo una P38 da una fondina legata alla caviglia.
Michael con una spazzata di sinistro lo atterrò e colpì di
taglio la mano che impugnava la pistola, facendola cadere.
L’arabo era a terra e stava cercando di rialzarsi con un colpo
di reni. Michael gli assestò un calcio nei testicoli e gli si
gettò sopra.
Habib Fareh da terra, nel tentativo di respingerlo, alzò una
gamba che appoggiò contro il ventre di Michael proiettandolo
sopra di sé.
Michael atterrò dentro l’apertura del tobogan e cominciò
a scivolare verso il basso mentre sentiva che dalla gamba il
sangue pulsava uscendo.
Precipitò lungo il tobogan in mezzo all’acqua a velocità
crescente. Dietro di lui stava arrivando anche l’arabo.
“E adesso che faccio quando sprofondiamo in piscina?” si
chiese Michael che sentiva le forze venirgli meno.
Arrivato nella parte terminale dello splash venne espulso
nell’acqua.
Galleggiava sul dorso quando arrivò l’arabo testa e mani
in avanti. Impugnava un pugnale seghettato che mandò un
bagliore quando all’uscita dello splash venne centrato da un
raggio di luna.
L’arabo cadde sopra Michael che gli bloccò la mano col
pugnale e immerse nel ventre di Habib Fareh la lunga lama
del coltello a serramanico che rigirò con taglio trasversale con
la tecnica del suicidio giapponese ‘seppuku’.
Il corpo dell’arabo gli si accasciò addosso. Michael ora rischiava
di affogare. Si liberò dell’avversario facendolo scivolare
di lato e si avvicinò al bordo della piscina dove si issò con
grande fatica. Quindi perse i sensi.
Una pedata in un fianco lo fece tornare in sé mentre una
voce maschile metallica e gutturale gli diceva:
“Bel lavoro. Ma sei stupido e adesso tocca te. Gli imbecilli
non possono vivere. Combinano troppi guai”.
sabato 27 giugno 2015
Capitolo 41 del giallo "W.D.C sotto traccia"
Le urla di Michael al radio microfono risuonarono come
esplosioni negli auricolari dei body guards a difesa del Presidente.
Due tra quelli più vicini si gettarono addosso a POTUS,
lo atterrarono dietro il podio, coprendolo con il proprio
corpo, mentre nel salone si scatenava il finimondo.
Uno strano oggetto sferico era entrato e volteggiava urtando
nel soffitto, sbattendo contro le pareti, rimbalzando, in
mezzo alle urla stridule delle donne, agli ordini dei militari
che non sapevano cosa stesse accadendo, alle televisioni che
continuavano a riprendere le scene di panico.
Poi all’improvviso, la sfera nera sparò due piccoli missili
ad alto potenziale a distanza ravvicinata. Il primo colpì una
grande vetrata che andò in frantumi.
Il secondo si schiantò in mezzo alla folla uccidendo alcuni
spettatori e ferendone molti altri, mentre il soffitto crollava
in una nuvola di cemento, lasciando penzolare tubi e cavi vari.
L’impianto antincendio si era nel frattempo attivato allagando
morti, feriti e sopravvissuti che si aggiravano tra quei corpi inebetiti dal terrore.
Uno degli agenti che coprivano il Presidente era stato colpito
a morte da un blocco di cemento che si era staccato dal
soffitto.
I compagni spostarono velocemente il suo corpo e,
caricato il loro Comandante in Capo su una barella, corsero
fuori nel piazzale del parcheggio dove l’ambulanza blindata
attendeva.
martedì 23 giugno 2015
Capitolo 40 del giallo "W.D.C sotto traccia"
Michael Bardi aveva dei crampi allo stomaco. Eppure non
aveva mangiato quasi nulla, salvo un pacchetto di crackers
che gli aveva dato Tom Genisio.
Il suo malessere era causato non tanto dallo stress, perché a
quello era abituato da una vita. No: sentiva che qualcosa non
stava marciando nel verso giusto, ma non sapeva dare una
connotazione precisa alle sue preoccupazioni.
Il suo team e quello dell’FBI avevano lavorato bene fino ad
allora, setacciando a tappeto ogni angolo della costruzione,
preparando linee di fuga, simulando decine di possibili attacchi
terroristici alla persona del Comandante in Capo.
Michael era un perfezionista e non si fidava a fondo degli
altri. Perciò decise di dare un’occhiata all’esterno mentre nel
salone continuava il dialogo, abbastanza tempestoso, tra il
Presidente e il gruppo di attivisti di estrema destra scarsamente
equilibrati dai pochi interventi dei più moderati. Di
liberali neanche l’ombra.
Verificato che le porte della sala dove si teneva l’incontro
col capo della Casa Bianca erano sorvegliate da decine
di agenti, uscì dalla porta principale dell’hotel e si diresse
verso il retro dell’albergo dove erano sistemate le cucine e i
magazzini.
Arrivato al recinto delle piscine notò un furgone con la
porta posteriore aperta vicino a un ingresso che sembrava
condurre verso qualche deposito dell’hotel.
Eppure aveva dato precise disposizioni che le operazioni
di carico e scarico dovessero essere interrotte sino al termine
dell’evento. Potevano essere riprese solo quando il Presidente
si fosse allontanato con la scorta.
Michael indossava un’uniforme nera con giubbotto antiproiettile,
aveva a tracolla un Heckler & Koch MP5 submachine
gun con alcuni caricatori nella cintura, e la sua Beretta
calibro 9.
Camminando acquattato contro il muro si avvicinò al giovane
che stava completando il carico di un carrello di casse di
birra. Gli saltò alle spalle bloccandogli la bocca con il guanto
e con la sinistra facendo pressione sulle giugulari.
Il ragazzo stava per perdere i sensi e Michael sventolandogli
sotto il naso il badge della CIA, a gesti gli fece cenno di
tacere e di andarsene subito. Appena ripresosi dallo spavento
il commesso entrò nel furgone, mise in moto e partì facendo
stridere le gomme.
Michael, accovacciato sulle gambe si mise a osservare il
perimetro delle piscine. Scorse riflessa dalla parte interna del
tetto dello splash una strana luminosità, come quella di un
televisore acceso.
Gattonando si spostò senza fare rumore verso l’ingresso
della piscina che dava sulla spiaggia. Si diresse verso la scala
che conduceva alla torretta augurandosi che non fosse di legno
e non scricchiolasse.
Cominciò a salire. La scala era fatta con una struttura di
ferro rivestita di plastica antisdrucciolo per evitare che i
ragazzi potessero scivolare quando salivano per infilarsi nel tobogan.
Arrivato in cima alla scala vide l’uomo che stava digitando
su un telecomando e osservava attentamente un monitor. Le
immagini mostravano un oggetto sferico che volava passando
da un ambiente all’altro. Qualcosa di simile ai modellini di
elicotteri telecomandati.
Michael non aveva alternative: al radio microfono urlò
più volte “Emergenza Potus!” (President Of The United States, ndr)
mentre l’arabo, proprio quel tipo che aveva cercato di ucciderlo
sulla torre del George Washington Masonic Memorial,
riusciva a far entrare il drone nel salone, volando sulle teste
degli agenti che stavano alla porta della ball room e che erano
rimasti annichiliti per alcuni secondi per la sorpresa.
L’arabo mentre continuava a guidare il drone, si girò di
scattò e sparò un colpo con la sua pistola munita di silenziatore.
Il colpo andò a vuoto e Michael si gettò su Habib Fareh
che tentava di difendersi senza perdere il controllo dell’oggetto
volante.
A questo punto l’arabo premette un tasto rosso
del telecomando.
mercoledì 17 giugno 2015
Capitolo 39 del giallo "W.D.C sotto traccia"
Gli ospiti del London Bridge Resort erano disorientati.
La presenza di diecine di agenti della CIA e FBI in borghese,
unitamente a quelli della polizia locale, le troupes
televisive che avevano innondato i corridoi e la lobby con cavi
di ogni spessore, i controlli ultraseveri posti a ogni angolo
del grande albergo avevano creato un’atmosfera da giudizio
universale.
Molte famiglie di turisti americani che erano venuti a passare
qualche giorno di relax sulle acque del Lake Havasu non
sapevano come destreggiarsi in mezzo a tanta animazione e
controlli.
“Io devo andare in piscina coi miei figli”, si mise a urlare
nell’atrio una signora di oltre cento chili sostenuta dal marito
di analoga stazza e al fianco il maschietto e la femminuccia
che erano ormai avviati sulle orme dei genitori, quanto
a peso.
La signora che protestava era avvolta, si fa per dire, in un
ampio caftano e portava su un braccio alcuni asciugamani
mentre il marito che taceva era oppresso da un carico di giocattoli
di gomma gonfiabili.
Una impiegata del check-in lasciò il bancone e si precipitò
verso la donna.
“Signora, siamo spiacenti degli inconvenienti. Ma abbiamo
qui il Presidente degli Stati Uniti… e… ”.
“Ma chi se ne importa del Presidente? Lui le vacanze le ha
già fatte. Eppoi io non lo voto nemmeno… ”.
“Signora”, insisteva l’impiegata “Basta che lei e la sua famiglia
seguiate un percorso diverso da quello abituale perché,
come ha visto, il corridoio che conduce al salone è per il
momento bloccato dalla sicurezza. La visita del Presidente
riteniamo che debba terminare tra un’ora. Dopodiché tutto
tornerà tranquillo. Ma, al momento le consiglio di uscire da
quella porta secondaria entrando nella piscina principale dal
lato della spiaggia sul lago”.
La famiglia di obesi si fece convincere e lasciò l’atrio
dell’albergo senza degnare di uno sguardo la riproduzione
del The Gold Stage Coach, la carrozza da cerimonia della Regina
d’Inghilterra con pitture laterali dell’italiano Giovanni
Cipriani di Firenze.
Al contrario di un altro ospite che indossava un accappatoio,
calzava infradito di gomma, un grosso pallone di plastica
multicolore sotto braccio e la cuffia da bagno già calata
fino alle orecchie.
Affascinato dalla carrozza d’oro, copia perfetta dell’originale
del 1762, un altro dei doni dell’industriale McCullogh
alla città che aveva fondato nel deserto, ne osservava i particolari
con aria da intenditore.
Poi seguì la famigliola di protestatari che cercavano l’ingresso
lato spiaggia della piscina dotata di un grande tobogan.
Il sole stava tramontando in un tripudio di colori che accendevano
le pareti della case e si riflettevano sulla superficie
del grande lago.
La temperatura stava cominciando a calare
dopo avere raggiunto delle punte insostenibili di calore.
Nel suo tragitto verso la piscina l’ospite si imbatté di nuovo
nella famiglia di supernutriti che avevano deciso di rinunciare
al bagno, visto che bisognava ancora camminare, visto
che il sole ormai stava per sparire dietro le dune del deserto,
visto che i ragazzini avevano fame e visto che quel diavolo di
un Presidente gli aveva rovinato un giorno di vacanza.
Almeno così blaterava la matrona inviperita mentre il marito
cercava di placarla con dei ripetuti “Mary, calmati che
rischiamo di andare in galera”. Ai quali la signora rispondeva
con sonori “Fanculo a te e al tuo Presidente di merda”. I ragazzi
ghignavano soddisfatti.
L’ospite con il pallone, invece, proseguì nel suo cammino
e alla fine entrò nel recinto della piscina. Ormai deserta
se si eccettuava una coppia di giovani sul lato opposto del
tobogan che, complice l’imbrunire, avevano cominciato a
scambiarsi focose effusioni che era facile prevedere come sarebbero
finite.
L’uomo dall’accappatoio bianco e dalla cuffia di gomma
calata fino alle orecchie si diresse invece verso la scala che
conduceva alla torretta da cui partiva il lungo splash nel quale
continuava a riversarsi l’acqua del circuito chiuso.
Arrivato in cima si tolse l’accappatoio (sotto indossava una
tuta nera). Da una borsa trasse un portatile che mise sopra
una piccola panca che correva all’interno della costruzione
di legno.
Tolse la plastica colorata a quello che sembrava un pallone
da football. Separò le due semicupole della custodia e ne trasse
fuori un drone sferico nero.
Verificò il collegamento wi-fi tra il monitor e il drone e il
funzionamento delle due mini telecamere.
A poca distanza dal recinto nord del gruppo di tre piscine,
un furgone di una fabbrica di birre si era fermato. Un addetto
aveva aperto una porta di servizio con la chiave che evidentemente
aveva in dotazione e si era messo a scaricare all’interno
dell’edificio alcune casse.
I servizi di sicurezza ogni tanto dimenticavano
qualcosa. Nessuno si era ricordato di informarli
che c’era qualcuno con la chiave di quella porta.
L’uomo della torretta azionò il motore del drone il cui fruscio
era coperto dalla caduta di acqua del tobogan.
Con un telecomando e seguendo l’operazione sul portatile
diresse il drone sferico verso la porta metallica rimasta aperta,
mentre il giovane si era avvicinato al furgone per caricare su
un carrello altre casse di birra.
Il drone si introdusse frusciando dentro l’edificio del quale
l’ospite in tuta nera conosceva a memoria la pianta in ogni
dettaglio.
mercoledì 10 giugno 2015
Capitoli 37 e 38 del giallo "W.D.C sotto traccia"
“Questa sì che è una bella notizia”, commentò Michael
Bardi indicando al suo amico Tom Genisio la prima pagina
del Las Vegas Sun. “Finalmente lo hanno incastrato quel bastardo!”
Genisio dette un’occhiata distratta al giornale mentre sintonizzava
alcune apparecchiature radar su una frequenza crittata.
“Chi è? Lo conoscevi?”, chiese.
“Altroché: ho dovuto avvicinarlo sotto copertura. Un gran
figlio di puttana, responsabile di una scia di delitti non immaginabile.
Edmundo Gutierrez, per anni protetto dalle autorità
messicane. Capo riconosciuto di uno dei più potenti
cartelli della droga”.
I due agenti si trovavano in un furgone dai vetri oscurati
parcheggiato vicino alla pista del piccolo aeroporto di Lake
Havasu City.
“Anche se aveva alzato il volume dello hi-fi nella sua camera,
i nostri insieme a quelli dello FBI lo hanno ugualmente
ascoltato e registrato con microfoni direzionali super sensibili”.
“Ma la cosa più buffa, è che il colloquio avveniva nella
sua suite al New York-New York Hotel con un altro figuro
italiano, ex massone. E questo l’hanno trovato morto sul suo
letto semi vestito. Il classico attacco cardiaco scatenato dalla
pompa fatta da una fanciulla chiamata Diamond della Companion,
società di escort. ”
“E tu conoscevi pure quello lì?” chiese Tom Genisio che
adesso stava armeggiando con la definizione di uno dei tanti
monitor di cui era pieno il furgone.
“Già proprio così. Un tipo losco che ho incontrato a
Roma. Aveva messo su una sorta di club esclusivo che sembra
conti molto a livello internazionale. Ecco perché era in contatto
con quel Gutierrez. Speriamo solo che i nostri non decidano
di restituire questo farabutto alle autorità messicane. O
che almeno lo facciano dopo averlo spremuto a dovere… ”.
Genisio aveva seguito il racconto di Michael. Ma la sua
attenzione era soprattutto concentrata su uno degli schermi:
“Tra due minuti l’aereo del Presidente atterra… Ha scelto
uno dei nostri: primo, perché la pista è corta e secondo per
non offrire informazioni a qualche figlio di puttana, viaggiando
con gli aerei della White House”.
“A proposito non mi hai detto come è andato il tuo viaggio
in Sicilia. Hai ritrovato il paesello natale dei tuoi nonni?”
chiese Michael.
Al ricordo del viaggio e della gente incontrata in Trinacria,
Genisio sembrò perdere per alcuni secondi il plumbeo
atteggiamento professionale sotto il quale nascondeva i suoi
sentimenti.
“È stato molto bello. E l’accoglienza che mi hanno fatto…!
Come se fossi partito da lì la settimana prima. E invece
a partire erano stati i miei nonni, valigia di fibra, non una
parola d’inglese e tanta voglia di venir fuori dalla miseria
secolare di quella terra. A proposito: me n’ero dimenticato. Ho
qualcosa per te... ”.
Michael guardò con aria sorpresa il collega.
“Prendi, forse ti può servire”.
Consegnò a Michael Bardi un astuccio che Michael aprì
tirando fuori un antico coltello a serramanico in perfette
condizioni.
“Con questo”, disse Tom, “In Sicilia si regolano ancora gli
affari di famiglia. Ma non solo”.
Michael fece pressione sul pulsante e una lunga lama molto
affilata scattò fuori dall’impugnatura.
“Molto bello”, disse, “Ti ringrazio. Certo che i tuoi corregionari
non scherzavano”.
“Non scherzano ancora. Parliamo d’altro: speriamo che
qui vada tutto bene nelle prossime ore. Il Presidente ha deciso
di venire a parlare nella tana del giaguaro. Avrà sicuramente
le sue buone ragioni, chi lo nega?! Però la nostra squadra
deve provvedere alla security insieme alla polizia locale di cui
non mi fido per nulla”.
Michael attivò il suo microfono e dette istruzioni al team
di tenersi pronti perché l’aereo di POTUS (President of the
United States) stava per atterrare.
Il Gulf Stream bianco della CIA toccò dolcemente la pista
di asfalto e si diresse verso un’area dell’aeroporto dove un
gruppo di auto nere lo circondò.
Il Presidente in maniche di camicia e sorridente, seguito
dal ministro per l’informazione e dal direttore dell’Agenzia,
scese la scaletta ed entrò nella sua auto blindata.
La parata di auto blue, compresa l’ambulanza, si avviò verso
Lake Havasu City che distava dieci miglia dall’aeroporto.
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Poche le persone che si avventuravano a osservare il corteo
presidenziale che si muoveva verso il centro di Lake Havasu
City, la città più importante della Mohave County, (Arizona).
La temperatura aveva superato i 120 F (51 gradi C.).
Forse questa era la ragione principale. Ma poi il Presidente
non andava a genio alla maggioranza dei cinquanta mila abitanti
che per il sessanta cinque per cento votavano a destra e
non amavano che alla Casa Bianca ci fosse un liberale.
Il Presidente, visto che non doveva salutare con la mano
i cittadini che non erano usciti di casa, aveva deciso di dare
un’occhiata ai fogli che il solerte segretario gli aveva appena
consegnato:
“Lake Havasu City fondata nel 1963 sui quattordici chilometri
quadrati acquistati dall’imprenditore Robert P. Mc-
Culloch. Un tipo originale che aveva comprato dalla City of
London l’omonimo ponte, pagandolo due milioni e mezzo
di dollari. Era il 1968. Le pietre catalogate e numerate erano
state portate dall’Europa a Lake Havasu City dove il ponte
era stato ricostruito.
Oggi il London Bridge è la seconda attrattiva turistica
dell’Arizona dopo il Grand Canyon”.
“Questo proprio non lo sapevo”, disse tra sé il Presidente.
La motorcade presidenziale attraversò il ponte e si diresse
vero il resort che ne portava il nome. L’ampio parcheggio era
occupato da decine di veicoli delle televisioni locali e nazionali
per i collegamenti satellitari.
Reporters e cameramen erano stati sistemati in un settore
del grande salone dell’albergo nel quale si sarebbe tenuta
la town hall, il consiglio comunale, con la presenza di circa
cento cinquanta invitati, sindaco compreso, che erano stati
sottoposti al body scanner e ad altre indagini prima di essere
autorizzati a sedere nella sala.
I cani della squadra anti esplosivi erano stati sguinzagliati
per decine di minuti a frugare e annusare ogni angolo del
salone, provocando la reazione di giornalisti e tecnici delle
televisioni che non erano particolarmente felici di essere stati
assegnati a quella missione in un posto così infame e con quel
caldo terribile che il sistema di aria condizionata stentava a
combattere man mano che la sala si riempiva di persone e il
parco lampade veniva acceso.
Ma a riscaldare l’atmosfera avevano già contribuito alcune
suffragette del Tea Party locale che avevano concesso interviste
a radio e televisioni accusando il Presidente di sperpero
del denaro pubblico e di avere intenzione di aumentare le
tasse.
Il Presidente fece il suo ingresso scortato da un plotone
di guardie del corpo. Era espansivo e sorridente e prima di
andare al podio si attardò a stringere la mano ai parlamentari
dell’Arizona presenti e a molti dei partecipanti all’assemblea
comunale.
Poi prese posto dietro il podio, staccò il microfono dalla
base e salutate le personalità politiche e i cittadini di Lake
Havasu City cominciò a parlare, senza servirsi del teleprompter,
ma recandosi a pochi metri dalle prime file di sedie.
“I miei predecessori sono stati molto criticati quando, a
cominciare dal 1937, anno della costruzione della diga Parker
che ha dato vita al Lake Havasu, decisero di stravolgere
il deserto creando questo grande bacino artificiale che garantisce
la somministrazione dell’acqua del Colorado all’Arizona
e alla California. Un’opera ciclopica che insieme agli altri
grandi bacini più a nord, il Lake Powell e il Lake Mead ha
modificato la natura, portando ricchezza a queste regioni”.
Mentre il Presidente parlava e si asciugava il cerone che
stava colando, Michael Bardi decise di uscire dalla sala per
accertarsi di persona che le stanze intorno alla gran sala fossero
state bonificate e che i suoi uomini non allentassero la
concentrazione.
“Quegli americani che sono riusciti a realizzare in decenni
diversi queste opere” continuò il Presidente “erano dei visionari.
Guardavano al di là della loro vita politica e dei propri
interessi personali. Agivano invece nell’interesse della nazione
e del popolo americano”.
Un assistente gli porse una bottiglia di acqua depurata dalla
quale l’inquilino della Casa Bianca bevve un lungo sorso.
Anche gli avversari erano costretti a riconoscere che POTUS
aveva il talento di sapere comunicare entrando in sintonia
con le persone.
Una vecchia tecnica adottata dagli attori di teatro che
mentre recitano scrutano le facce degli spettatori che siedono
nelle prime file per vedere dalla loro espressione se riescono a
penetrarli oppure se il sonno li sta conquistando.
Il Presidente si rese conto che l’attenzione era molto alta,
anche se gran parte dell’audience mostrava scetticismo condito
da sorrisi ironici.
“Oggi siamo nella stessa situazione perché si tratta di ribaltare
dal profondo una cultura basata sul petrolio. Più di
cento anni di storia con interessi tremendi coinvolti. Ma bisogna
guardare lontano, avere una visione di lungo periodo.
Il domani per loro, per quei Presidenti, non era la conservazione
dei cactus del deserto, ma la distribuzione dell’acqua
a milioni di persone. Così pensarono e agirono i Presidenti
che mi hanno preceduto e gli uomini che hanno lavorato al
loro fianco per raggiungere questi risultati.
Il domani dei nostri figli e nipoti non è la conservazione
di una società industriale basata sull’uso di energie non rinnovabili
come i fossili destinate a esaurirsi, ma sullo sviluppo
di quelle alternative.
Arrivando qui dall’aeroporto ho visto tanti impianti di
pannelli solari installati sulle abitazioni e gli edifici pubblici.
Questi pannelli fotovoltaici sono la chiara dimostrazione di
dove deve andare il mondo a cominciare dall’America.
Questo sole che ci arrostisce è la chiave di volta per costruire
una nuova società che tragga proprio dall’astro la maggior
parte dell’energia di cui ha bisogno.
Dobbiamo limitare la nostra dipendenza energetica dai
paesi che detengono ancora i bacini petroliferi e che ci vogliono
strangolare. Dobbiamo ridurre in misura drastica
l’inquinamento che sta cambiando il sistema meteorologico
globale.
Dobbiamo intensificare i nostri sforzi per dare all’America
il primato nella tecnologia verde.
In pochi decenni la nostra Nazione ha conquistato il primato
nell’astronautica dopo lo shock dei successi sovietici.
Gli Stati Uniti hanno rivoluzionato il mondo con Internet e
la creazione di siti sociali che hanno cambiato la nostra vita
quotidiana e sono stati la scintilla che è riuscita a scatenare e
coordinare i movimenti di rinascita di tante popolazioni del
Medio Oriente che volevano affrancarsi dal giogo delle dittature
che le avevano dominate per lunghi periodi. Se vogliamo
e quando lo vogliamo noi Americani siamo in grado di dare
nuovi contenuti allo sviluppo dell’umanità”.
Un applauso di cortesia commentò l’intervento di apertura
del Presidente. Adesso la parola passava ai partecipanti.
Quelli che avrebbero parlato erano stati sottoposti prima della
riunione, a una selezione accurata.
Avevano dovuto indicare il contenuto della loro domanda.
Se qualcuno si proponeva di svicolare, magari introducendo
le offese plateali di cui il Presidente era fatto oggetto nelle
riunioni e comizi degli attivisti di estrema destra, ci sarebbero
state conseguenze di carattere penale.
Il Presidente era lì per ascoltare l’America in presa diretta.
“Signor Presidente”, disse la prima esponente del Tea Party
locale aggrappata al microfono che le avevano porto, “Con
tutto il dovuto rispetto lei è venuto a ripeterci qui, a migliaia
di miglia dalla Casa Bianca, tutte quelle cose che fanno parte
da tempo del suo show. Lei propone di guardare a quello che
hanno fatto i suoi predecessori negli anni passati. Siamo tutti
convinti che si sia trattato di uno sforzo immane fatto da persone
che sapevano dove volevano andare perché il loro obiettivo
era quello di assicurare nel futuro anche lontano acqua
a milioni di cittadini che avrebbero potuto morire di sete”.
Il Presidente ascoltava attento. Il suo sorriso si stava stemperando
in una espressione di insofferenza. La mano destra
lasciava una impronta di sudore sul radio microfono che
stringeva.
La suffragetta sempre più infervorata andava avanti nel
suo comizio.
“Oggi viene a dirci che bisogna rivedere la nostra cultura
del petrolio per sostituirla con quella delle energie alternative.
Ma nel frattempo che facciamo noi? Smantelliamo le reti
di rifornimento e le sostituiamo con cosa? Cancelliamo le
centrali a carbone e quelle nucleari e le sostituiamo con cosa?
Lei sa bene che la tecnologia delle fonti alternative è ancora
allo stato embrionale… dove sono i posti di lavoro che lei ha
promesso in tutti questi anni… ?”.
Il microfono della donna ammutolì e un assistente si precipitò
a toglierlo dalle sue mani nonostante protestasse che lì
si usavano delle misure antidemocratiche perché si toglieva
ai cittadini la possibilità di manifestare il proprio pensiero e
dissenso.
Il Presidente recuperò il suo sorriso da ottimo attore. E
rivolgendosi alla donna che aveva parlato le disse:
“Lei ha perfettamente ragione nel ricordarmi che da tempo
vado sostenendo le stesse cose. Ovvero la necessità di voltare
pagina e pensare seriamente al futuro dei nostri figli e
dei nostri nipoti. Ma il mestiere di un politico che abbia a
cuore gli interessi della gente che lo ha eletto, non è quello di
pensare al suo particolare.
Come vostro Presidente da tempo ho buttato il mio cuore
e tutte le mie energie in questa crociata che deve aprire gli
occhi al popolo americano, facendo capire che se non si prendono
le giuste decisioni oggi, il nostro domani sarà all’insegna
del disastro e della subalternità da altri che possono
dominarci usando il rubinetto dei loro pozzi… ”.
Il Presidente continuò a esporre il suo programma scendendo
nei dettagli e cercando di dimostrare che le nuove tecnologie
già stavano garantendo un recupero della disoccupazione
che dalla prima pesante recessione del 2008 continuava
a penalizzare l’economia americana.
giovedì 4 giugno 2015
Capitolo 36 del Giallo "W.D.C sotto traccia"
Il Gulfstream 450 atterrò al McCarran International Airport
alle 18:30 ora di Las Vegas e del Nevada.
Si diresse vero l’area dell’aviazione civile. Una limousine
nera stava attendendo il viaggiatore che scese dalla scaletta
dell’aereo accompagnato dalla bionda hostess che sollevava
un piccolo carry-on.
Nonostante il caldo atroce che lo accolse nel breve tragitto
sino alla macchina, Cardoni indossava un completo scuro
con cravatta gialla fantasia.
L’auto uscita dal recinto dell’aeroporto percorse poco più
di un miglio sulla Tropicana Avenue e dopo una svolta a sinistra
entrò nell’East Tropic del New York-New York Hotel.
Dopo la coda al ricevimento, in mezzo a gruppi di turisti
in calzoni corti venuti a Vegas per il fine settimana e dopo
essersi fatto assegnare la suite, Cardoni sali nel suo appartamento
al dodicesimo piano della Torre.
Una volta entrato compose sul telefono interno lo zero e
chiese all’operatore di metterlo in contatto con Mr. Gutierrez.
232
Il telefono squillò nella camera dell’onorevole per cinque
volte.
“Hello?”, rispose con voce strana Gutierrez. “Chi è?”.
“Sono io, appena arrivato da Washington... ”.
“Ehm... sono un po’ occupato. Sarò pronto tra un quarto
d’ora. Il numero della suite è 214, ascensore B”.
Cardoni si mise in poltrona a seguire su CNN le ultime
notizie. Si versò un bicchiere di San Pellegrino fredda da una
bottiglia appoggiata in un secchiello di ghiaccio insieme a
una piccola di champagne.
Erano trascorsi venti minuti e Cardoni uscì dalla suite si
diresse all’ascensore insieme a un paio di coppie che già amoreggiavano
prima di arrivare a destinazione.
Individuata la porta con il numero 214 Cardoni suonò il
campanello. La porta si aprì automaticamente.
Ma Cardoni dové farsi da parte prima di entrare perchè
dalla camera stava uscendo una incantevole creautura creola,
arrampicata su tacchi altissimi e inguainata in una mini superaderente
dai colori di Emilio Pucci.
“Vieni avanti, caro Cardoni”, disse l’onorevole Gutierrez,
camicia bianca di lino sbottonata sin quasi alla vita. Petto
villoso incanutito e pantaloni neri di seta.
Ovviamente mocassini indossati a nudo, cosa che urtava
terribilmente la seriosa compostezza di Cardoni.
Gutierrez si alzò dalla poltrona e abbracciò formalmente
l’amico che prese posto nella poltrona di fronte alla sua.
Nel mezzo un tavolo con un vassoio di liquori e secchiello di
champagne Veuve Clicquot.
“Tu non bevi alcoolici, vero?”, disse sorridendo Gutierrez.
“Io invece mi faccio un po’ di bollicine”.
Si versò un flute di champagne.
“Hai visto che schianto quella ragazza che è uscita poco
fa?” continuò. “Il bello di questa nazione è che tutto si compra
e tutto si può affittare. L’importante è avere i soldi per
pagarsi il meglio. E questa signorina mi ha rimesso a posto
per un migliaio di dollari. Ne valeva la pena”.
Cardoni nel corso della sua lunga esperienza di massone
prima e di responsabile del Rock dopo, aveva imparato a
convivere con le persone più disgustose che in genere erano
quelle che bisognava frequentare. Perché avevano il potere.
Ma ogni volta che si incontrava con questo onorevole
messicano sentiva una sorta di allergia montargli dentro lo
stomaco. Di lui tutto lo infastidiva: il body language, la sfrontatezza
del linguaggio, l’arroganza del denaro profuso a palate
per tacitare i suoi vizi e quelli delle persone a lui vicine.
Ma c’era un aspetto della personalità di Gutierrez che lo
interessava riuscendo a compensare i difetti di comportamento.
Ed era la capacità di vedere lontano in maniera semplificata,
disegnare scenari che solo una persona dotata di
‘visione’ era in grado di fare.
“Che ci facevi a Washington?” chiese l’onorevole.
“Dovevo vedere degli amici che lavorano in alcuni dipartimenti
dell’amministrazione”.
“Bene: io sono arrivato questa mattina da Acapulco. Due
giorni fa ho fatto quella visita in Colombia di cui ti avevo
accennato”.
Edmundo Gutierrez si alzò e si diresse verso il mobile che
ospitava il lettore blu-ray dei DVD e l’impianto stereo. Armeggiò
sul sintonizzatore radio, scegliendo un canale di musica
cubana e alzò il volume al massimo.
“Vieni vicino a me” disse a Cardoni, “Così possiamo parlare.
E se c’è qualche cimice inserita da qualche parte non
potranno sentirci”.
“La situazione sta precipitando: tutti contro tutti”, disse
Cardoni lisciandosi l’ampia barba. “Gli arabi hanno deciso
di intensificare gli attacchi questa volta assumendosene la paternità
in pieno e non facendosela attribuire dalla mafia russa
come nel caso di Roma. Se jihad deve essere che lo sia”.
Edmundo Gutierrez ascoltava osservando attentamente il
volto del suo interlocutore. Che tipo questo Cardoni. Così
pieno di sé e pomposo. Uno convinto di essere l’ombelico del
mondo, mentre anche lui era una pedina, sia pure di riguardo
nelle mani di altri burattinai.
E dire che Cardoni era convinto lui di essere il puppetier,
il burattinaio. Il suo inglese italianizzato talvolta gli suscitava
un po’ di ilarità. Ma Gutierrez cercava di non farla trasparire.
Del resto Cardoni era molto utile per i rapporti di business
che avevano intrecciato da tempo tra i due gruppi di cui loro
erano i rappresentanti. L’importante era fare soldi, tanti e in
breve tempo.
“Il colpo di teatro più grosso”, continuò Cardoni, “deve
essere l’assassinio del Presidente che ormai sta convincendo
il mondo occidentale a puntare tutte le risorse sulle energie
alternative, anziché sul petrolio”.
“Hai visto cosa hanno deciso i giapponesi?”, chiese Gutierrez,
“Dei cinquanta quattro reattori presenti in Giappone
ne sono rimasti solo quindici funzionanti, dopo Fukushima.
Anche gli undici impianti per i quali è stato terminato l’iter
dei controlli non saranno avviati fino a ulteriori stress test.
Intanto sta prendendo piede il 'setsuden', il risparmio di elettricità,
e i giapponesi si rendono conto dell’importanza di
adottare stili di vita sostenibili”.
“In questa situazione che facciamo? Restiamo a guardare?”.
La domanda raggiunse Gutierrez come un cazzotto al
plesso solare. Perché tradotta dal vocabolario diplomatico
significava: “Facile criticare e riferire di scenari che tutti conosciamo.
Ma quali progetti concreti per il futuro?”.
Gutierrez in altri momenti si sarebbe incazzato e avrebbe
risposto per le rime a quell’italiano insopportabile. Ma il trattamento
di mille dollari per un’ora fattogli da quella superba
creola gli aveva dato serenità unita a un piacevole senso di
spossatezza.
“Io non resto a guardare”, rispose servendosi ancora un
bicchiere della vedova francese. “Gli scenari sui quali sui quali
ti stai soffermando non sono il ‘dopo’ che invece è diverso
e si sta preparando anche se molti fanno finta di non vederlo.
Oppure non sono attrezzati intellettualmente per anticiparlo”.
La risposta molto sibillina lasciò visibilmente interdetto
l’anziano barbuto personaggio. Che rivolse a Gutierrez
un’occhiata interrogativa.
“Ti avevo accennato che avrei fatto un sopralluogo in
Colombia. Là non stanno pettinando le bambole, pensando
solo a cosa faranno gli arabi. Là agiscono e preparano il futuro
in fretta. E fanno quattrini e ce ne fanno fare. Sempre di
più. Ma lo scenario non si esaurisce con il Sud America che
risponde bene alla domanda di cocaina del mercato statunitense...”.
“Quale sarebbe questo ulteriore, interessante scenario?”, la
domanda di Cardoni grondava ironia mal trattenuta.
Gutierrez sarà stato un poco di buono, ma non era stupido,
non raccolse e andò avanti a delineare uno scenario i cui
contorni erano per lui definiti da tempo.
“Con l’uscita degli americani dall’Afghanistan i mercati
sono inondati di droga a basso prezzo. La domanda cresce
così come crescono i prezzi perché il trasporto e la vendita al
dettaglio sono diventati sempre più costosi e rischiosi.
Il domani, caro prof. Cardoni, è la droga. Arabi, il presidente
degli USA, la Jihad sono tutte balle. Il domani è la
droga, ma non quella tradizionale. Il domani è delle droghe
sintetiche. Marijuana e cocaina sintetiche oggi sono considerate
inferiori rispetto a quelle ‘naturali’.
Ma hanno lo stesso potere e il numero crescente di persone
che si rivolgono alle strutture ospedaliere perché intossicate
da droghe sintetiche è la più chiara conferma che il futuro
è quello delle droghe chimiche”.
Cardoni, mentre Gutierrez faceva la sua esposizione, aveva
adocchiato un biglietto da visita vicino al carrello dei liquori.
“Basta pensare al boom dei ‘bath salts’, per i quali la richiesta
del mercato americano è in continua espansione. Al
punto che la Drug Enforcemaint Administration, ha stabilito
di mettere fuori legge cinque sostanze che vengono usate
per la preparazione di questa droga. Insomma, Cardoni: hai
presente la birra?”.
Cardoni era stato colto di sorpresa: “Che c’entra la birra
con le droghe, scusa... ?”.
“C’entra eccome. La birra viene prodotta da laboratori che
sono sparsi in una rete che accontenta immediatamente la
domanda locale. Ci sono le eccezioni di marche straniere. Ma
il grosso del consumo riguarda etichette che hanno creato
una serie di stabilimenti regionali che offrono un prodotto
fresco e di buon livello qualitativo.
Lo stesso sta avvenendo per le droghe sintetiche. Laboratori
locali, a portata di mano e di consumatore, stanno sorgendo
dappertutto. Si tratta adesso di controllarli e coordinarli
con strutture centralizzate.
Con questo non ti voglio dire che la cocaina dalla Colombia,
via Messico, smetterà di arrivare. Ma certo in quantità
minore rispetto alla situazione odierna. Ecco perché i cartelli
stanno già organizzandosi per controllare le migliaia di laboratori
del sintetico sparsi in tutta la Federazione”.
Cardoni aveva ascoltato con attenzione l’onorevole Gutierrez.
“Riparliamone domani”, disse. “Adesso mi sta venendo il
jetlag e ho bisogno di riposare”.
Salutò Gutierrez che si era avviato ad aprirgli la porta e
uscì.
Entrato nella sua suite tirò fuori dalla tasca il biglietto da
visita che aveva preso dal tavolo dei liquori nella camera di
Gutierrez, sul quale spiccava la parola ‘Companions’, il numero
di telefono e il web.
Aperto il suo portatile andò sul sito e cliccò su Ebony, tralasciando
Asian, Blonde e Brunette. Nella lista che gli apparve
sul piccolo schermo scelse Diamond. Sì, era proprio lei la
escort che aveva incrociato entrando nella suite di Gutierrez.
Compose il numero di telefono. La ragazza era disponibile
e sarebbe arrivata entro un quarto d’ora. Il pagamento doveva
essere effettuato con carta di credito o cash direttamente
alla escort.
Suonò il campanello della suite.
Cardoni andò ad aprire, molto emozionato perché non era
abituato a queste avventure di viaggio. Ma quella ragazza vista
per pochi secondi gli era entrata nel sangue e nella mente.
Diamond sorrise e dopo avere messo nella borsetta i dieci
biglietti da cento che l’anziano cliente aveva preparato sul tavolo,
chiese con aria professionale se lui aveva delle richieste
particolari.
“No”, balbettò l’inesperto cliente.
Diamond cominciò a spogliarsi lentamente. Una volta
nuda si avvicinò a Cardoni e lo liberò della camicia e cravatta.
Poi fu la volta dei pantaloni. Sorrise nel vedere che il
Cardoni portava lunghi boxer e le giarrettiere che reggevano
i calzini.
Cardoni aveva chiuso gli occhi disteso sul lettone della camera
e lasciava che Diamond lo lavorasse con grande tecnica
professionale.
Erano anni che non si concedeva ai piaceri del sesso. Un
sesso come quello, vissuto all’insegna della massima libertà
insieme a un corpo giovane e bellissimo il cui contatto lo
rigenerava, gli infondeva energia.
Diamond si impegnava da qualche minuto per avere un
minimo di risposta da quel pene avvizzito.
Finalmente il suo blow job trovò il felice epilogo. Cardoni
s’irrigidì in un lungo orgasmo, un piacere che aveva dimenticato
potesse esistere.
La sua rigidità si prolungò a causa dell’infarto fulminante
che lo colse. La cosiddetta ‘dolce morte’.
Diamond resasi conto di quello che era successo, si rivestì
in fretta pronunciando una sequela di ‘cazzo’ e uscì dalla
suite.
Quello era il secondo caso che le capitava in un mese. Ma
che cazzo di mestiere era il suo?! La direzione dell’albergo
con migliaia di camere avrebbe risolto con discrezione questo
ennesimo incidente attribuendo la causa dell’infarto all’affaticamento
e allo stress.
mercoledì 27 maggio 2015
Capitolo 35 del giallo "W.D.C sotto traccia"
Il taxi si fermò di fronte alla bianca scalinata della House
of Temple. Anche se il vero nome era: "Home of The Supreme
Council, 33°, Ancient & Accepted Scottish Rite of
Freemasonry, Southern Jurisdiction, Washington D.C.
Cardoni, dopo avere pagato la corsa e richiesto una ricevuta,
uscì dalla macchina e cominciò a salire, dando un’occhiata
alle due sfingi poste ai lati della scala.
La House of Temple era uno dei luoghi della Washington
massonica più conosciuti non solo dai Fratelli in visita
da tutto il mondo ma anche dai turisti ‘normali’ attratti per
motivi di studio dalla notorietà della sua grande biblioteca
con decine di migliaia di volumi sull’Istituzione e contro l’Istituzione.
L’ex gran maestro e artefice della creazione del Rock saliva
con una certa fatica, reduce com’era da un infarto che lo aveva
colpito sei mesi prima e dal quale si era ripreso adottando
una ferrea dieta che gli aveva fatto perdere venti chili dell’imponente
corporatura.
Erano le quattro di un pomeriggio autunnale, con un cielo
grigio plumbeo che prometteva pioggia e temporali confermati
dalle accurate previsioni meteo.
L’orario per l’accesso dei turisti in visita alla House of
Temple era da tempo scaduto. Così Cardoni arrivato, soffiando
come un tricheco, alla sommità della lunga scala di
marmo, si trovò di fronte la porta dell’ingresso principale ermeticamente
chiusa e suonò il campanello.
Lunga attesa di qualche minuto e alla fine vide attraverso
le vetrate della porta arrivare un tale di nero vestito.
“Buon pomeriggio, signor Cardoni. Sono il segretario del
Grand Commander che l’attende nel suo studio”.
Il segretario sulla cinquantina introdusse Cardoni nel
grande ingresso contornato da immense colonne. Man mano
che procedevano illustrava all’ospite gli aspetti salienti dell’edificio.
“Il tempio è stato disegnato dall’architetto John Russell
Pope che all’epoca, si parla del 1911, aveva solo 27 anni.
Pope si ispirò al Mausoleo di Alicarnasso, considerato una
delle Sette Meraviglie. Dopo soli quattro anni e cioè il 18
ottobre del 1915 l’edificio veniva inaugurato”.
Cominciarono a salire una scala che si divideva in due
volute arrivando sino al tempio principale nel quale l’illuminazione
prevalente era quella naturale per ricordare che i
massoni, dopo un lungo percorso di autoperfezionamento,
sono alla ricerca della ‘luce’.
Sull’altare centrale erano appoggiati, oltre alla Bibbia,
anche i volumi sacri di altre religioni (ebraica, musulmana,
indu, buddismo, etc.) perché i massoni di tutto il mondo credono
nel Grande Architetto dell’Universo che tutti unifica.
Non è concepibile alcuna azione ‘pastorale’ all’insegna de: “Il
mio dio lava meglio del tuo”. Ed è anche questa la ragione su
cui poggiano le accuse di ‘relativismo’ da parte della gerarchia
cattolica.
Il segretario si soffermò di fronte a una cripta.
“Nel 1944 i resti del generale Albert Pike furono rimossi
dalla tomba nel cimitero di Oak Hill e ne fu autorizzata la
sepoltura in questa cripta. Pensi che Pike aveva dato disposizioni
di essere cremato. Dall’altro lato nel 1952 fu sepolto
il corpo di John Henry Cowles, Grand Commander per 31
anni. Lei sicuramente saprà che Albert Pike è stato colui che
ha rigenerato lo Scottish Rite”.
Il segretario nero vestito si prese qualche minuto nell’illustrare
la figura del Generale, unico confederato di cui si conservava
una statua a Washington DC. Uomo ‘rinascimentale’,
conoscitore di lingue morte (latino, greco, sanscrito),
e inglese, francese e spagnolo, episodi tumultuosi nella sua
vita professionale di avvocato. Prolifico scrittore e oratore,
corporatura massiccia e chioma fluente che si incatenava in
una grande barba, Albert Pike è una delle figure più incisive
della massoneria americana.
Cardoni sapeva tutto, ma per cortesia mostrava molta attenzione
all’esposizione.
Dopo avere viaggiato e vissuto nel Missouri, a New Orleans,
in Arkansas e avere partecipato alla guerra contro i
messicani e a quella civile, Albert Pike si trasferì finalmente
a Washington dove gli fu affidato il Rito Scozzese in qualità
di Gran Commander, carica che tenne per 32 anni sino alla
morte.
Nel 1871 scrisse “Morals and Dogma of the Ancient and
Accepted Scottish Rite of Freemasonry”, un tomo di 860 pagine
che ha suscitato adesioni ma anche frementi proteste da
parte degli ambienti cattolici (che accusavano Pike di satanismo.
Questo il segretario non lo disse, ma venne in mente a
Cardoni).
Erano ormai arrivati alla porta dello studio del Grand
Commander che attendeva seduto dietro la sua ampia scrivania
con al lato il Gran Maestro della Gran Loggia di Washington DC.
Rapida stretta di mano, ma il volto del Grand Commander
era visibilmente scuro e altrettanto accigliato era il Gran
Maestro di Washington DC.
“Signor Cardoni la stiamo ricevendo solo a seguito delle
molte insistenze da parte dei suoi uffici. Abbiamo annullato
tutte le richieste di incontro, salvo la sua perché viene dall’Italia.
Lei sa bene che siamo ancora sotto shock per la tragedia
che si è consumata un mese fa nello Scottish Rite Center,
dove il nostro carissimo Fratello Andrew è stato ucciso in
maniera barbara e senza alcuna giustificazione plausibile. Le
indagini sono ancora in corso, ma al momento le autorità
investigative brancolano nel buio. Ci hanno comunque imposto
di aumentare le misure di sicurezza”. E indicò all’ospite
una poltrona.
Cardoni, tentò di sorridere, ma l’atmosfera era tesa e non
certo cordiale.
“Mi rendo conto”, disse, “È stata una notizia che ha sconvolto
i Fratelli di tutto il mondo massonico”.
Il Grand Commander non era in vena di salamelecchi e
puntando un dito verso Cardoni, in maniera poco educata,
gli disse:
“A proposito: abbiamo assunto molte informazioni sul
suo conto presso i fratelli italiani. Ci è stato confermato che
lei non fa più parte di alcuna Obbedienza massonica. Allora
vorrei essere molto chiaro: noi la stiamo ricevendo in qualità
di studioso di materie esoteriche. Questo incontro viene registrato
da quella telecamera”.
Cardoni era abituato da una vita a tirare di fioretto con
avversari e concorrenti. Ma questa volta si trattava di evitare i
fendenti con la spada che il suo interlocutore aveva iniziato a
dargli sin dall’inizio del loro burrascoso incontro.
Gli venne in mente una metafora che gli era stata raccontata
da un monaco scintoista maestro di arti marziali. “Judo”
significa la ‘via facile’. Non opporre resistenza a violenza ma
piegarsi come fa il salice piangente sotto il peso della neve,
scaricarla e riassumere la posizione originaria. I rami rigidi
degli altri alberi si spezzavano, invece.
“Gentile Grand Commander, lei ha perfettamente ragione.
Non ho più alcun riferimento con le Obbedienze massoniche
italiane. Ma, come le è ben noto, una volta massone lo
sei per tutta la vita. Una sorta di sigillo sacerdotale anche se
noi insistiamo nel dire che l’Istituzione non è una religione
ma una forma di vita. Ho chiesto questo incontro perché ci
tenevo a confrontare con voi alcuni aspetti della vita del generale
Albert Pike che potrebbero essere di estrema attualità
oggi”.
Il capo del Rito Scozzese e il Gran Maestro di Washington
si sentivano presi in contropiede da quell’italiano, così viscido
e ossequioso. Si scambiarono un’occhiata interrogativa.
“Che cosa intende dire?” chiese il Grand Commander sospettoso.
“Adesso farò loro sapere le motivazioni che sono alla base
della mia richiesta di incontro. Quanto alla figura del sottoscritto
desidero ricordare a Lor Signori che ho costituito da
tempo un club chiamato ‘Rock’ la cui importanza sono sicuro
che vi sarà manifesta. Si tratta di un’organizzazione che
annovera tra i propri membri i massimi rappresentanti della
professioni, della politica, delle arti, dell’economia e della finanza.
Pertanto, considerato con molta attenzione l’esplicito
inizio da parte vostra di questo incontro, a mia volta voglio
sottolineare che questo studioso di scienze esoteriche, secondo
la vostra definizione, non è qui a titolo personale, ma rappresenta
una platea di tutto rispetto a livello mondiale”.
Il Grand Commander prese da un cassetto della scrivania
una pallina piena di silicone, di quelle che servono per scacciare
lo stress e cominciò a strizzarla passandola da una mano
all’altra.
Il Gran Maestro aveva invece abbassato lo sguardo e controllava
la lucentezza delle sue scarpe Church.
“Posso continuare?” chiese con voce sommessa Cardoni.
Con la mano il capo del Rito Scozzese fece un gesto eloquente.
“Entrando nel vivo della richiesta di un incontro con voi,
desidero richiamare la vostra attenzione sulla corrispondenza
epistolare che Albert Pike ha avuto con il nostro Giuseppe
Mazzini… ”.
“Lei si sta riferendo a una storia la cui falsità è stata dimostrata
centinaia di volte e che continua a essere ripresa dai siti
antimassonici che vomitano accuse contro la nostra Istituzione
campate in aria e senza alcun fondamento di veridicità”.
La risposta del Grand Commander fu pronta come se il
copione fosse stato studiato in precedenza conoscendo in
anticipo quale sarebbe stata la materia dell’interesse dell’ex
massone venuto da Roma.
“In tutta sincerità mi attendevo questa sua reazione. È
vero che non esistono prove dell’esistenza di questo carteggio
tra Pike e Mazzini che sembra essere sparito in Inghilterra.
Tuttavia le migliaia di citazioni che vengono fatte su libri
e blog in tutto il mondo sembrano essere la conferma che
qualcosa di vero dovrà pur esserci stata in questa storia… ”.
“Sono sbalordito dalla leggerezza con la quale un massone
come lei che ha ricoperto incarichi di grande prestigio,
prende come buona una sequela di fandonie che mirano solo
a screditare Albert Pike, Giuseppe Mazzini e tutta l’Istituzione”.
La pallina riempita di silicone rischiava di sbriciolarsi sotto
le dita del Grand Commander che aggiunse: “Sono sicuro
che adesso lei ci parlerà degli Illuminati e della loro influenza.
Si tratta di una sceneggiatura che abbiamo letto tante volte.
Le vorrei ricordare che, mentre in Italia la massoneria è sempre
stata osteggiata dal Vaticano che non ha mai digerito che
i massoni padri del Risorgimento avessero potuto annientare
il potere temporale dello stato papale, noi, qui in America
abbiamo vissuto tra il 1828 e il 1838 la nascita del Partito
Antimassonico che ha trovato una grande risposta in un certo
tipo di opinione pubblica influenzata da movimenti religiosi.
Molti fratelli ne hanno fatto le spese e hanno dovuto
vivere sotto traccia… ”.
Cardoni sentiva ora che i due di fronte a lui si erano rifugiati
in difesa e riprese a parlare:
“Ricordo bene… La sparizione di William Morgan, il
massone di Batavia, New York è stata la scintilla che ha fatto
scattare il movimento antimassonico. I fratelli vennero accusati
di averlo eliminato perché aveva intenzione di pubblicare
i segreti dei rituali”.
“Oggi quei segreti sono talmente segreti che lei li trova
descritti in ogni dettaglio in un’infinità di volumi venduti
nelle librerie”, intervenne il Gran Maestro stanco di guardarsi
le scarpe.
Cardoni dedicò un sorriso di compatimento all’osservazione
del capo dei massoni di Washington e proseguì:
“Rimaniamo al carteggio tra Giuseppe Mazzini e Albert
Pike. Sparito, distrutto da chi aveva interesse a che non fosse
ulteriormente divulgato. Ma come è successo per i Vangeli
apocrifi, vi sono molte versioni di quel carteggio e tutte
coincidono con la previsione fatta con precisione dal generale
Albert Pike sullo scoppio delle tre Guerre Mondiali. Vorrei
limitarmi a quella che descrive la prossima Terza Guerra
Mondiale… ”.
Il fondatore del Rock aprì la borsa diplomatica che si era
portata dietro e ne trasse alcuni fogli con riproduzione in
PDF di alcune pagine scritte con calligrafia ornata e precisa.
Li passò ai suoi ospiti perché osservassero, aggiungendo: “Siete
profondi conoscitori della produzione letteraria di Albert
Pike per non riconoscere che si tratta della sua calligrafia… ”.
Il Grand Commander restituì i fogli dicendo: “Esistono
decine di contraffazioni degli scritti del generale… ”.
“Va bene” sospirò Cardoni, “Ammettiamo per un momento
che si tratti invece di uno scritto autentico. Mi limito solo
a leggere quanto il generale scrisse sulla Terza Guerra Mondiale
dopo avere previsto le prime due che si sono avverate
secondo le sue precise indicazioni”. E cominciò a leggere.
“La Terza Guerra Mondiale sarà fomentata approfittando
delle differenze causate dagli agenti degli Illuminati tra
i politici Sionisti e i leaders del Mondo Islamico. La Guerra
sarà condotta in maniera tale che l’Islam e lo Stato di Israele
si distruggeranno a vicenda. Nel frattempo le altre nazioni,
una volta di più divise su questo problema, saranno costrette
a combattere sino al punto di di un completo esaurimento
fisico, morale, spirituale ed economico. Noi daremo spazio ai
nichilisti e agli ateisti e provocheremo un formidabile cataclisma
sociale che, in tutto il suo orrore, mostrerà chiaramente
alle nazioni gli effetti dell’ateismo assoluto, le origini di un
regresso all’inciviltà e ai bagni di sangue. Allora, ovunque,
i cittadini costretti a difendere se stessi contro le minoranze
rivoluzionarie stermineranno i distruttori della civiltà e
le moltitudini disilluse dalla Cristianità, i cui spiriti deistici
saranno senza una bussola né una direzione, ansiose di trovare
un ideale ma senza conoscere a chi indirizzare la loro
adorazione, riceveranno la vera luce della universale e pura
manifestazione di Lucifero, portata finalmente alla visione di
tutti. Questa manifestazione porterà a una generale reazione
che seguirà la distruzione sia della Cristianità che dell’ateismo.
Ambedue conquistati e sterminati nello stesso tempo”.
Cardoni dopo avere terminato la lettura fece una pausa
mentre i due massoni lo guardavano con volto impassibile e
concluse:
“Tutto si può dire sulla autenticità o meno di questo scritto.
Ma gli avvenimenti che caratterizzano la scena mondiale
corrispondono a quanto immaginato da Albert Pike, a cominciare
dal minacciato conflitto tra arabi e Israele”.
“Le confermo, disse in maniera ultimativa il Grand Commander,
che si tratta di una bufala che abbiamo già esaminato
a fondo. Del resto non possiamo perdere il nostro tempo
inseguendo i mitomani che affollano con i loro scritti le librerie
e Internet. Nella sua esposizione lei ha dimenticato di fare
riferimento a qualcuna delle 6338 profezie di Nostradamus
che forse potrebbero essere ancora più attinenti”.
Un sorriso di scherno illuminò il volto del Gran Maestro
di Washington D.C. che approvò con un cenno del capo.
“Va bene”, aggiunse Cardoni, “rispetto e comprendo il
vostro punto di vista. Ma scendiamo sul pratico: la Terza
Guerra Mondiale si scatenerà nello scontro tra la civiltà del
petrolio e quella delle energie alternative. ‘Rock’ è dalla parte
dei produttori e raffinatori di petrolio perché siamo coscienti
che l’insistenza ad esempio della Casa Bianca sulla riduzione
delle importazioni di greggio e l’investimento di ingenti
risorse in fonti energetiche non inquinanti determinerà un
quadro di estrema conflittualità. Questa la nostra proposta:
siamo disponibili a versare al Rito tre milioni di dollari per
le vostre attività caritatevoli se vorrete prendere posizione a
favore della nostra tesi”.
Il Grand Commander si alzò e appoggiando le mani sullo
scrittoio della sua scrivania disse: “Capisco bene perché lei
non faccia più parte di alcuna Obbedienza massonica. Lei
non è un Fratello ma, con tutto il dovuto rispetto, un faccendiere
internazionale. Noi massoni non trattiamo argomenti
religiosi o politici. Pertanto la sua proposta non la riceviamo
e la consideriamo mai formulata in questo ufficio. Buona
sera”.
Cardoni provò ad allungare la mano per la stretta di commiato,
ma il gesto venne ignorato. Il segretario, che aveva
assistito all’incontro seduto in disparte, accompagnò l’ospite
straniero all’uscita.
Cardoni scese la lunga scalinata tra le due sfingi e arrivato
sulla Sedicesima Street provò a fermare un taxi senza successo.
A Washington, quando piove nessuno ti fila. A cominciare
dai tassisti.
Coprendosi il capo con la borsa di pelle si avviò sconsolato
verso il suo hotel, il Jefferson, che stava sulla stessa strada ma
ad almeno venti minuti di distanza a piedi.
venerdì 22 maggio 2015
Capitolo 34 del giallo "W.D.C sotto traccia".
A jungle area in Timbiqui, in south-western Colombia.
“Ecco, Onorevole: quello che vede è l’ultimo modello di
sottomarino appena mimetizzato con i colori verde e celeste”.
Mauricio Herrera era impegnato a illustrare a Edmundo
Gutierrez le caratteristiche tecniche e operative dell’ultimo
nato del piccolo cantiere nella giungla. I due erano circondati
da un manipolo di guardie schierate, armate di fucili
mitragliatori.
“Interessante” sottolineò Gutierrez, “Mi racconti come è
nato il progetto e come si è evoluto nel tempo... ”.
“I primi modelli sono stati messi in acqua nel 2000. Erano
semisommergibili, navigavano sotto il pelo dell’acqua e venivano
facilmente identificati perché avevano una torretta che
sporgeva e lo scarico del motore elettro-diesel. Questo invece
è un vero sottomarino. Vede: è costruito in fibra di vetro e
legno per non essere identificato dal radar o dal sonar. Ha
due motori con un serbatoio di nafta di 5700 litri e una autonomia
di 3200 chilometri. Viaggia a undici chilometri all’ora
ovvero 5.9 nodi. Ha un equipaggio di tre persone e può portare
dieci tonnellate di cocaina dalla Colombia al Messico”.
“Quanti ne lanciate adesso?”.
Mauricio Herrera si strinse nelle spalle. “Non ho dati aggiornati
globali. Ma per quanto riguarda la nostra ‘azienda’
organizziamo circa quattro spedizioni al mese”.
Edmundo Gutierrez si mise a sedere su una delle sedie pieghevoli
e prese da un tavolino da campeggio un bicchiere di
limonata potenziata con vodka gelata. L’aria in quello spiazzo
in mezzo alla giungla era molto pesante con un’umidità che
sicuramente era intorno al cento per cento. Tutti sudavano
copiosamente.
“Ma se la guardia costiera colombiana o quella messicana
intercettano un sottomarino... ?” chiese l’onorevole.
Mauricio Herrera sorrise: “Quando vengono scoperti l’equipaggio
in un minuto affonda il sottomarino e aspetta in
acqua che la polizia li tiri a bordo. Le normative attuali impediscono
di metterli in galera se non ci sono prove schiaccianti.
È anche vero che gli americani stanno spingendo per una
modifica della legge che consenta di imprigionare anche sulla
base di un reale sospetto. Che ci fanno tre o quattro persone
a bagno in mezzo all’oceano?”.
Gutierrez si asciugò il sudore dalla fronte e dal collo con
una salvietta di carta e affrontò il secondo bicchiere questa
volta di ottima Tequila, non senza avere prima leccato il sale
che aveva messo sul dorso della mano sinistra...
“Quanto li pagate?”, chiese.
“Circa tremila dollari a testa. Che sono niente per noi,
ma per loro rappresentano una fortuna e un grosso aiuto alla
famiglia”.
“Quanti cantieri avete?”.
“Abbastanza”, rispose Mauricio Herrera senza scendere nei
particolari. Era un po’ nervoso. Quell’onorevole Gutierrez
che era stato raccomandato dalla centrale narco, doveva essere
un uomo di rispetto. Lo si vedeva e capiva subito. Ma lui
non era tenuto a scendere nei dettagli ma solo a dare informazioni
di carattere generale.
“I cantieri sono situati nei vari fiumi fangosi della costa colombiana
che si gettano nel Pacifico. Come vede, onorevole,
il fiume ogni tanto si allarga in qualche insenatura dove costruiamo
il bacino e iniziamo la costruzione che ormai viene
fatta in gran parte con prefabbricati che arrivano da diverse
parti del paese. Un luogo come questo è protetto dalle mangrovie
e dalla vegetazione tropicale”.
“Quanto costa un sottomarino?”, chiese ancora Gutierrez
che aveva fatto segno a una delle guardie di riempirgli di
nuovo il bicchiere di Tequila. “Ottima!” disse.
“La distilliamo noi, Onorevole. Quanto al sottomarino
dipende dalla lunghezza e dalla capacità di carico. Uno come
questo va sui due milioni di dollari e ci vuole circa un anno
per costruirlo. La maggior parte di questi natanti è destinata
a un solo viaggio che se va a destinazione rende un bel po’ di
guadagno... ”.
“Non meno di quattrocento cinquanta milioni di dollari”,
commentò Gutierrez accendendosi un sigaro.
Il sole stava calando e l’aria si era leggermente rinfrescata.
Gli operai che lavoravano al sottomarino si erano allontanati
diretti alle tende nelle quali dormivano, qualcuno insieme
alla propria donna.
“Ma come fanno a navigare e a orientarsi per centinaia di
miglia in uno spazio così ristretto” chiese ancora Edmundo
Gutierrez, anche se l’interrogatorio cominciava a mettere sul
chi vive Mauricio Herrera che aveva imparato sino da bambino
a non fidarsi di nessuno. Meno che mai dei cosiddetti
amici.
“Hanno il GPS che viene alimentato dalle batterie dei due
motori che hanno, come in questo modello, una potenza di
400 cavalli. E poi c’è la rete... ”.
“Che sarebbe?”.
“I cartelli più importanti hanno deciso di creare una rete
di pescherecci d’alto mare, ognuno dislocato in un settore
preciso. Questi grossi pescherecci sono un punto di riferimento
stabile per gli equipaggi che possono rifornirsi di viveri
e carburante, quando emergono”. Si trattava di informazioni
super vecchie che erano state pubblicate anche dai
media. Quindi non compromettenti.
“Mauricio: lei poco fa ha detto che il radar e il sonar non
riescono a identificare questi nuovi sottomarini che sono
costruiti in fiberglass. E allora come vengono identificati?”,
chiese pensieroso Gutierrez morsicando il sigaro.
“A vista, dall’aria, Onorevole. Anche se come vede cerchiamo
di mimetizzarli. E poi lo scarico dei motori avviene attraverso
un lungo tubo che esce dalla poppa del sottomarino
per ridurre la possibilità di essere intercettato agli infrarossi.
Purtroppo per noi i voli della guardia costiera e della polizia
si sono intensificati e anche il numero di sottomarini scoperti
in navigazione sta aumentando. Per cui abbiamo deciso di
modificare la tecnologia delle nostre spedizioni”.
“Non capisco. Si spieghi meglio”. Disse Edmumdo Gutierrez
che non amava gli indovinelli e voleva da collaboratori
e subordinati risposte precise, sintetiche e convincenti.
Mauricio Herrera era un subordinato anche se era il direttore
del cantiere. Almeno così si era presentato. Ma Gutierrez
era sicuro che uno come Herrera, che si esprimeva con tanta
proprietà di linguaggio, dovesse essere in realtà una sorta di
esperto delle pubbliche relazioni del cartello con il quale, da
tempo Gutierrez faceva affari in Messico.
“Quello che lei vede è l’ultimo modello di sottomarino
che stiamo finendo in questo cantiere. Inizieremo anche
qui, come in altri cantieri, la costruzione dei torpedo. Sono
sommergibili come questo, ma senza motore e trainati a una
profondità di 30 metri da un peschereccio come se fossero
un’ampia rete. In una situazione di pericolo il torpedo viene
mollato e affonda, rilasciando una boa, identica a quella della
pesca ai tonni, con un trasmettitore crittato che consente di
recuperare il natante e il carico. Ormai il novanta per cento
delle consegne va a buon fine grazie all’impiego dei torpedos”.
Gutierrez a questo punto obiettò: “Molte consegne vengono
fatte usando ultraleggeri che riescono a sfuggire ai radar…”.
“Piccole quantità non superiori al quintale e mezzo. Quello
che conta sono i grandi quantitativi. I sottomarini sino a
ora hanno garantito le consegne di tonnellate di cocaina. Ma
stiamo andando avanti... ”.
“E cioè?”.
“Il futuro sarà dei sottomarini senza equipaggio e manovrati
da terra come se fossero degli aerei drone. La tecnologia
perfezionata sugli aerei senza pilota ci consente ormai di
progettare dei drone sottomarini. E stiamo passando dalla
fase di progettazione a quella di costruzione... del resto tutto
è giustificato dalla domanda crescente di droga del mercato
americano, come lei sa meglio di me”.
Il rumore di un elicottero in avvicinamento interruppe il
dialogo tra Mauricio Herrera e l’Onorevole Gutierrez.
Guidato da una radio mobile del cantiere il velivolo atterrò
su una spianata poco distante dal bacino del sottomarino.
Herrera accompagnò l’Onorevole Gutierrez e lo aiutò a
issarsi a bordo salutandolo con la mano mentre il pilota dava
gas ai rotori e riprendeva quota.
L’onorevole Gutierrez si mise la cuffia e chiese al pilota via
microfono quale fosse il programma.
“Voleremo per circa trenta minuti e atterreremo su un aeroporto
privato dove un Falcon la sta attendendo per ricondurla
a Acapulco”.
La giungla equatoriale si snodava sotto l’elicottero che
procedeva sfiorando gli alberi per sicurezza. Tante le volte ci
fosse stato qualche malintenzionato con un lancia razzi.
“Ecco, Onorevole: quello che vede è l’ultimo modello di
sottomarino appena mimetizzato con i colori verde e celeste”.
Mauricio Herrera era impegnato a illustrare a Edmundo
Gutierrez le caratteristiche tecniche e operative dell’ultimo
nato del piccolo cantiere nella giungla. I due erano circondati
da un manipolo di guardie schierate, armate di fucili
mitragliatori.
“Interessante” sottolineò Gutierrez, “Mi racconti come è
nato il progetto e come si è evoluto nel tempo... ”.
“I primi modelli sono stati messi in acqua nel 2000. Erano
semisommergibili, navigavano sotto il pelo dell’acqua e venivano
facilmente identificati perché avevano una torretta che
sporgeva e lo scarico del motore elettro-diesel. Questo invece
è un vero sottomarino. Vede: è costruito in fibra di vetro e
legno per non essere identificato dal radar o dal sonar. Ha
due motori con un serbatoio di nafta di 5700 litri e una autonomia
di 3200 chilometri. Viaggia a undici chilometri all’ora
ovvero 5.9 nodi. Ha un equipaggio di tre persone e può portare
dieci tonnellate di cocaina dalla Colombia al Messico”.
“Quanti ne lanciate adesso?”.
Mauricio Herrera si strinse nelle spalle. “Non ho dati aggiornati
globali. Ma per quanto riguarda la nostra ‘azienda’
organizziamo circa quattro spedizioni al mese”.
Edmundo Gutierrez si mise a sedere su una delle sedie pieghevoli
e prese da un tavolino da campeggio un bicchiere di
limonata potenziata con vodka gelata. L’aria in quello spiazzo
in mezzo alla giungla era molto pesante con un’umidità che
sicuramente era intorno al cento per cento. Tutti sudavano
copiosamente.
“Ma se la guardia costiera colombiana o quella messicana
intercettano un sottomarino... ?” chiese l’onorevole.
Mauricio Herrera sorrise: “Quando vengono scoperti l’equipaggio
in un minuto affonda il sottomarino e aspetta in
acqua che la polizia li tiri a bordo. Le normative attuali impediscono
di metterli in galera se non ci sono prove schiaccianti.
È anche vero che gli americani stanno spingendo per una
modifica della legge che consenta di imprigionare anche sulla
base di un reale sospetto. Che ci fanno tre o quattro persone
a bagno in mezzo all’oceano?”.
Gutierrez si asciugò il sudore dalla fronte e dal collo con
una salvietta di carta e affrontò il secondo bicchiere questa
volta di ottima Tequila, non senza avere prima leccato il sale
che aveva messo sul dorso della mano sinistra...
“Quanto li pagate?”, chiese.
“Circa tremila dollari a testa. Che sono niente per noi,
ma per loro rappresentano una fortuna e un grosso aiuto alla
famiglia”.
“Quanti cantieri avete?”.
“Abbastanza”, rispose Mauricio Herrera senza scendere nei
particolari. Era un po’ nervoso. Quell’onorevole Gutierrez
che era stato raccomandato dalla centrale narco, doveva essere
un uomo di rispetto. Lo si vedeva e capiva subito. Ma lui
non era tenuto a scendere nei dettagli ma solo a dare informazioni
di carattere generale.
“I cantieri sono situati nei vari fiumi fangosi della costa colombiana
che si gettano nel Pacifico. Come vede, onorevole,
il fiume ogni tanto si allarga in qualche insenatura dove costruiamo
il bacino e iniziamo la costruzione che ormai viene
fatta in gran parte con prefabbricati che arrivano da diverse
parti del paese. Un luogo come questo è protetto dalle mangrovie
e dalla vegetazione tropicale”.
“Quanto costa un sottomarino?”, chiese ancora Gutierrez
che aveva fatto segno a una delle guardie di riempirgli di
nuovo il bicchiere di Tequila. “Ottima!” disse.
“La distilliamo noi, Onorevole. Quanto al sottomarino
dipende dalla lunghezza e dalla capacità di carico. Uno come
questo va sui due milioni di dollari e ci vuole circa un anno
per costruirlo. La maggior parte di questi natanti è destinata
a un solo viaggio che se va a destinazione rende un bel po’ di
guadagno... ”.
“Non meno di quattrocento cinquanta milioni di dollari”,
commentò Gutierrez accendendosi un sigaro.
Il sole stava calando e l’aria si era leggermente rinfrescata.
Gli operai che lavoravano al sottomarino si erano allontanati
diretti alle tende nelle quali dormivano, qualcuno insieme
alla propria donna.
“Ma come fanno a navigare e a orientarsi per centinaia di
miglia in uno spazio così ristretto” chiese ancora Edmundo
Gutierrez, anche se l’interrogatorio cominciava a mettere sul
chi vive Mauricio Herrera che aveva imparato sino da bambino
a non fidarsi di nessuno. Meno che mai dei cosiddetti
amici.
“Hanno il GPS che viene alimentato dalle batterie dei due
motori che hanno, come in questo modello, una potenza di
400 cavalli. E poi c’è la rete... ”.
“Che sarebbe?”.
“I cartelli più importanti hanno deciso di creare una rete
di pescherecci d’alto mare, ognuno dislocato in un settore
preciso. Questi grossi pescherecci sono un punto di riferimento
stabile per gli equipaggi che possono rifornirsi di viveri
e carburante, quando emergono”. Si trattava di informazioni
super vecchie che erano state pubblicate anche dai
media. Quindi non compromettenti.
“Mauricio: lei poco fa ha detto che il radar e il sonar non
riescono a identificare questi nuovi sottomarini che sono
costruiti in fiberglass. E allora come vengono identificati?”,
chiese pensieroso Gutierrez morsicando il sigaro.
“A vista, dall’aria, Onorevole. Anche se come vede cerchiamo
di mimetizzarli. E poi lo scarico dei motori avviene attraverso
un lungo tubo che esce dalla poppa del sottomarino
per ridurre la possibilità di essere intercettato agli infrarossi.
Purtroppo per noi i voli della guardia costiera e della polizia
si sono intensificati e anche il numero di sottomarini scoperti
in navigazione sta aumentando. Per cui abbiamo deciso di
modificare la tecnologia delle nostre spedizioni”.
“Non capisco. Si spieghi meglio”. Disse Edmumdo Gutierrez
che non amava gli indovinelli e voleva da collaboratori
e subordinati risposte precise, sintetiche e convincenti.
Mauricio Herrera era un subordinato anche se era il direttore
del cantiere. Almeno così si era presentato. Ma Gutierrez
era sicuro che uno come Herrera, che si esprimeva con tanta
proprietà di linguaggio, dovesse essere in realtà una sorta di
esperto delle pubbliche relazioni del cartello con il quale, da
tempo Gutierrez faceva affari in Messico.
“Quello che lei vede è l’ultimo modello di sottomarino
che stiamo finendo in questo cantiere. Inizieremo anche
qui, come in altri cantieri, la costruzione dei torpedo. Sono
sommergibili come questo, ma senza motore e trainati a una
profondità di 30 metri da un peschereccio come se fossero
un’ampia rete. In una situazione di pericolo il torpedo viene
mollato e affonda, rilasciando una boa, identica a quella della
pesca ai tonni, con un trasmettitore crittato che consente di
recuperare il natante e il carico. Ormai il novanta per cento
delle consegne va a buon fine grazie all’impiego dei torpedos”.
Gutierrez a questo punto obiettò: “Molte consegne vengono
fatte usando ultraleggeri che riescono a sfuggire ai radar…”.
“Piccole quantità non superiori al quintale e mezzo. Quello
che conta sono i grandi quantitativi. I sottomarini sino a
ora hanno garantito le consegne di tonnellate di cocaina. Ma
stiamo andando avanti... ”.
“E cioè?”.
“Il futuro sarà dei sottomarini senza equipaggio e manovrati
da terra come se fossero degli aerei drone. La tecnologia
perfezionata sugli aerei senza pilota ci consente ormai di
progettare dei drone sottomarini. E stiamo passando dalla
fase di progettazione a quella di costruzione... del resto tutto
è giustificato dalla domanda crescente di droga del mercato
americano, come lei sa meglio di me”.
Il rumore di un elicottero in avvicinamento interruppe il
dialogo tra Mauricio Herrera e l’Onorevole Gutierrez.
Guidato da una radio mobile del cantiere il velivolo atterrò
su una spianata poco distante dal bacino del sottomarino.
Herrera accompagnò l’Onorevole Gutierrez e lo aiutò a
issarsi a bordo salutandolo con la mano mentre il pilota dava
gas ai rotori e riprendeva quota.
L’onorevole Gutierrez si mise la cuffia e chiese al pilota via
microfono quale fosse il programma.
“Voleremo per circa trenta minuti e atterreremo su un aeroporto
privato dove un Falcon la sta attendendo per ricondurla
a Acapulco”.
La giungla equatoriale si snodava sotto l’elicottero che
procedeva sfiorando gli alberi per sicurezza. Tante le volte ci
fosse stato qualche malintenzionato con un lancia razzi.
sabato 16 maggio 2015
Capitolo 33 del giallo "W.D.C sotto traccia"
Dopo quattro ore e quarantacinque minuti di guida, superando
di gran lunga il limite di settantacinque miglia orarie
della I-10 E e della CA-62 E arrivarono a Lake Havasu City.
Kevin aveva dimostrato di essere un gran guidatore, uno
che spesso preferiva accollarsi centinaia di miglia piuttosto
che prendere un aereo, mezzo di trasporto verso il quale nutriva
il massimo del terrore. Proprio lui che di aerei se ne
intendeva perché aveva fatto tre missioni in Irak e in Afghanistan
come capitano della Guardia Nazionale.
E del resto guidando la sua potente Mercedes CL63 AMG,
biturbo, non è che rimanesse isolato dalla sua attività e dal
business. Kevin riceveva in continuazione telefonate, dettava
messaggi al computer di bordo o inviava testi a viva voce.
La sua segreteria lo teneva aggiornato nei minimi dettagli.
Di questo si rendeva conto Habib Fareh che faceva finta di
pisolare.
Arrivarono al Ponte di Londra, acquistato e ricostruito
pietra su pietra a Lake Havasu City, città che aveva visto arrivare
sul lago omonimo il sindaco della capitale inglese per
presenziare all’inaugurazione sia del ponte che del Villaggio
Inglese. Era il 1971.
Si diressero verso il London Bridge Resort, un’imponente
costruzione con piscine, scivoli d’acqua, scalo barche sul
lago. Appena usciti dalla vettura furono assaliti da un’ondata
di caldo. La temperatura era al di sopra dei cinquanta gradi
anche se il tasso di umidità era molto basso dato che il
deserto del Mohave riusciva a non farsi sconfiggere dal lago
artificiale e dettava le sue regole. Sembrava di respirare l’aria
di fronte a un forno di fusione di un laminatoio.
Al ricevimento una giovane sorridente che rispondeva al
nome di ‘Sunny’ assegnò loro le camere.
Erano quasi le sette di sera.
“Ci vediamo al Martini Restaurant, qui sotto, dopo una
doccia... Ti va bene? Diciamo alle otto?” disse Kevin.
“Perfetto”. Assentì l’arabo.
L’ambiente del ristorante era in penombra, rischiarata dalle
candele sui tavoli. Di lato il bancone del bar.
Kevin, per fare onore al nome del ristorante, era già arrivato
al terzo cocktail Martini. E continuò con impegno ordinando
una bottiglia di pregiato vino italiano.
Habib Fareh rifiutò le insistenti pressioni di Kevin che voleva
assaggiasse quel nettare venuto dalla lontana Italia.
“Sono un credente praticante” disse Habib e quando si
trattò di ordinare scelse nel menu un’insalata ‘Caprese’ di
mozzarella e pomodoro. La mozzarella non era certo di bufala,
animale che dopo lo sterminio fatto un paio di secoli
prima era apprezzato ancora per la sua carne, magari venduta
in strisce essiccate ma non certo per il latte. Quanto ai
pomodori venivano dal Messico sperando che non fossero
inquinati da salmonella.
L’arabo non aveva voglia di tenere viva la conversazione e,
nonostante gli sforzi di Kevin dopo la pseudo insalata caprese,
chiese scusa, ma dichiarandosi molto stanco per il viaggio
decise di andare a dormire. Si sarebbero rivisti alle otto il
giorno dopo per la colazione e per la visita del loft e le pratiche
successive.
Kevin vuotò la bottiglia di Primitivo che assaporava come
un nettare paradisiaco. Si sentiva in pace con se stesso e con
il mondo. Dopo i tanti morti visti sui teatri di guerra e che
gli ritornavano davanti quando qualche incubo metteva a
repentaglio il sonno, tornato in patria sano nel corpo a differenza
delle decine di migliaia di altri soldati che avevano
subito ingiurie fisiche e psichiche, adesso sentiva il bisogno -
dovere di rendersi utile al suo prossimo che in quel momento
era rappresentato da quel fratello arabo. Un tipo certo non
molto espansivo e piuttosto eccentrico. Ma si trattava di un
massone come lui che bisognava aiutare al meglio. E poi che
vai a spezzare il capello? Domani lo attendeva un’altra giornata
di impegno e ore di viaggio per tornare a casa.
Kevin dopo un paio di bicchierini di grappa (era un fanatico
dell’Italia anche se non vi si era mai recato) decise di
avviarsi barcollando verso la propria camera. Che in realtà era
una suite di due vani con angolo cucina, ampia vasca Jacuzzi.
“Dormito bene?” chiese Kevin mentre si accingeva ad affrontare
un piatto di uova con regolamentare pancetta e patate
fritte.
“Come un neonato”. Sorrise l’arabo il cui colorito tendeva
sempre di più a stingere sul verdognolo.
Finita la colazione (l’arabo si era limitato a un po’ di frutta
e yogurt) uscirono dall’hotel e a piedi, percorrendo un camminamento
tra aiuole e finte cascatelle d’acqua riciclata entrarono
nel Villaggio Inglese, imitazione alla lontana di un
ambiente stradale di Londra.
“Ecco”, disse Kevin fermandosi davanti a una porta di uno
stabile in stile Tudor. “Siamo arrivati”. Digitò un codice in
un box che era appeso alla maniglia di ingresso. Dalla scatola
trasse la chiave dell’appartamento.
Il loft era molto vasto e in buone condizioni. Chiaramente
i proprietari avevano ristrutturato l’ambiente prima di metterlo
sul mercato.
“Che te ne pare”, chiese Kevin.
“Mi sembra un’ottima soluzione. Quanto chiedono?”.
“Chiedono trecento sessantamila dollari, ma non sono
trattabili”.
“Preferisco fare una prova se sono disponibili per un affitto”.
“Ho carta bianca dalla proprietà che chiede cinque mila
dollari al mese. Ma il contratto deve essere per un anno”.
“Non ci sono problemi. Pago in contanti per un anno.
Però il contratto di leasing lo devi fare intestandolo alla mia
società”.
Kevin si attaccò al cellulare. Aprì il laptop che appoggiò sul
countertop della cucina. Tirò fuori dalla ventiquattro ore una
piccola stampante wi-fi e si mise a lavorare.
Nel frattempo Habib Fareh andava in giro osservando
l’appartamento.
Dopo una mezz’ora Kevin si rivolse all’arabo:
“Allora è tutto pronto, se vuoi firmare queste carte. Personalmente
provvederò a trasferire alla proprietà il contante
che mi hai detto di essere in grado di darmi per il quale farò
un versamento sul mio conto e successivo trasferimento bancario
ai destinatari che non sono americani”.
Habib Fareh firmò le carte come amministratore della società
libanese e consegnò a Kevin la somma richiesta in biglietti
da 100 dollari che erano contenuti in un’ampia valigia.
Kevin aveva da tempo capito che quel pagare in contanti
doveva mascherare qualcosa di poco limpido. Ma come dicono
i latini “pecunia non olet”. Così gli avevano insegnato
nel corso di letteratura al college. E poi su quella somma anticipata
avrebbe potuto ritagliarsi una cospicua provvigione a
copertura delle spese. Ma come faceva quel libanese a disporre
di tanto cash? Meglio verificare se quei biglietti da cento
erano buoni.
“Mi devo assentare per un po’ perchè ho qualche difficoltà
di collegamento con Internet. Torno tra una ventina di minuti”.
Kevin appena uscito attraversò il London Bridge si diresse
alla filiale della Bank of America all’interno del piccolo centro
commerciale.
Arrivato allo sportello chiese alla cassiera, chiaramente una
discendente dei Navajos, se poteva cambiare due biglietti da
cento dollari.
La ragazza era un po’ perplessa. Kevin le disse di avere
tre conti correnti presso la filiale di Santa Monica della stessa
banca. La ragazza digitò nel suo sistema e verificato che
l’informazione era corretta chiese a Kevin come voleva che
fossero cambiate le due banconote. In biglietti da venti. Ma
prima di consegnare il denaro inserì le due banconote in una
macchina che ne valutò la filigrana e la perfetta validità.
Ritornato sui suoi passi e attraversato di nuovo il ponte si
imbatté vicino al loft nell’arabo che gli chiese: “Tutto OK?”.
“Sì, ho avuto qualche piccola difficoltà. Ma tutto è risolto.
Queste sono le chiavi dell’appartamento. Tu che fai? Ritorni
con me a Los Angeles?”.
“No, guarda. Mentre eri assente ho fatto anch’io qualche
telefonata. Domani arriva il camion da San Diego con le mie
attrezzature. E quindi mi devo trattenere. Ti sono molto grato
per l’aiuto che mi hai dato. Nelle prossime ore restiamo in
contatto”.
E dette a Kevin il triplice fraterno abbraccio.
Dopo avere pagato il conto della sua camera e della cena,
Kevin si diresse verso il parcheggio. Aprì il portabagagli dove
mise la valigia gonfia di biglietti da cento dollari e prese
di nuovo la via di casa, questa volta senza spingere troppo
sull’acceleratore.
Mentre guidava si chiedeva chi diavolo fosse quel libanese.
“È un fratello ed è stato introdotto dal mio Maestro Venerabile”,
pensava mentre ascoltava sulla radio satellitare Sirio-
Xm un preludio di Chopin.
“Certo che questo fatto di pagare in contanti qualche dubbio
me lo lascia. Per fortuna ho verificato che le banconote
sono buone. Ma nel mio mestiere se ne incontrano di persone
strane”.
Ormai era arrivato all’altezza del passo di San Bernardino
e il traffico si era fatto più intenso.
Kevin, nonostante la stanchezza, accentuò la concentrazione,
perché quando viaggi a ottanta miglia su un’autostrada
a sei corsie non sai mai cosa ti può succedere. C’è sempre il
drogato o l’ubriaco o quello che gli prende un coccolone che
sbanda esce dalla sua ‘lane’ e ti investe.
La fiammata partì da sotto il cofano prima dell’esplosione.
La Mercedes CL63 AMG saltò in aria, investendo un paio di
vetture che procedevano nelle corsie vicine.
Si ribaltò più volte, mentre le altre macchine cercavano
in qualche modo di evitarla e alcune si tamponavano violentemente.
Finì nell’ampio spazio avallato che divideva i due
sensi di marcia dell’autostrada.
Il rogo la distrusse quasi completamente. L’incidente causo`
la chiusura dell’autostrada con decine di miglia di auto
incolonnate. Molti i feriti, alcuni gravi, dei tamponamenti.
Dopo una decina di minuti due elicotteri della polizia già
giravano sul luogo del maxincidente, mentre da diverse località
dell’area molto urbanizzata arrivavano autoambulanze e
elio ambulanze dirette poi ai più vicini nosocomi.
L’analitico rapporto della polizia stabili che l’esplosione era
stata determinata da un ritorno di fiamma dovuto al difettoso
funzionamento di uno dei due turbocompressori. Caso
raro per un brand come la Mercedes che immediatamente
avviò una richiesta per essere autorizzata a verificare il relitto
della macchina.
Dell’esplosivo al plastico e del minitimer magnetico che
l’arabo aveva introdotto sotto il parafango anteriore sinistro
nessuna traccia. Ovvio, trattandosi di un prodotto nuovo,
appena sperimentato con successo in altri attentati.
Un agente trovò tra i resti carbonizzati della potente vettura
alcuni biglietti di banca da cento dollari semibruciati.
Le banconote esaminate presso il Bureau of Engraving and
Printing, la Zecca di Washington, risultarono essere perfettamente
contraffatte.
di gran lunga il limite di settantacinque miglia orarie
della I-10 E e della CA-62 E arrivarono a Lake Havasu City.
Kevin aveva dimostrato di essere un gran guidatore, uno
che spesso preferiva accollarsi centinaia di miglia piuttosto
che prendere un aereo, mezzo di trasporto verso il quale nutriva
il massimo del terrore. Proprio lui che di aerei se ne
intendeva perché aveva fatto tre missioni in Irak e in Afghanistan
come capitano della Guardia Nazionale.
E del resto guidando la sua potente Mercedes CL63 AMG,
biturbo, non è che rimanesse isolato dalla sua attività e dal
business. Kevin riceveva in continuazione telefonate, dettava
messaggi al computer di bordo o inviava testi a viva voce.
La sua segreteria lo teneva aggiornato nei minimi dettagli.
Di questo si rendeva conto Habib Fareh che faceva finta di
pisolare.
Arrivarono al Ponte di Londra, acquistato e ricostruito
pietra su pietra a Lake Havasu City, città che aveva visto arrivare
sul lago omonimo il sindaco della capitale inglese per
presenziare all’inaugurazione sia del ponte che del Villaggio
Inglese. Era il 1971.
Si diressero verso il London Bridge Resort, un’imponente
costruzione con piscine, scivoli d’acqua, scalo barche sul
lago. Appena usciti dalla vettura furono assaliti da un’ondata
di caldo. La temperatura era al di sopra dei cinquanta gradi
anche se il tasso di umidità era molto basso dato che il
deserto del Mohave riusciva a non farsi sconfiggere dal lago
artificiale e dettava le sue regole. Sembrava di respirare l’aria
di fronte a un forno di fusione di un laminatoio.
Al ricevimento una giovane sorridente che rispondeva al
nome di ‘Sunny’ assegnò loro le camere.
Erano quasi le sette di sera.
“Ci vediamo al Martini Restaurant, qui sotto, dopo una
doccia... Ti va bene? Diciamo alle otto?” disse Kevin.
“Perfetto”. Assentì l’arabo.
L’ambiente del ristorante era in penombra, rischiarata dalle
candele sui tavoli. Di lato il bancone del bar.
Kevin, per fare onore al nome del ristorante, era già arrivato
al terzo cocktail Martini. E continuò con impegno ordinando
una bottiglia di pregiato vino italiano.
Habib Fareh rifiutò le insistenti pressioni di Kevin che voleva
assaggiasse quel nettare venuto dalla lontana Italia.
“Sono un credente praticante” disse Habib e quando si
trattò di ordinare scelse nel menu un’insalata ‘Caprese’ di
mozzarella e pomodoro. La mozzarella non era certo di bufala,
animale che dopo lo sterminio fatto un paio di secoli
prima era apprezzato ancora per la sua carne, magari venduta
in strisce essiccate ma non certo per il latte. Quanto ai
pomodori venivano dal Messico sperando che non fossero
inquinati da salmonella.
L’arabo non aveva voglia di tenere viva la conversazione e,
nonostante gli sforzi di Kevin dopo la pseudo insalata caprese,
chiese scusa, ma dichiarandosi molto stanco per il viaggio
decise di andare a dormire. Si sarebbero rivisti alle otto il
giorno dopo per la colazione e per la visita del loft e le pratiche
successive.
Kevin vuotò la bottiglia di Primitivo che assaporava come
un nettare paradisiaco. Si sentiva in pace con se stesso e con
il mondo. Dopo i tanti morti visti sui teatri di guerra e che
gli ritornavano davanti quando qualche incubo metteva a
repentaglio il sonno, tornato in patria sano nel corpo a differenza
delle decine di migliaia di altri soldati che avevano
subito ingiurie fisiche e psichiche, adesso sentiva il bisogno -
dovere di rendersi utile al suo prossimo che in quel momento
era rappresentato da quel fratello arabo. Un tipo certo non
molto espansivo e piuttosto eccentrico. Ma si trattava di un
massone come lui che bisognava aiutare al meglio. E poi che
vai a spezzare il capello? Domani lo attendeva un’altra giornata
di impegno e ore di viaggio per tornare a casa.
Kevin dopo un paio di bicchierini di grappa (era un fanatico
dell’Italia anche se non vi si era mai recato) decise di
avviarsi barcollando verso la propria camera. Che in realtà era
una suite di due vani con angolo cucina, ampia vasca Jacuzzi.
“Dormito bene?” chiese Kevin mentre si accingeva ad affrontare
un piatto di uova con regolamentare pancetta e patate
fritte.
“Come un neonato”. Sorrise l’arabo il cui colorito tendeva
sempre di più a stingere sul verdognolo.
Finita la colazione (l’arabo si era limitato a un po’ di frutta
e yogurt) uscirono dall’hotel e a piedi, percorrendo un camminamento
tra aiuole e finte cascatelle d’acqua riciclata entrarono
nel Villaggio Inglese, imitazione alla lontana di un
ambiente stradale di Londra.
“Ecco”, disse Kevin fermandosi davanti a una porta di uno
stabile in stile Tudor. “Siamo arrivati”. Digitò un codice in
un box che era appeso alla maniglia di ingresso. Dalla scatola
trasse la chiave dell’appartamento.
Il loft era molto vasto e in buone condizioni. Chiaramente
i proprietari avevano ristrutturato l’ambiente prima di metterlo
sul mercato.
“Che te ne pare”, chiese Kevin.
“Mi sembra un’ottima soluzione. Quanto chiedono?”.
“Chiedono trecento sessantamila dollari, ma non sono
trattabili”.
“Preferisco fare una prova se sono disponibili per un affitto”.
“Ho carta bianca dalla proprietà che chiede cinque mila
dollari al mese. Ma il contratto deve essere per un anno”.
“Non ci sono problemi. Pago in contanti per un anno.
Però il contratto di leasing lo devi fare intestandolo alla mia
società”.
Kevin si attaccò al cellulare. Aprì il laptop che appoggiò sul
countertop della cucina. Tirò fuori dalla ventiquattro ore una
piccola stampante wi-fi e si mise a lavorare.
Nel frattempo Habib Fareh andava in giro osservando
l’appartamento.
Dopo una mezz’ora Kevin si rivolse all’arabo:
“Allora è tutto pronto, se vuoi firmare queste carte. Personalmente
provvederò a trasferire alla proprietà il contante
che mi hai detto di essere in grado di darmi per il quale farò
un versamento sul mio conto e successivo trasferimento bancario
ai destinatari che non sono americani”.
Habib Fareh firmò le carte come amministratore della società
libanese e consegnò a Kevin la somma richiesta in biglietti
da 100 dollari che erano contenuti in un’ampia valigia.
Kevin aveva da tempo capito che quel pagare in contanti
doveva mascherare qualcosa di poco limpido. Ma come dicono
i latini “pecunia non olet”. Così gli avevano insegnato
nel corso di letteratura al college. E poi su quella somma anticipata
avrebbe potuto ritagliarsi una cospicua provvigione a
copertura delle spese. Ma come faceva quel libanese a disporre
di tanto cash? Meglio verificare se quei biglietti da cento
erano buoni.
“Mi devo assentare per un po’ perchè ho qualche difficoltà
di collegamento con Internet. Torno tra una ventina di minuti”.
Kevin appena uscito attraversò il London Bridge si diresse
alla filiale della Bank of America all’interno del piccolo centro
commerciale.
Arrivato allo sportello chiese alla cassiera, chiaramente una
discendente dei Navajos, se poteva cambiare due biglietti da
cento dollari.
La ragazza era un po’ perplessa. Kevin le disse di avere
tre conti correnti presso la filiale di Santa Monica della stessa
banca. La ragazza digitò nel suo sistema e verificato che
l’informazione era corretta chiese a Kevin come voleva che
fossero cambiate le due banconote. In biglietti da venti. Ma
prima di consegnare il denaro inserì le due banconote in una
macchina che ne valutò la filigrana e la perfetta validità.
Ritornato sui suoi passi e attraversato di nuovo il ponte si
imbatté vicino al loft nell’arabo che gli chiese: “Tutto OK?”.
“Sì, ho avuto qualche piccola difficoltà. Ma tutto è risolto.
Queste sono le chiavi dell’appartamento. Tu che fai? Ritorni
con me a Los Angeles?”.
“No, guarda. Mentre eri assente ho fatto anch’io qualche
telefonata. Domani arriva il camion da San Diego con le mie
attrezzature. E quindi mi devo trattenere. Ti sono molto grato
per l’aiuto che mi hai dato. Nelle prossime ore restiamo in
contatto”.
E dette a Kevin il triplice fraterno abbraccio.
Dopo avere pagato il conto della sua camera e della cena,
Kevin si diresse verso il parcheggio. Aprì il portabagagli dove
mise la valigia gonfia di biglietti da cento dollari e prese
di nuovo la via di casa, questa volta senza spingere troppo
sull’acceleratore.
Mentre guidava si chiedeva chi diavolo fosse quel libanese.
“È un fratello ed è stato introdotto dal mio Maestro Venerabile”,
pensava mentre ascoltava sulla radio satellitare Sirio-
Xm un preludio di Chopin.
“Certo che questo fatto di pagare in contanti qualche dubbio
me lo lascia. Per fortuna ho verificato che le banconote
sono buone. Ma nel mio mestiere se ne incontrano di persone
strane”.
Ormai era arrivato all’altezza del passo di San Bernardino
e il traffico si era fatto più intenso.
Kevin, nonostante la stanchezza, accentuò la concentrazione,
perché quando viaggi a ottanta miglia su un’autostrada
a sei corsie non sai mai cosa ti può succedere. C’è sempre il
drogato o l’ubriaco o quello che gli prende un coccolone che
sbanda esce dalla sua ‘lane’ e ti investe.
La fiammata partì da sotto il cofano prima dell’esplosione.
La Mercedes CL63 AMG saltò in aria, investendo un paio di
vetture che procedevano nelle corsie vicine.
Si ribaltò più volte, mentre le altre macchine cercavano
in qualche modo di evitarla e alcune si tamponavano violentemente.
Finì nell’ampio spazio avallato che divideva i due
sensi di marcia dell’autostrada.
Il rogo la distrusse quasi completamente. L’incidente causo`
la chiusura dell’autostrada con decine di miglia di auto
incolonnate. Molti i feriti, alcuni gravi, dei tamponamenti.
Dopo una decina di minuti due elicotteri della polizia già
giravano sul luogo del maxincidente, mentre da diverse località
dell’area molto urbanizzata arrivavano autoambulanze e
elio ambulanze dirette poi ai più vicini nosocomi.
L’analitico rapporto della polizia stabili che l’esplosione era
stata determinata da un ritorno di fiamma dovuto al difettoso
funzionamento di uno dei due turbocompressori. Caso
raro per un brand come la Mercedes che immediatamente
avviò una richiesta per essere autorizzata a verificare il relitto
della macchina.
Dell’esplosivo al plastico e del minitimer magnetico che
l’arabo aveva introdotto sotto il parafango anteriore sinistro
nessuna traccia. Ovvio, trattandosi di un prodotto nuovo,
appena sperimentato con successo in altri attentati.
Un agente trovò tra i resti carbonizzati della potente vettura
alcuni biglietti di banca da cento dollari semibruciati.
Le banconote esaminate presso il Bureau of Engraving and
Printing, la Zecca di Washington, risultarono essere perfettamente
contraffatte.
sabato 9 maggio 2015
Capitolo 32 del giallo "WDC sotto traccia"
“Welcome to Santa Monica-Palisades Lodge #307” diceva
la targa situata al 926 del Santa Monica Boulevard, una moderna
costruzione che conteneva anche alcune camere con
bagno per 'fratelli' in visita da altri stati della Federazione o
dall’estero.
L’ospite si presentò al primo piano dove già alcuni fratelli
sedevano sulle poltrone dell’ingresso in attesa dell’apertura
della stated communication della Loggia.
Sguardi distratti da parte dei più anziani. Un giovane
gli venne incontro sorridendo e gli chiese in cosa poteva
essergli utile.
A sua volta l’ospite sorrise e disse: “Sono un fratello libanese.
Ho qui con me le lettere della mia Grand Lodge che
attestano il mio ‘good standing massonico”. Con chi devo
parlare? Chi è il vostro segretario?”.
Il giovane fratello gli disse di attendere e gli indicò una
poltrona prima di entrare all’interno del tempio. Dopo qualche
minuto uscì insieme a un altro massone di mezza età.
“Sono il segretario della Loggia. Bene arrivato. Posso vedere
i tuoi documenti, please?”.
L’ospite tirò fuori dalla sua borsa alcuni fogli che il segretario
esaminò.
“Bene arrivato tra noi, fratello Habib Fareh. Il nostro meeting
inizierà tra poco. Puoi prendere un apron, un grembiule
di cortesia, da quella scatola messa accanto al libro delle presenze
dove puoi registrare il tuo nome e quello della loggia di
appartenenza all’obbedienza della Gran Loggia del Libano”.
“Grazie”, rispose l’arabo, “Ma preferisco indossare il mio
apron che ho qui nella mia valigetta”. Varcata la soglia del
tempio prese posto al ‘sud’, nella fila di poltrone vicine al
Junior Warden.
Prima di dare inizio al rituale di apertura il Maestro Venerabile
della Loggia si avvicinò a Habib Fareh salutandolo
con simpatia. Poi salì i tre gradini dell’Oriente e messo sul
capo il cilindro batté un colpo di maglietto e iniziò il dialogo
secondo il rito York con il primo e il secondo ‘Sorvegliante’.
“Caro Fratello, rimani con noi per il nostro buffet. Una
cosa modesta, ma è un modo per stare ancora insieme”, disse
il Maestro Venerabile della Loggia.
Nella sala era stata allestita, come di consueto al termine
dei lavori dell’officina, una sfilata di panini, patatine, insalata,
gelato, maionese che i fratelli mettevano tutti insieme,
dolce e salato, in un solo piatto.
Habib Fareh prese un disgustoso panino al prosciutto, una
busta di patatine, un bicchiere di Pepsi e si mise a sedere
al tavolo del Maestro Venerabile, dove altri sei già avevano
preso posto.
“Sei qui per lavoro o per turismo?” chiese il capo della
loggia.
“Per lavoro. Sto cercando un appartamento da comprare
in Arizona, a Lake Havasu, dove voglio aprire uno studio
fotografico. Ho una grossa esperienza in questo settore”.
Il Maestro Venerabile sorrise. “Ho la persona che fa per te,
se non hai trovato già qualche agente immobiliare”. E rivolto
al tavolo accanto disse a uno dei commensali: “Kevin, forse
puoi essere di qualche aiuto al nostro fratello libanese”.
Un pò sorpreso Kevin, uno dei più noti agenti immobiliari
di Santa Monica, si avvicinò al tavolo del Maestro Venerabile
e scambiò una stretta di mano con l’arabo.
“Hi, Fratello in cosa posso esserti utile?”.
Fissarono di vedersi il giorno dopo nello studio di Kevin
sulla Promenade street, la strada chiusa al traffico di Santa
Monica, dove si esibiscono gli artisti da strada più bravi d’America.
“Ma che ci vuoi andare a fare a Lake Havasu?” chiese con
aria impertinente Kevin, allungando i piedi sulla scrivania
mentre tirava una boccata al sigaro Havana.
“Domanda più che lecita”, rispose Habib. “Partendo da
Lake Havasu voglio documentarmi su come sono stati realizzati
questi enormi invasi artificiali che danno acqua a tre
stati. E soprattutto alla California che, altrimenti, morirebbe
di sete. È stata fatta una violenza alla natura, al deserto, con
dei risultati sconvolgenti. Qualcosa di simile è stato fatto con
le dighe sul Tigri e l’Eufrate, Quella costruita da Ataturk in
Turchia ha dato vita a un grande territorio con incremento
delle coltivazioni. I vostri tre laghi sul Colorado hanno creato
grandi comunità turistiche e sono una inesauribile fonte di
produzione di energia elettrica, garantendo l’approvvigionamento
di acqua agli assetati abitanti del Nevada, Arizona e
California”.
“Il mondo è bello perché è vario”, commentò Kevin. “Penso
di poterti essere d’aiuto perché come agente immobiliare
sono autorizzato a esercitare anche in Arizona”.
Si mise a consultare il laptop.
“Credo di avere trovato qualcosa di interessante. Vieni
qui vicino. Ecco, vedi: questo grande loft è situato nel cosiddetto
Villaggio Inglese, a poche decine di metri dal London
Bridge, la copia del ponte di Londra voluta dall’imprenditore
McCulloch, quello noto per le seghe a motore. Ma famoso
anche perché con i suoi motori vennero costruiti i primi gokart.
Ti piacciono i gokart?”.
“Ad essere sincero non mi interessano proprio. Comunque
vedo dalle foto che si tratta forse di una buona soluzione per
quello che sto cercando. Come si potrebbe fare?”.
“Senti: visto che sei un fratello e visto che voglio prendermi
un giorno libero ti ci porto io. Dobbiamo partire subito
perchè ci sono 300 miglia da fare. Dormiamo al London
Bridge Resort. Domattina vediamo il loft. Se ti va concludiamo
il tutto e io ritorno a LA nel pomeriggio”.
“Ti sottoponi a una tremenda sfacchinata... ”.
“Lo faccio volentieri per aiutarti in pieno spirito massonico.
Tra mezz’ora partiamo, OK?”.
“Va bene”.
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